Mentre il neo presidente del consiglio, Enrico Letta, dedicava una
delle citazioni del suo discorso di insediamento a Beniamino Andreatta,
suo antico maestro, in Francia Le Monde impegnava una pagina a
ricostruire come il socialista Delors fosse stato, nel 1983, all’epoca
del secondo governo Mitterand, l’iniziatore delle politiche di
austerità, oltre che della liberalizzazione dei mercati finanziari.
Se pensiamo a come Andreatta sia stato uno dei personaggi fondamentali di uno dei passaggi costituenti del nuovo assetto degli equilibri istituzionali e sociali che giungono ora a compimento, in particolare con la sponsorizzazione, insieme a Ciampi, della separazione tra Tesoro e Banca d’Italia, con la fine dell’obbligo d’acquisto da parte della Banca dei Titoli non collocati, che avvenne proprio in quegli stessi anni ‘82/’83, possiamo pensare di essere di fronte a qualcosa di più di una coincidenza.
Il passaggio che stiamo vivendo infatti è il punto di approdo di un processo lungo che ha caratterizzato il trentennio della rottura del compromesso sociale progressivo, il trionfo della globalizzazione finanziaria e del pensiero neo liberale, e l’edificazione dell’Europa intorno a questa nuova realtà.
Nella vulgata che viene rappresentata si tende ad attribuire da un lato a Blair e al blairismo e dall’altro al monetarismo tedesco la predominanza su fenomeni che in realtà hanno avuto anche altri protagonisti, con ruoli forse ancora più di primo piano.
La coincidenza di cui ho parlato, tra il discorso di Letta e il dibattito su Le Monde, porta alla memoria precisamente due percorsi storici che è fondamentale riattraversare per comprendere come si arrivi alle scelte dell’oggi. L’Andreatta, maestro di Letta e considerato tra gli ispiratori principali del futuro Partito Democratico, orienta quella scelta, l’autonomizzazione della Banca, che avrà un ruolo fondamentale nel capovolgere le priorità delle culture, e delle politiche, delle stesse sinistre, col porsi al centro della questione inflazione, piuttosto che di quella occupazionale e di redistribuzione dei redditi e con l’opzione, giustificata da questa priorità, di collocare a mercato il debito pubblico.
Che il risultato sia stato in Italia quello di una esplosione dello stesso debito pubblico dal 57,7% del PIL nel 1988 al 124% nel 1994,a spesa pubblica sostanzialmente invariata, è una di quelle cose di cui le classi dirigenti continuano a non voler dare conto. E non ne danno conto proprio perché questa scelta è stata precisamente quello che doveva essere e cioè un atto di rottura del vecchio compromesso sociale e di messa all’angolo delle forze che si erano battute per la redistribuzione del reddito. E, contemporaneamente, di edificazione del nuovo capitalismo finanziarizzato.
Un Paese, come la Francia, dove la pubblica opinione e i mass media sono un poco meno embedded di quelli di casa nostra, almeno discute apertamente del senso dell’ultima mossa tentata da Hollande. Il Presidente socialista, finito in un cul de sac e in picchiata nei sondaggi, e questo a causa di una politica che ha sostanzialmente incorporato i parametri dell’austerità dopo aver ratificato il Fiscal Compact, ha provato la mossa del cavallo. Ha lanciato un pesante Je accuse contro la Germania e chiesto una sollevazione delle sinistre e dei socialisti.
La cosa però è apparsa contraddittoria rispetto alle scelte fatte e sostanzialmente di facciata. Tant’è che Le Monde, da tempo impegnato nella discussione sull’austerità, ha aperto ad un fuoco di controreplica. Il vecchio primo ministro dell’UMP, Alain Juppè, ha accusato Hollande di portare la Francia all’isolamento e fuori della rotta storica che è stata quella di coinvolgere la Germania nel processo europeo. E di farlo per mascherare il proprio fallimento e la mancanza di una idea moderna sul ruolo della Francia. Il giornale ha poi ospitato la ricostruzione storica di cui dicevo sul ruolo di Delors e dei socialisti nella edificazione dell’austerità. E in fine è arrivato Cohn Bendit ad attaccare anche lui Hollande accusandolo di posizioni che non colgono la sostanza dei problemi che non sta, dice, nella Germania ma negli assetti strutturali.
Ce ne è abbastanza per capire che si sta giocando una partita che viene da lontano e che ha ormai come terreno immediato l’Europa. Il 22 settembre prossimo si voterà in Germania e gli scenari sono aperti, ma tendono tutti a confermare un ruolo centrale della Merkel, ampiamente in testa nei sondaggi e nel gradimento popolare. Anche qui per un lungo percorso che ha di fatto cementato in quel Paese una sorta di blocco corporativo a sostegno della predominanza del modello export-led tedesco, di cui la Spd è stata ed è parte. Non è dunque casuale la subalternità delle posizioni con cui vanno alle elezioni la Spd e i Grunen che, non a caso, occhieggiano entrambi a possibili alleanze con la Cancelliera.
L’Enrico Letta che arriva in Germania nel suo primo viaggio da premier, sa bene che sul futuro del suo governo delle larghe intese peserà molto anche l’esito del voto tedesco. Se anche in Germania sarà Grosse Koalizione il governo italiano avrà un suo simile molto potente.
