Nelle ultime pagine della sua monumentale “Seconda guerra mondiale”, Winston Churchill riflette sull’enigma di una decisione militare: dopo che gli specialisti (economisti e esperti militari, psicologi, metereologi) propongono le loro analisi, qualcuno deve assumersi la responsabilità più semplice e proprio per questa ragione più difficile, quella di convertire questa complessa moltitudine in un semplice si o no. Dovremmo attaccare, dobbiamo continuare ad aspettare, eccetera. Questo atto, che non può mai essere in tutto e per tutto razionale, è quello di un Comandante. Compito degli esperti è quello di presentare la situazione nella sua complessità, compito del Comandante è quello di semplificarla in una secca decisione. Il Comandante è necessario soprattutto in situazioni di profonda crisi. La sua funzione è quella di sancire un’autentica spaccatura: una spaccatura fra coloro che vogliono tirare avanti con la vecchia visione del mondo e coloro che sono consapevoli del necessario cambiamento. L’unica strada per una vera unità è l’identificazione di una tale spaccatura, e non quella fatta di compromessi opportunistici. Prendiamo un esempio che sicuramente non è problematico: la Francia nel 1940. Persino Jacques Duclos, seconda personalità del Partito Comunista Francese, ammise in una conversazione privata che se in quel momento si fossero tenute libere elezioni in Francia, il Maresciallo Petain avrebbe vinto col 90% dei voti.
Quando De Gaulle, con un gesto storico, rifiutò l’accettazione dell’armistizio con i tedeschi e continuò la resistenza, egli affermò di essere lui, e non il regime di Vichy, l’unico a parlare in nome della vera Francia (in nome di tutta la vera Francia, non solo in nome della maggioranza dei francesi). Ciò che stava dicendo era profondamente vero anche se democraticamente una tale affermazione era non solo senza legittimazione alcuna, ma era chiaramente in contrapposizione con l’opinione della maggioranza dei francesi. Margaret Thatcher, la signora che non era fatta per arretrare, era un Comandante di questo tipo. Rimanendo ferma sulle sue posizioni all’inizio percepite come folli, gradualmente trasformò la sua singolare pazzia in norma comunemente accettata. Quando fu chiesto alla Thatcher quale era stato il suo più grande successo, lei prontamente rispose: “Il New Labour”. E aveva ragione: il suo trionfo fu che persino i suoi nemici politici adottarono le sue basi economiche, il vero trionfo non è la vittoria sul nemico, esso avviene quando il nemico stesso inizia ad usare il tuo linguaggio, così che le tue idee costituiscono la base dell’intero campo di battaglia. Ora, cosa rimane oggi dell’eredità della Thatcher?
L’egemonia neoliberista sta chiaramente frantumandosi. La Thatcher, forse, era l’unica vera thatcheriana: lei credeva veramente nelle sue idee. Il neoliberismo odierno, al contrario, “finge solamente di credere in se stesso e chiede che il mondo finga la stessa cosa” (per citare Marx). In breve, oggi, il cinismo si mostra apertamente. Richiama il crudele scherzo di Lubitch in “Essere o non essere”: quando gli fu chiesto dei campi di concentramento tedeschi nella Polonia occupata, l’ufficiale responsabile del campo, Ernhardt, ribatté: “Noi facevamo il concentramento, e i polacchi la campeggiatura”. La stessa cosa non si adatta bene per la bancarotta della Enron nel gennaio 2002 (e per tutto il crollo finanziario che ne seguì), che può essere interpretata come una sorta di commentario ironico sul concetto di “società del rischio”? Migliaia di impiegati che persero il loro lavoro e i loro risparmi erano certamente esposti a un