Nel libro di Marco Bersani “CatasTroika” (appena uscito per Edizioni
Alegre) un bilancio di ciò che le politiche liberiste e le
privatizzazioni hanno prodotto negli ultimi quarant'anni, dall'America
Latina alla Gran Bretagna, dalla Russia del post socialismo reale
all'Europa occidentale. Anticipiamo un brano tratto dal capitolo:
“Italia: dal Britannia al Titanic?”.
Che
il processo di privatizzazione in Italia abbia comportato una
gigantesca ritirata dello Stato da un ruolo diretto nella produzione
industriale e, più in generale, del “pubblico” nell’erogazione dei
servizi, lo dimostrano alcuni semplici dati: complessivamente le
operazioni hanno comportato proventi lordi per 134 miliardi, nonché
risorse reperite totali, comprensive dell’indebitamento finanziario
trasferito (14 miliardi) per 148 miliardi.
Alle 114 operazioni
censite dal Barometro delle privatizzazioni (Bp) per il periodo
1985-2007, individuate escludendo quelle di importo superiore agli 80
milioni, ma considerando anche la dismissione di alcuni immobili (Torri
del demanio dell’Eur) e delle società elettriche locali, corrispondono,
invece, proventi pari a 152 miliardi.
In entrambi i casi l’Italia si
è posizionata al secondo posto, dopo il Giappone, nella classifica
globale per proventi da privatizzazioni.
Cifre che appaiono di
importante dimensione, ma che in realtà, se paragonate con i successivi
valori borsistici delle società privatizzate, come confermato
dall’analisi della Corte dei Conti (delibera del 19 dicembre 2012), si
rivelano una sorta di “saldi di fine stagione”, la stagione
dell’intervento dello Stato nell’economia.
Più in generale, le
operazioni di privatizzazione nel loro complesso hanno comportato il
totale disimpegno dello Stato dai settori bancario, assicurativo,
tabacchi e telecomunicazioni, nonché un consistente ridimensionamento
delle partecipazioni, anche se non del controllo, nei settori strategici
dell’energia (Eni ed Enel) e della difesa (Finmeccanica).
La
conseguenza è stata che, a fronte di un peso del 18% nel 1991, il
contributo al Pil delle imprese partecipate dall’amministrazione
centrale è divenuta oggi pari al 4,7%.
Una trasformazione strutturale
dell’economia di enormi proporzioni, rispetto alla quale occorre capire
chi ne abbia tratto benefici e chi invece ne sia stato danneggiato.
Un
primo segnale non può che venire da uno sguardo sulle società di
consulenza finanziaria – i famosi “contractors” – che hanno accompagnato
i processi di privatizzazione, ottenendo compensi, attraverso ruoli
plurimi tra le funzioni di advisor, valutatore, intermediario,
collocatore e consulente, pari ad oltre 2,2 miliardi: si tratta, fra le
altre, di Societè Generale, Rotschild, Credit Suisse First Boston, JP
Morgan, Merril Lynch, Lehman Brothers, ovvero del gotha finanziario a
livello internazionale.
E infatti, la prima conseguenza evidente del
processo di privatizzazione è stata quella di mettere la parola “fine” a
qualsiasi possibilità di una finanza pubblica.
Agli inizi degli
anni 90, l’Italia era il Paese europeo nel quale il controllo pubblico
delle banche era il più elevato: il 74,5%, a fronte del 61,2% in
Germania, e del 36% in Francia.
Il processo di riforma attuato ha
portato all’azzeramento della proprietà pubblica nelle banche italiane,
andando così ben oltre Germania e Francia, le quali, pur riducendo il
controllo pubblico, hanno tuttavia mantenuto nel sistema bancario una
presenza più che significativa, rispettivamente del 52% e 31%.
La
deregolamentazione ha anche prodotto – com’è ovvio nella giungla del
mercato – un forte processo di concentrazione, che, attraverso 566
acquisizioni e fusioni per un valore pari al 50% degli asset totali, ha
drasticamente modificato il panorama bancario italiano, portando le
quote di mercato dei cinque maggiori gruppi bancari dal 34 al 54%.
Se
a tutto ciò si aggiunge la privatizzazione della Cassa Depositi e
Prestiti del 2003, con l’ingresso nel capitale sociale delle Fondazioni
bancarie (30%), saldamente inserite nel controllo delle banche di
riferimento, il quadro è abbastanza chiaro: le privatizzazioni hanno
portato all’azzeramento di ogni funzione pubblica in campo economico e
finanziario, con effetti pesanti direttamente riscontrabili nell’odierna
crisi, che vede le scelte economiche del Paese sottostare, in totale
sudditanza, alle dinamiche del sistema finanziario internazionale.
