Nuova finanza pubblica. 2013: pil mondiale 75mila miliardi $ – attività finanziarie 993mila miliardi
La
più sintetica fotografia del nostro tempo è nel rapporto tra due
numeri, riferiti al 2013, che definiscono l’ammontare del Pil mondiale
e il volume delle attività finanziarie: ebbene, mentre il primo
dato è pari a 75 bilioni di dollari (75mila miliardi), il secondo
è pari 993 bilioni di dollari (993mila miliardi). E se in 10 anni il
prodotto interno lordo mondiale è raddoppiato, il volume delle
attività finanziarie è triplicato, con nessuna soluzione di
continuità, malgrado la crisi globale esplosa nel 2007 e tuttora
in corso.
Ad aumentare l’inquietudine di questi
dati è l’analisi della struttura di questa enorme massa di denaro:
solo 283mila dei 993mila miliardi di dollari costituiscono la
cosiddetta finanza primaria, ovvero azioni, obbligazioni ed attivi
bancari, mentre i restanti 710mila miliardi di dollari sono prodotti
derivati scambiati fuori dai mercati regolamentati (la
cosiddetta «shadow banking», finanza-ombra), dei quali solo
un’infinitesima parte è legata a transazioni che hanno a che fare con
l’economia reale.
Per fare un esempio, su 100 scommesse
finanziarie sul prezzo del grano, solo una è direttamente legata
alla produzione e alla distribuzione dello stesso, mentre le altre
99 sono pure speculazioni finanziarie.
Dentro questa enorme massa di denaro, basata su scommesse sui tassi di interesse, sulle valute, sui prezzi delle materie prime, sull’andamento degli indici azionari, sul fallimento di stati o di grandi imprese, secondo la stime della Bacca dei Regolamenti Internazionali, si annidano rischi massimi pari a 19mila miliardi, una cifra superiore al prodotto interno lordo degli Stati Uniti.
Dentro questa enorme massa di denaro, basata su scommesse sui tassi di interesse, sulle valute, sui prezzi delle materie prime, sull’andamento degli indici azionari, sul fallimento di stati o di grandi imprese, secondo la stime della Bacca dei Regolamenti Internazionali, si annidano rischi massimi pari a 19mila miliardi, una cifra superiore al prodotto interno lordo degli Stati Uniti.
Potrebbe dunque essere una buona
notizia l’annuncio, fatto nei giorni scorsi, dell’avvio di un’indagine
parlamentare sui contratti derivati dello Stato e degli enti locali
in Italia, che durerà quattro mesi, con le audizioni del Ministero
dell’Economia, Corte dei Conti, Cassa Depositi e Prestiti, Consob,
Banca d’Italia, Associazione Bancaria Italiana, Conferenza delle
Regioni e Anci.
Parliamo di un ammontare presunto di
160 miliardi di contratti derivati stipulati dallo Stato e di almeno
21 miliardi in mano a 284 enti locali (cifra senz’altro incompleta, in
quanto si riferisce ai derivati contratti dopo il 2008, quando il
monitoraggio è divenuto obbligatorio).
Bene la commissione d’indagine
dunque. Peccato, tuttavia, che gli stessi gruppi parlamentari che
hanno votato all’unanimità il provvedimento, si siano decisamente
distratti quando, negli stessi giorni, in Commissione Bilancio si
è affrontato –e approvato– l’art. 33 della Legge di Stabilità, che
prevede, proprio in merito ai derivati in pancia al Tesoro, la
possibilità di attivare contratti nei quali le due parti, e quindi
anche il Ministero, forniscono garanzie reali depositando titoli
liquidi (in gergo «collateral») a fronte della posizione debitoria
in un contratto. In pratica, le banche d’affari con cui il Tesoro ha
stipulato derivati potranno ottenere depositi di garanzia che le
tutelino in caso di default dell’Italia, divenendo creditori
privilegiati, ovvero i primi a essere rimborsati con pieno ritorno
dell’investimento. Tra i piccoli risparmiatori e i colossi Deutsche
Bank, Morgan Stanley e JP Morgan, il governo Renzi ha decisamente
scelto questi ultimi.
D’altronde, se gli elettori hanno capito il trucco e disertano le urne, meglio ancorarsi ai poteri forti.
* (Attac Italia)
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