martedì 2 dicembre 2014

1914-2014. NIENTE DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE. IERI COME OGGI di Sebastiano Isaia

1Causa di questa prima guerra mondiale
è
il capitalismo mondiale, che cerca di
espandersi (Herman Gorter, ottobre 1914).
Gli scienziati forniscono alla guerra armi, per poter contribuire, da parte loro, ad
abbattere il nemico. L’antropologo cerca di dimostrare che l’avversario appartiene a una razza inferiore e degenerata; lo psichiatra scopre nello stesso perturbamenti psichici ed intellettuali. L’individuo che non faccia parte dei combattenti e non costituisca un ingranaggio della gigantesca macchina di guerra, si sente disorientato, sminuito dal punto di vista del rendimento funzionale (Sigmund Freud, 1915).

Il libro di Erich Maria Remarque Im Westen nichts Neues fu pubblicato nel 1929, ossia in un anno che a giusta ragione evoca in noi lo spettro della crisi sociale e della guerra mondiale che divamperà nuovamente dieci anni dopo. In effetti, Remarque (nato come Erich Paul Remark nel 1898 nella regione tedesca del Westfalen da una famiglia di origine francese) iniziò a scrivere il libro nella seconda metà degli anni Venti, e già nel 1927 il manoscritto fu sottoposto all’attenzione degli editori tedeschi, che lo accolsero con molta diffidenza, se non con ostilità. Il contenuto fortemente critico dell’opera nei confronti della recente esperienza bellica consigliavano una presa di distanza editoriale, per così dire.
Va detto che la critica svolta dall’autore ha un carattere più oggettivo, riscontrabile nell’asciutta descrizione dei fatti, che soggettivo. Tuttavia la sofferenza esistenziale di Remarque trova ampio spazio nelle pagine del libro, il quale nell’intenzione dell’autore «non vuol essere né un atto di accusa né una confessione [ma] il tentativo di raffigurare una generazione la quale – anche se sfuggì alle granate – venne distrutta dalla guerra». A mio modesto avviso il tentativo di Remarque ha colto in pieno l’obiettivo, e chi voglia farsi anche solo un’idea appena abbozzata di cosa significò per i fanti di tutte le nazioni belligeranti la Grande Guerra, non ha che da leggere il suo libro.
Chiamato nel 1916 dalla Patria in armi a dare il suo patriottico contributo alla «causa della civiltà», il giovane Remarque è costretto a interrompere gli studi iniziati nel 1915 nel seminario cattolico di Osnarbruch. L’anno successivo è destinato al fronte francese nord-occidentale presso Verdun, dove vive in prima linea uno dei più aspri combattimenti della prima guerra mondiale, la Battaglia delle Fiandre, uno dei più terribili combattimenti della prima guerra mondiale.
Appena sotto riporterò alcuni brani tratti dall’opera di Remarque che ben descrivono la tragedia di quegli anni terribili, iniziata da tanti “figli di papà” con l’esaltazione patriottica e gli Evviva!, e conclusasi per molti di loro, sicuramente per la maggioranza, nella più abissale delle sofferenze psicologiche. La guerra ha ucciso tutti, osserva lo scrittore tedesco, anche i vivi.
640px-All_Quiet_Western_FrontAll’uscita del libro i nazionalisti accusarono Remarque di disfattismo antipatriottico, e la proiezione della sua versione cinematografica (All Quiet on the Western Front) suscitò violente manifestazioni di protesta da parte dei denigratori più ottusi, i quali durante l’anteprima berlinese del 1930 lanciarono in platea topi di… provata fede patriottica! Si trattò probabilmente dello stesso «stormo di topi» che, insieme ai pidocchi e agli altri parassiti che amano il calore umano, aveva contribuito a rendere insopportabilmente odiosa la vita del fante nelle trincee anche nei momenti di tregua tra un assalto e l’altro.
In Italia la censura fascista vietò sia la pubblicazione del libro (anche se esiste una prima edizione curata dall’Arnoldo Mondatori Editori del 1931) sia la proiezione del film. In seguito il libro sarà edito dalla Mondadori nel 1950 (io cito dall’edizione del 1959), ma il film a esso ispirato, doppiato in italiano dalla Universal nel 1950, sarà più volte respinto dalla commissione di revisione. Evidentemente il film non fu allora considerato in linea con i canoni estetici del neorealismo con caratteristiche italiane. La sua proiezione sarà autorizzata solo alla fine del 1955. Insomma, anche in fatto di censura si nota una certa continuità tra il regime fascista e il successivo – nonché legittimo erede – regime «nato dalla Resistenza».
Nel 1933 i nazisti bruciarono e misero al bando le opere di Remarque, mentre la propaganda nazionalsocialista fece circolare la voce che egli discendesse da ebrei francesi. Lo scrittore, che dal 1931 si trovava fuori dalla Germania (in Svizzera), pensò bene di tenersi alla larga dal Reich Millenario, almeno nelle intenzioni del Führer chiamato a restaurare il Principio d’Ordine. Nel 1938 il regime Nazionalsocialista gli tolse la cittadinanza tedesca. Nel 1939 il presunto «ebreo Kramer» (il giudeo come uomo rovesciato?) si trasferì negli Stati Uniti, ottenendo la cittadinanza statunitense nel 1947. Morirà a Locarno il 25 settembre 1970.
Mi sono permesso di dare dei titoli ai passi citati. Buona lettura. immagine_all-ovest-niente-di-nuovo_26198
Camerati e “vigliacchi”
«Kantorek era il nostro professore: un ometto severo, vestito di grigio, con un muso da topo … Lo vedo ancora davanti a me, quando ci fulmina attraverso i suoi occhiali e ci domandava con voce commossa: “Venite anche voi, nevvero, camerati? … Ce n’era uno, però, che esitava, non se la sentiva. Si chiamava Giuseppe Behm, un ragazzotto grasso e tranquillo. Si lasciò finalmente persuadere anche lui, perché altrimenti si sarebbe reso impossibile. Può darsi che parecchi la pensassero allo stesso modo; ma nessuno poté tirarsi fuori; a quell’epoca persino i genitori avevano la parola “vigliacco” a portata di mano. Gli è che la gente non aveva la più lontana idea di ciò che stava per accadere. In fondo i soli veramente ragionevoli erano i poveri, i semplici, che stimarono subito la guerra una disgrazia, mentre i benestanti non si tenevano dalla gioia, quantunque proprio essi avrebbero potuto rendersi conto delle conseguenze» (pp. 17-18).