Uno
dei risultati favorevoli, a più riprese sbandierato dai fautori delle
privatizzazioni, riguarda i benèfici effetti delle stesse sul debito
pubblico del Paese, avendo gli introiti delle dismissioni ridotto il
rapporto debito/Pil nel periodo 1992-2004, con un risparmio in conto
interessi di circa 38 miliardi.
Ma si tratta di un’illusione, sia
quantitativa che qualitativa: perché, se nell’immediato si sono avute
delle entrate, peraltro irrisorie se confrontate all’entità del debito
pubblico, nel medio e lungo periodo le privatizzazioni hanno privato lo
Stato di importanti entrate di cassa, nonché di assetti industriali che
rappresentavano la spina dorsale dell’economia pubblica e del sistema di
welfare che in parte si reggeva su di essa.
E se l’obiettivo
dichiarato era quello di mettere in atto una liberalizzazione
dell’attività economica favorendo la libera concorrenza, il risultato
più evidente è stata la consegna a monopoli privati di attività e
servizi gestiti precedentemente dal pubblico, comportando una
trasformazione delle stesse, da funzione sociale a funzione unicamente
finalizzata alla redditività economica. Questo perché l’obiettivo
prioritario dei processi di privatizzazione era in realtà quello di dare
un forte impulso ai mercati finanziari, come dimostra il fatto che, dal
1992 al 2007, la capitalizzazione del mercato borsistico domestico sia
cresciuta di sette volte e il volume degli scambi sia aumentato di
ottantacinque volte. Variazioni tali da essere in larga parte
attribuibili alla quotazione di imprese privatizzate, la cui abbondante
offerta ha favorito una massiccia riallocazione da parte dei piccoli
risparmiatori dai tradizionali impieghi in titoli di Stato al mercato
azionario.
Processo, quest’ultimo, tutt’altro che frutto della
libera scelta del “consumatore/risparmiatore”, bensì preciso risultato
di una strategia perseguita riducendo drasticamente ogni attrattiva dei
Buoni Ordinari del Tesoro e dando un definitivo colpo d’ala al mercato
borsistico attraverso l’imposizione – governo Amato – di una tassa del
27% sugli interessi dei conti correnti, a fronte del 12,5% applicato ai
guadagni da investimenti in Borsa. Questo processo è stato accompagnato e
sostenuto dagli investitori esteri, che hanno sottoscritto sia titoli
di Stato che titoli azionari delle nuove società privatizzate, divenendo
in breve tempo attori chiave del sistema finanziario, fino a diventare,
nell’attualità in corso, causa principale della sua odierna crisi
verticale.
Contrariamente all’obiettivo più volte sbandierato di
voler sviluppare la diffusione di un forte azionariato popolare e di
affermare anche in Italia il modello delle public company, le politiche
di privatizzazione hanno inoltre comportato processi di forte
concentrazione – come del resto già avvenuto in Gran Bretagna –
determinando soprattutto un accentramento del controllo, anche in
assenza di una concentrazione della proprietà: allora come oggi, diversi
gruppi industriali – e sempre più finanziari – controllano le società
quotate pur senza possederne neppure lontanamente la maggioranza delle
azioni.
Nei primi dieci gruppi quotati in Borsa, il capitale
controllato è pari a quasi tre volte quello posseduto, e questo è reso
possibile dal cosiddetto sistema “delle scatole cinesi”: il possesso da
parte di una holding del 51% di una società, che a sua volta possiede il
51% di un’altra, la quale possiede il 40% di un’altra ancora, che
possiede il 30% di un’ultima società, quella che realmente interessa.
Solo per fare un esempio, con questo sistema, Tronchetti Provera ha
ottenuto il controllo della Olivetti – e quindi di Telecom e Tim – pur
avendo comprato solo il 29% delle azioni della società. Dentro questo
modello, aldilà delle favole sulla democrazia economica, si comprende
bene quale possa essere il ruolo dei piccoli investitori: mettere i
soldi nella società, permettendo agli azionisti maggiori di poterla
controllare senza doverla possedere.
Decisamente pesante è stato
l’impatto sociale delle privatizzazioni sul versante dell’occupazione e
riguardo alle conseguenze per gli utenti.