rischio, ma senza alcuna vera possibilità di scelta: il rischio appariva loro come un cieco destino. Coloro che, al contrario, effettivamente avevano la possibilità di controllare i rischi e di intervenire nella situazione (i top manager), minimizzarono i loro rischi vendendo le loro azioni prima della bancarotta. Così è vero che noi viviamo in una società fatta di scelte rischiose, ma alcuni (i manager di Wall Street) compiono le scelte, mentre altri (le persone comuni che pagano i loro mutui) si assumono i rischi. Una delle più strane conseguenze del crollo finanziario e delle misure prese per reagirvi (enormi somme di denaro impiegate per salvare le banche) è stata il revival del lavoro di Ayn Rand, una di quelli che si possono chiamare, senza timore di sbagliarsi, ideologi del capitalismo radicale e sostenitori della rapacità. Secondo alcune relazioni, ci sono già segnali che lo scenario descritto ne “La rivolta di Atlante” (lo sciopero dei capitalisti creativi) sia in atto. John Campbell, deputato repubblicano, ha detto: “I vincenti stanno iniziando a scioperare. Sto vedendo, in alcuni casi, una sorta di protesta da parte delle persone che creano lavoro, che si stanno ritirando dalle loro ambizioni poiché vedono che loro potrebbero essere puniti per queste”. L’assurdità di una tale reazione è del tipo di quelle che distorcono completamente la situazione: la maggior parte delle somme stanziate per il salvataggio stanno finendo esattamente nelle tasche dei “titani” senza regole descritti da Rand che hanno fallito nelle loro fantasie creative e ci hanno portato sull’orlo del collasso. Non sono i grandi geni creativi che stanno aiutando le pigre persone comuni, sono i cittadini comuni che pagano le tasse che stanno aiutando i fallimentari “geni creativi”. L’altro aspetto dell’eredità thatcheriana additato dai suoi critici di sinistra è stato quello dell’”autoritarismo” della sua leadership, la sua mancanza del senso di collaborazione democratica. Su questo punto, comunque, le cose sono più complesse di quanto potrebbero apparire. Le proteste che stanno attraversando l’Europa convergono in una serie di richieste che, nella loro spontaneità e ovvietà, formano una sorta di “ostacolo epistemologico” all’appropriato confronto con la presente crisi del nostro sistema economico. Queste effettivamente possono essere lette come una versione popolarizzata delle idee di Deleuze: le persone sanno cosa vogliono, sono capaci di scoprirlo e di formulare le loro richieste, ma solo attraverso il loro impegno e la loro continua attività. Così abbiamo bisogno di una democrazia partecipativa, non solo di una democrazia rappresentativa con i suoi rituali elettorali che interrompono ogni quattro anni la passività degli elettori; abbiamo bisogno dell’auto-organizzazione delle moltitudini, non di un Partito leninista centralizzato con un leader, eccetera. Questo mito dell’auto-organizzazione diretta e non rappresentativa è l’ultima trappola, la più profonda illusione che deve cadere, la più difficile a cui rinunciare. Si, in ogni processo rivoluzionario ci sono momenti estatici di solidarietà collettiva in cui migliaia, centinaia di migliaia di cittadini occupano insieme un luogo pubblico, come piazza Tahrir due anni fa. Si, ci sono momenti di intensa partecipazione collettiva durante i quali le comunità locali animano dibattiti e discutono, in cui le persone vivono sotto un permanente stato di emergenza, prendendo le cose con le loro mani, senza leader che li guidino. Ma questi momenti non durano, e la “stanchezza” qui non è solo un fatto psicologico, è una categoria dell’ontologia sociale.
