OSARE PIU’ DEMOCRAZIA di Barbara Spinelli, La Repubblica
La
democrazia deve cambiare forma e rimpicciolirsi, a causa della crisi? E
andando alla sostanza: c’è un tempo per la democrazia e uno per
l’economia — come c’è un tempo per piangere e ridere, per demolire e
costruire — diversi l’uno dall’altro e concepibili solo in successione?
A
giudicare da quel che accade in Italia si direbbe che questo sia il
convincimento di chi governa, quando non riesce a fronteggiare il
degrado democratico nei modi che scelse il cancelliere Willy Brandt, in
un altro momento critico della storia recente.
«Quel che
vogliamo è osare più democrazia», disse Brandt il 28 ottobre 1969, e
promise metodi di governo «più aperti ai bisogni di critica e
informazione » espressi dalla società, «più discussioni in Parlamento »,
e una permanente concertazione «con i gruppi rappresentativi del
popolo, in modo che ogni cittadino abbia la possibilità di contribuire
attivamente alla riforma dello Stato e della società». Ai cittadini si
chiedeva più responsabilità (specie ai giovani contestatori del ‘68): ma
i doveri s’iscrivevano in una democrazia più estesa, partecipata. Non
sembra vadano in questo senso le riforme costituzionali del Premier Pd,
né le parole di chi gli è vicino, riportate su questo giornale da
Claudio Tito: «Per governare efficacemente nel XXIsecolo serve
soprattutto velocità: approvazione o bocciatura rapida dei disegni di
legge e capacità di mantenere la sintonia con tutti i componenti della
squadra ». Velocizzare, semplificare, dilatare i poteri dell’esecutivo:
questi gli imperativi. Cambiano le sequenze, perfino i vocaboli:
prioritaria diventa la rapidità, e i ministri sono «componenti di
squadre».
Renzi non
è il primo a dire queste cose, né l’Italia è l’unica democrazia
debilitata dalla crisi. Sono spesso così, gli interregni: ci si congeda
dal vecchio ordine, e al suo posto se ne insedia uno che solo in
apparenza rispecchia le mutazioni in corso. Ovunque i governi sentono
che la terra trema, sotto di loro, e imputano il terremoto a una
democrazia troppo lenta, a elezioni troppo frequenti. Denunciano a
ragione la fatica dell’azione, ma si guardano dallo smascherarne i
motivi profondi. La perdita di sovranità e il trasferimento dei poteri
reali verso entità internazionali spoliticizzate sono il problema, non i
«lacci» interni che sono la Costituzione, i sindacati, addirittura il
suffragio universale. Il farmaco non è la velocità in sé, ma il cambio
di prospettiva. L’equivoco è ben spiegato dal sociologo Zygmunt Bauman:
la crisi del governare è indubbia, «benché in definitiva sia una crisi
di sovranità territoriale» (Repubblica 29/3).
Renzi non
smaschera i mali autentici, quando propone l’accentramento crescente
dei poteri in mano all’esecutivo, la diminuzione degli organi eletti dal
popolo, lo svigorimento di istituzioni e associazioni nate dalla
democrazia: Senato in primo luogo, ma anche sindacati e perfino
soprintendenze (il cui scopo è quello di occuparsi del patrimonio
artistico italiano resistendo ai privati). Una delle sue frasi
emblematiche è: se Cgil o Confindustria s’oppongono, «ce ne faremo una
ragione». I traumi ci saranno, ma alla lunga la loro razionalità sarà
chiara. C’è una differenza, fra la sua accelerazione e quella di Brandt.
Scansare
gli ingombri della democrazia è una tentazione ormai antica in Italia.
Cominciò la P2, poi seguita da Berlusconi. Ma il pericolo di una
bancarotta dello Stato, e i costi di una politica colpita dal
discredito, hanno dato più forza a queste idee, seducendo governi
tecnici e anche il Pd. Memorabile fu la dichiarazione di Monti,
intervistato dallo Spie-gel il 5 agosto 2012. Accennando ai veti opposti
dai Paesi nordici alle decisioni europee, e al mandato affidatogli
dalla Camera (difendere a Bruxelles gli eurobond), disse: «Capisco che
debbano tener conto del loro Parlamento, ma ogni governo ha anche il
dovere di educare le Camere. (…) Se io mi fossi attenuto in maniera del
tutto meccanica alle direttive del mio Parlamento, non avrei mai potuto
approvare le decisioni dell’ultimo vertice di Bruxelles. Se i governi si
lasciano totalmente ingabbiare dalle decisioni dei Parlamenti senza
preservare la propria libertà di agire, avremmo lo sfaldamento
dell’Europa».