Il valore dei fanti. Il valore degli stivali
«Eccomi seduto al capezzale di Kemmerich; è sempre più giù poveretto. Intorno a noi c’è molta confusione. È arrivato un convoglio di feriti, si stanno scegliendo i trasportabili. Il medico passa davanti al letto di Kemmerich, ma non si ferma neppure a guardarlo. “Sarà per la prossima volta, Cecco” gli dico. Egli si solleva un po’ sui gomiti: “Sai, mi hanno amputato”. Dunque ora lo sa. Io gli accenno di sì, col capo, e soggiungo: “Sii contento di essertela cavata così. Potevano esser tutt’e due le gambe, Cecco. Wegeler ha perduto il braccio destro: è molto peggio. Così te ne vai a casa”. Mi guarda in faccia: “Credi?” “Ma naturale. … Si fanno oggi delle protesi straordinarie, non ti accorgi neppure che ti manchi qualcosa”. Egli rimane un pezzo in silenzio, poi dice: “Puoi portare a Müller i miei stivali”. … Il paio di stivali d’aviatore, magnifiche calzature inglesi, di fine cuoio, che giungono sino al ginocchio, sono la sua cosa migliore. Nelle condizioni in cui si trova, è un gran peccato lasciarli qui; lui morto, i soldati di sanità li faranno naturalmente subito passare in cavalleria. … Io mi stringo al mio povero Cecco e parlo, come se con ciò lo potessi salvare. … Ed ecco che Kemmerich comincia a rantolare. … Kemmerich è morto. Ha la faccia ancora umida di pianto. Gli occhi sono semiaperti, gialli: come vecchi bottoni di corno. … La notte vive, io vivo. Ho appetito, una fame grande che non viene dallo stomaco. Müller mi aspetta davanti alle baracche. Gli consegno gli stivali: entriamo, li prova. Gli calzano come un guanto. Egli fruga nelle sue provviste e mi offre un bel pezzo di salsiccia. E poi tè bollente, e rum» (pp. 35-37).