Nel mondo del lavoro, le
privatizzazioni hanno coinvolto 225.000 lavoratori, dei quali 125.000
nel settore delle telecomunicazioni, 25.000 in quello siderurgico,
24.000 in quello meccanico, 22.000 nell’alimentare e della
distribuzione, 14.000 nei trasporti e infrastrutture.
Nel contempo, i
cittadini si sono trovati di fronte ad un generalizzato peggioramento
della qualità dei servizi e ad un costante aumento dei prezzi, in
particolare nei settori dei servizi bancari, di quelli infrastrutturali
(autostrade) e delle utilities (acqua, energia e gas), con tariffe
notevolmente più elevate in proporzione a quelle applicate dagli altri
paesi europei.
Di fatto le privatizzazioni non hanno fatto altro che
consentire il trasferimento di ciò che prima era in mano pubblica –
dunque di proprietà dei cittadini attraverso lo Stato – ad alcune poche
mani private, spesso di gruppi finanziari che non aspettavano altro che
settori monopolistici ad alta redditività per poter ottenere profitti
con rischio industriale nullo.
Emblematico da questo punto di vista
il caso delle autostrade: un vero e proprio regalo al gruppo Benetton,
che ha ottenuto una rendita garantita con un rischio imprenditoriale
nullo; ha potuto così permettersi di attuare investimenti minimi e
contare su tariffe più alte della stessa inflazione, mentre il
contribuente ha continuato a farsi carico delle spese per la rete in
aree meno ricche e più a rischio (autostrada Salerno - Reggio Calabria e
grande viabilità interregionale).
Da un punto di vista
strategico-economico, le privatizzazioni hanno prodotto anche il nefasto
risultato di segnare per il nostro Paese l’ultimo passo del processo
generale di deindustrializzazione avviato un trentennio prima,
completandolo con uno specifico processo di destatalizzazione.
Con lo
slogan “privato è bello, il pubblico non funziona”, si sono messi nelle
mani di alcuni privati, importanti settori strategici come quello
bancario ed assicurativo, delle telecomunicazioni, siderurgico ed
alimentare, continuando ad affermare come il processo di privatizzazione
abbia riguardato primariamente l’industria pubblica in difficoltà,
quando tutti i dati economici dimostrano il contrario: il 64,8% delle
aziende privatizzate apparteneva ai settori bancario assicurativo e
delle telecomunicazioni, finanziariamente remunerativi già sotto la
gestione pubblica.
Ma i dati sono nulla a fronte del
fondamentalismo ideologico, che ha attraversato e permeato tutte le
culture politiche ed amministrative.
Ed è stata soprattutto la
sinistra, tesa a far dimenticare la colpa di aver voluto in passato
cambiare il mondo e bisognosa di farsi accreditare come affidabile dai
mercati finanziari, ad interiorizzare le privatizzazioni come mito
riformista e modernizzatore, e ad offrire in pasto ai gestori della
finanza attività perfette per montarvi operazioni speculative, garantite
dalla dinamica nel tempo dei flussi di cassa.
Nonostante i
disastrosi risultati a livello economico, occupazionale e sociale, ormai
da diversi anni è in atto addirittura un tentativo di radicalizzare le
politiche di privatizzazione, coinvolgendovi altri importanti settori di
rilievo sociale, come previdenza, sanità, istruzione, poste, trasporti e
servizi pubblici locali.
Questa volta senza bisogno di salire a
bordo di un fastoso quanto pittoresco panfilo reale, bensì occupando le
grigie stanze del Ministero dell’Economia: è lì che, a fine settembre
2011, l’allora ministro Tremonti ha chiamato a raccolta i grandi
investitori italiani ed internazionali, il gotha del sistema bancario e
delle investment banks globali per sottoporre loro una sorta di
“Britannia 2”, ovvero un altro mastodontico processo di dismissione del
patrimonio pubblico del Paese, questa volta totalmente incentrato sul
patrimonio immobiliare demaniale e comunale e sulle utilities locali.
Piano
ripreso con vigore dal successivo governo “tecnico” guidato da Mario
Monti con l’obiettivo, naturalmente, di ridurre il debito pubblico e
promuovere la crescita del Paese.
La stessa strategia seguita dai
primi violini dell’orchestra, che continuarono a suonare mentre il
Titanic andava inesorabilmente a sbattere contro l’iceberg.
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