mercoledì 1 maggio 2013

Il Harakiri del Partito democratico di Dino Greco, Liberazione.it


La Repubblica, intesa come quotidiano, per anni mentore (non proprio occulto) del Pd, maitre a penser del suo gruppo dirigente, sembra essersi accorta – o, per lo meno, sembra essersene accorto il suo direttore - che quello consumatosi con l’alleanza fra Democratici e Destra berlusconiana è un vero disastro politico-culturale-ideale. Non, ovviamente, per entrambi gli schieramenti convolati a giuste nozze, poiché il Pdl – e Berlusconi in modo speciale – ottiene un risultato eclatante: la “costituzionalizzazione” dell’anomalia che da vent’anni ammorba la democrazia italiana, facendo di questo Paese il brodo di coltura di avventure reazionarie, voraci istinti predatori delle classi dominanti, occupazione dello Stato da parte di una casta politica autoreferenziale, corrotta e corruttrice.
E’ la sinistra – quella che come tale si spacciava, o veniva presentata, nel discorso pubblico - ad essersi liquefatta. La verità è che già nell’incubatrice che ha tenuto a battesimo la formazione del Partito democratico era evaporato ogni residuo retaggio della cultura comunista, rimossa, abiurata e persino vilipesa, dopo la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione sovietica, da parte di quel gruppo dirigente che già nei primi anni Ottanta prevaleva contro Berlinguer e la sinistra interna del Pci.
Quello che è successo in seguito non è stato altro che la progressiva rinunzia ad una cultura autonoma, ad un “punto di vista” non subalterno sulla realtà, ad una scelta di campo e di rappresentanza sociale del lavoro. L’approdo ad un’ideologia interclassista, espressione di una concezione dei rapporti sociali riplasmata sul liberalismo (appena mascherata da un’estetica socialdemocratica) era cosa scontata.
L’apprendistato del governo bipartisan guidato per un anno intero da Mario Monti subisce ora una naturale metamorfosi nella sua forma matura e perviene – non certo come un incidente della Storia - al “governissimo”, cioè ad un’intesa politica organica, di giorno in giorno esaltata dai suoi attori protagonisti e da un giornalismo corrivo, dedito alla piaggeria e alla genuflessione verso il potere.
La differenza fra Pd e Pdl, già assottigliatasi per la comune fratellanza liberal-mercatista e per la condivisione delle politiche monetariste e di austerity, ora tende a scomparire.
Si consolida, invece, una solidarietà di ceto, mallevadore e officiante autorevole Giorgio Napolitano.
Questo esito apre sì un vulnus, ma soltanto in settori della base del Pd, storicamente abituata a rinculare nel fideismo e a bere come “oggettivamente necessarie” le scelte più discutibili del suo gruppo dirigente.
Vedrete che non si dividerà, Il Pd. Per la semplice ragione che troppa strada è stata percorsa su quel piano inclinato, spesso ruzzolando, dai suoi capataz, centrali e periferici.
Potrà invece verificarsi un’emorragia, nella sua base militante e nella sua area di consenso elettorale, verso sinistra. A patto che da queste parti si apra un discorso serio, capace di rimettere insieme ciò che un’inestinguibile vocazione alla diaspora ha sino ad ora teso a separare.

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