Renzi
dunque completa ragionamenti già in circolazione, e li trasforma in
«spirito del tempo». Quel che non aveva previsto, era la critica che
sarebbe venuta dal presidente del Senato Pietro Grasso, oltre che
l’allarme creatosi fra costituzionalisti come Gustavo Zagrebelsky e
Stefano Rodotà. La riforma potrebbe indebolire la democrazia, sostiene
Grasso nell’intervista a Liana Milella su Repubblicadi domenica. Mutare
il ruolo del Senato e abolire le Province è importante, ma qui si stanno
facendo altre cose. Il Senato resta, solo che cessa di essere elettivo.
E restano di fatto le Province, anch’esse non più elettive ma governate
da dirigenti comunali.
L’ambizione
è liberare l’Italia dai lacci che l’imbrigliano, ma la paralisi
decisionale non si supera riducendo gli organi intermedi creati per
servire l’interesse generale, o rendendoli non elettivi. Tantomeno può
imbarcarsi in simile impresa un Parlamento certo legale, ma che la
Consulta ha sostanzialmente delegittimato giudicando incostituzionale il
modo in cui è stato eletto.
Più
fondamentalmente, l’impotenza dei governi non si sormonta ignorando il
male scatenante che è appunto la loro dipendenza dai mercati, e cioè da
forze anonime, non elette, quindi non licenziabili. Sono loro a decidere
il lecito e l’illecito. È stata la JP Morgan a sentenziare, in un
rapporto del 28-5-13, che l’intralcio, nel Sud Europa, viene da
costituzioni troppo influenzate dall’antifascismo postbellico:
costituzioni «caratterizzate da esecutivi e stati centrali deboli, dalla
protezione dei diritti del lavoro, dal diritto di protesta contro ogni
mutamento sgradito dello status quo».
Così come
dalla crisi europea si esce con più Europa, anche dalla crisi delle
democrazie si esce con più democrazia. Lo disse fin dall’800
Tocqueville, esaminando i difetti delle società democratiche. Si esce
ampliando i sistemi del check and balance, dei controlli e contrappesi:
frenando con altri poteri la tendenza del potere a straripare. I
continui conflitti sociali e istituzionali sono un rischio delle
democrazie, non una maledizione. Sbarazzarsene con leggi elettorali non
rappresentative o eludendo le obiezioni («ce ne faremo una ragione»)
sfocia nel contrario esatto di quel che si vuole: i conflitti
inacidiscono, l’opposizione non ascoltata disimpara a trattare. Resta il
rapporto diretto fra leader e popolo, non dissimile dall’»unzione»
plebiscitaria di Berlusconi. E Renzi neppure è un Premier eletto. Quando
parla di «promesse fatte agli italiani », non si sa bene a cosa si
riferisca.
Salvare
le costituzioni in un solo Paese non è possibile: questo è vero e
andrebbe detto. Occorre che l’Europa e il mondo si dotino di strumenti
democratici per governare poteri già sconnessi dalle sovranità
territoriali: gli interessi finanziari e commerciali, l’informazione, il
commercio della droga e delle armi, la criminalità, il terrorismo.
Manca un ordine nuovo che li controlli, e cui i cittadini aderiscano non
più nazionalmente (è impossibile) ma per patriotti-smo costituzionale,
come preconizzato nel ‘79 dal filosofo liberale Dolf Sternberger, prima
che Habermas resuscitasse il concetto. Manca uno spirito cosmopolita
della democrazia: qui è il cambio di prospettiva. L’Europa potrebbe
incarnarlo, se agisse come argine contro le crisi delle democrazie
nazionali, e al contempo contro l’arbitrio dei mercati. Più democrazia e
più governabilità non si escludono a vicenda; non si conquistano «in
sequenza ». O si realizzano insieme, o perderemo l’una e l’altra.
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