La grande maggioranza delle persone, me compreso, vuole essere passivo e vuole poter contare su un efficiente apparato statale che garantisca l’andamento dell’intero edificio sociale, così che io possa condurre le mie occupazioni in pace. Walter Lippmann scrisse nel suo “Opinione pubblica” del 1922 che le masse di cittadini devono essere guidate da una “classe specializzata i cui interessi oltrepassino il livello dell’immediatezza”. Questa classe di elite deve agire come un “macchinario conoscitivo” che aggiri la sconfitta principale della democrazia, l’impossibile ideale del cittadino onnicompetente. Questo è il modo in cui le nostre democrazie funzionano. Con il nostro consenso. Non c’è nulla di misterioso in ciò che Lippmann ha scritto, è un fatto lapalissiano; il mistero risiede nel fatto che noi, sapendo questo, continuiamo il gioco. Noi agiamo come se stessimo decidendo liberamente ma in realtà non solo accettiamo ma addirittura domandiamo che un’invisibile ingiunzione (inscritta nella stessa forma della nostra libertà di parola) ci dica cosa fare e pensare. “Le persone sanno ciò che vogliono”, no, loro non lo sanno, e non vogliono saperlo. Hanno bisogno di una buona elite, che è poi il motivo per cui un vero politico non solo sostiene gli interessi dei cittadini, ma è anche lo strumento attraverso il cui essi scoprono ciò che realmente vogliono. Nella lotta fra un’auto-organizzazione della moltitudine contro l’ordine gerarchico sostenuto dal riferimento a un leader carismatico, notare l’ironia di come il Venezuela, un paese lodato da molti per il suo tentativo di sviluppare esperimenti di democrazia diretta (concili locali, cooperative, fabbriche autogestite), è anche un paese il cui presidente era Hugo Chavez, leader forte e carismatico come pochi: è come se fosse in atto la regola freudiana della trasposizione. Per far sì che gli individui superino se stessi, e si impegnino in prima persona come agenti politici, è necessario il riferimento a un leader, un leader che permetta loro di tirarsi fuori dalle paludi come il barone di Munchausen, un leader che si pensa sappia ciò che essi vogliono. E’ in questo senso che Alain Badiou ha recentemente fatto notare come i sistemi orizzontali minino la classica figura del Comandante, ma allo stesso tempo diano luogo a nuove forme di dominazione che sono molto più forti di quelle del classico Comandante. La tesi di Badiou è che un soggetto ha bisogno di un Comandante per elevarsi sopra la sua condizione di “animale umano” e per praticare la fedeltà a un Evento-Verità. “Il Comandante è colui che aiuta l’individuo a divenire soggetto. Sarebbe a dire che se uno ammette che il soggetto emerge nella tensione fra l’individuale e l’universale, allora è ovvio che l’individuale necessita di una mediazione, e quindi di un’autorità, per progredire su questa strada. Bisogna rinnovare la posizione del Comandante, non è vero che si può farne a meno, persino e specialmente in una prospettiva di emancipazione.” Badiou non ha paura di opporre il necessario ruolo del Comandante alla nostra sensibilità democratica: “Questa funzione capitale del leader non è compatibile con la predominante atmosfera democratica, ed è per questo che io sono impegnato in una dura lotta contro questa atmosfera (dopo tutto, uno deve iniziare dall’ideologia).”
Dovremmo seguire senza paura il suo suggerimento: per risvegliare effettivamente gli individui dal loro dogmatico “sonno democratico”, dalla loro cieca fiducia nelle forme istituzionalizzate della democrazia rappresentativa, gli appelli all’auto-organizzazione non sono abbastanza: è necessaria una nuova figura di Comandante. Ciò richiama i famosi versi della poesia di Rimbaud “A una Ragione”: “Un tocco del tuo dito sul tamburo scarica tutti i suoni e dà inizio alla nuova armonia./Un tuo passo, è la leva degli uomini nuovi e il loro segnale di partenza/la tua testa si volge di là: il nuovo amore! La tua testa si volge di qua: il nuovo amore!”. Non c’è assolutamente nulla di intrinsecamente fascista in questi versi. Il supremo paradosso delle dinamiche politiche è che un Comandante è necessario per tirar fuori gli individui dalla palude della loro inerzia e per motivarli verso la lotta emancipatoria e auto-trascendente per la libertà. Ciò di cui abbiamo bisogno noi oggi, in questa situazione, è di una Thatcher della sinistra: un leader che ripeta i comportamenti della Thatcher nella direzione opposta, trasformando l’intero campo di presupposti condivisi dall’elite politica odierna di tutti i principali orientamenti.
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