Uomini e cavalli
Tutti abbiamo imparato a sopportare qualcosa; ma qui il sudore ci imperla la fronte. Si vorrebbe alzarsi e fuggire, non importa dove, solo per non udire più quei gridi. E dire che non sono uomini, ma soltanto poveri cavalli. … Gli uomini non riescono a ad avvicinarsi ai cavalli feriti che, terrorizzati, scorrazzano qua e là, tutto il dolore nelle gole spalancate … Un cavallo punta sulle gambe davanti, e si gira in tondo come una giostra; si gira in cerchio con la groppa a terra; avrà la spina dorsale fracassata. Un soldato accorre e lo abbatte: lento, umile, scivola a terra. Ci togliamo le mani alle orecchie. Il gridare è cessato. … Detering se ne va, bestemmiando: “Vorrei un po’ sapere che colpa hanno loro”. Di lì a poco si avvicina a noi, e con voce vibrata, quasi solenne, afferma: “Ve lo dico io, l’infamia più grande è che si faccia fare la guerra anche alle bestie” » (pp. 61-62)

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Appesi al caso
«Per puro caso posso esser colpito, per puro caso posso rimanere in vita. in un ricovero a prova di bomba posso essere schiacciato come un topo e su un terreno scoperto posso restare incolume a dieci ore di fuoco tambureggiante. Ciascuno di noi rimane in vita soltanto in grazia di mille casi; perciò il soldato crede e fida nel caso» (p. 92).  


Formaggio e grappa. La festa è vicina 
«Si riparla di offensiva. … Ci distribuiscono formaggio d’Olanda, quasi un quarto a testa. In un certo senso è buona cosa, perché il formaggio piace a tutti, ma in un altro senso è brutto segno, perché quelle grosse palle rosse hanno sempre annunziato le giornate più terribili. Il nostro presentimento si accresce quando vediamo distribuire anche la grappa. Naturalmente si beve, ma non siamo propriamente allegri» (93-94).
Belve pericolose
«Siamo diventati belve pericolose: non combattiamo più, ci difendiamo dall’annientamento. Non scagliamo le bombe contro altri uomini; che cosa ne sappiamo noi in questo momento! Ma di là ci incalza la morte, con quegli elmi e con quelle mani: dopo tre giorni è la prima volta che la vediamo in viso, che ci possiamo difendere contro di essa; deliriamo di rabbia, non siamo più legati impotenti al patibolo, possiamo distruggere, uccidere alla nostra volta, per salvarci, per salvarci e per vendicarci» (pp. 103-104).

Carne umana e corned-beef
«La nostra artiglieria interviene energicamente e arresta l’avanzata. Le linee di dietro a noi si fermano; non possono avanzare. Noi stiamo in agguato. Il fuoco si sposta di cento metri in avanti e subito balziamo fuori di nuovo. Accanto a me, ad un caporale viene asportata la testa, di netto. Egli fa ancora alcuni passi avanti, mentre il sangue gli zampilla dal collo come una fontana. … Un giovane francese rimane indietro, viene raggiunto, alza le mani, in una stringe ancora una rivoltella – non si sa se voglia sparare od arrendersi – un colpo di vanghetta gli spacca la faccia. Un secondo, vedendo ciò, tenta di fuggire. Ma una baionetta gli guizza nella schiena. Un terzo getta via il fucile, si rannicchia a terra, le mani sugli occhi. Questo lo lasciamo indietro, con qualche altro prigioniero, per portar via i feriti … Avanzando di corsa facciamo volare bombe a manate, la terra trema, è uno schianto, un gemito, vapore e fumo, si sdrucciola su brandelli viscidi di carne umana, su corpi sfasciati; io cado in un ventre aperto, sopra il quale sta un berretto d’ufficiale, ancora nuovo e pulito. … Ci precipitiamo di volata nei ricoveri più vicini, per prendere quanto più possiamo di viveri in conserva; specialmente le scatole di carne, di burro, e poi via. Il corned-beef del nemico è celebre su tutto il fronte. Talvolta costituisce esso solo il motivo determinante di qualche colpo di mano da parte nostra, perché in generale il nostro nutrimento è cattivo, e abbiamo sempre fame» (pp. 105-107).

 immagine_all-ovest-niente-di-nuovo_26193Perduti alla vita
«Oggi nella patria della nostra giovinezza noi si camminerebbe come viaggiatori di passaggio: gli eventi ci hanno consumati; siamo divenuti accorti come mercanti, brutali come macellai. Non siamo più spensierati, ma atrocemente indifferenti. Sapremo forse vivere, nella dolce terra: ma quale vita? Abbandonati come fanciulli, disillusi come vecchi, siamo rozzi, tristi, superficiali. Io penso che siamo perduti» (p. 111).

Ogni rantolo del nemico è un tradimento
«Non penso, non decido, colpisco pazzamente, sento che il corpo sussulta, e poi si affloscia e s’insacca: quando ritorno in me, ho la mano bagnata, viscida… L’altro rantola. Ho l’impressione che urli, ogni suo respiro è come un grido, un tuono, ma sono soltanto le mie arterie che battono. Vorrei tappargli la bocca, riempirla di terra, pugnalarlo ancora: deve tacere, mi tradisce; ma sono già tanto tornato in me, e sono ad un tratto così debole, che non posso più alzar la mano contro di lui. Ma sono pronto a saltargli addosso un’altra volta» (p. 188).

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Niente di personale, compagno. Oggi a te, domani a me…
«Io dunque ho ucciso il tipografo Gérard Duval. Io devo diventar tipografo, penso tutto smarrito, devo diventar tipografo… Dopo mezzogiorno mi sento più calmo. La mia paura era infondata: il nome non mi turba più. Quella febbre è passata: “Compagno” dico al morto, ma con pacatezza, “oggi a te, domani a me. Ma se scampo, compagno, voglio combattere contro ciò che ci ha rovinati entrambi: che a te ha tolto la vita… e a me? La vita anche a me. Te lo prometto, compagno. Non dovrà accadere mai più”» (p. 196).

Individui fusi nel medesimo crogiuolo
«La nostra vita alterna fra le trincee e le baracche. Ci siamo in qualche modo abituati. La guerra è una causa di morte come ce n’è tante, come il cancro e la tubercolosi, come la spagnola e la dissenteria. Solo che i casi di morte qua sono più frequenti, più svariati e più crudeli. … Le differenze create dalla coltura e dall’educazione sono quasi cancellate, appena riconoscibili. … È come se in passato fossimo stati monete di vari paesi: fuse poi nel medesimo crogiuolo, e che ormai portano tutte la stessa impronta» (p. 232).

Nulla di nuovo sul fronte occidentale – Ieri come oggi
«Egli cadde nell’ottobre 1918, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: “Nulla di nuovo sul fronte occidentale”. Era caduto con la testa in avanti e giaceva sulla terra, come se dormisse. Quando lo voltarono si vide che non doveva aver sofferto a lungo; il suo volto aveva un’espressione così serena, quasi che fosse contento di finire così» (pp. 251-252).

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