D’altronde, come per Monti, anche per il Letta-Alfano si può ben spendere l’attributo di governi costituenti. Nel caso del Letta-Alfano c’è in più l’atto psicologico fondamentale della rottura del tabù dell’antiberlusconismo. Di quel tabù che sembrava fondativo del PD mentre, alla luce dell’oggi, la vera fondazione stava invece nel ben più concreto processo materiale che ha portato a questa Europa.
Come tutte le rotture dei tabù, siamo alle prese naturalmente con un evento che ci interroga. Sulla natura delle rappresentanze politiche, nell’era dei piloti automatici. E su quella dei popoli di riferimento. Colpisce comunque che altri tabù, dalla scala mobile in poi, siano stati rotti senza una riflessione adeguata delle conseguenze. Per questo è così importante riconnettere le varie tappe fatte nel percorso che ci ha portati fin qui.
Anche perché l’anno che verrà sarà anche quello delle elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo. Probabilmente sarà la prima volta che questo voto sarà direttamente legato alle questioni europee, risultando però assai incidente anche su quelle nazionali, che sono ormai strettamente connesse. Come ci si arriverà? Ci saranno margini per continuare, magari con qualche aggiustamento, nelle stesse politiche dell’oggi, o tutto deflagrerà?
L’evidenza ci dice che il recinto di questa Europa è assai stretto e rigido e lascia ben poco spazio ad una vera dialettica democratica. L’alternanza è sempre più confinata ad essere una variante delle larghe intese piuttosto che una possibile interlocutrice dell’alternativa. E’ alla alternativa dunque che bisogna guardare sapendo che però essa passa da un processo di rottura radicale del recinto e di inversione di un assai lungo percorso storico.
Se pensiamo a come Andreatta sia stato uno dei personaggi fondamentali di uno dei passaggi costituenti del nuovo assetto degli equilibri istituzionali e sociali che giungono ora a compimento, in particolare con la sponsorizzazione, insieme a Ciampi, della separazione tra Tesoro e Banca d’Italia, con la fine dell’obbligo d’acquisto da parte della Banca dei Titoli non collocati, che avvenne proprio in quegli stessi anni ‘82/’83, possiamo pensare di essere di fronte a qualcosa di più di una coincidenza.
Il passaggio che stiamo vivendo infatti è il punto di approdo di un processo lungo che ha caratterizzato il trentennio della rottura del compromesso sociale progressivo, il trionfo della globalizzazione finanziaria e del pensiero neo liberale, e l’edificazione dell’Europa intorno a questa nuova realtà.
Nella vulgata che viene rappresentata si tende ad attribuire da un lato a Blair e al blairismo e dall’altro al monetarismo tedesco la predominanza su fenomeni che in realtà hanno avuto anche altri protagonisti, con ruoli forse ancora più di primo piano.
La coincidenza di cui ho parlato, tra il discorso di Letta e il dibattito su Le Monde, porta alla memoria precisamente due percorsi storici che è fondamentale riattraversare per comprendere come si arrivi alle scelte dell’oggi. L’Andreatta, maestro di Letta e considerato tra gli ispiratori principali del futuro Partito Democratico, orienta quella scelta, l’autonomizzazione della Banca, che avrà un ruolo fondamentale nel capovolgere le priorità delle culture, e delle politiche, delle stesse sinistre, col porsi al centro della questione inflazione, piuttosto che di quella occupazionale e di redistribuzione dei redditi e con l’opzione, giustificata da questa priorità, di collocare a mercato il debito pubblico.
Che il risultato sia stato in Italia quello di una esplosione dello stesso debito pubblico dal 57,7% del PIL nel 1988 al 124% nel 1994,a spesa pubblica sostanzialmente invariata, è una di quelle cose di cui le classi dirigenti continuano a non voler dare conto. E non ne danno conto proprio perché questa scelta è stata precisamente quello che doveva essere e cioè un atto di rottura del vecchio compromesso sociale e di messa all’angolo delle forze che si erano battute per la redistribuzione del reddito. E, contemporaneamente, di edificazione del nuovo capitalismo finanziarizzato.
Un Paese, come la Francia, dove la pubblica opinione e i mass media sono un poco meno embedded di quelli di casa nostra, almeno discute apertamente del senso dell’ultima mossa tentata da Hollande. Il Presidente socialista, finito in un cul de sac e in picchiata nei sondaggi, e questo a causa di una politica che ha sostanzialmente incorporato i parametri dell’austerità dopo aver ratificato il Fiscal Compact, ha provato la mossa del cavallo. Ha lanciato un pesante Je accuse contro la Germania e chiesto una sollevazione delle sinistre e dei socialisti.
La cosa però è apparsa contraddittoria rispetto alle scelte fatte e sostanzialmente di facciata. Tant’è che Le Monde, da tempo impegnato nella discussione sull’austerità, ha aperto ad un fuoco di controreplica. Il vecchio primo ministro dell’UMP, Alain Juppè, ha accusato Hollande di portare la Francia all’isolamento e fuori della rotta storica che è stata quella di coinvolgere la Germania nel processo europeo. E di farlo per mascherare il proprio fallimento e la mancanza di una idea moderna sul ruolo della Francia. Il giornale ha poi ospitato la ricostruzione storica di cui dicevo sul ruolo di Delors e dei socialisti nella edificazione dell’austerità. E in fine è arrivato Cohn Bendit ad attaccare anche lui Hollande accusandolo di posizioni che non colgono la sostanza dei problemi che non sta, dice, nella Germania ma negli assetti strutturali.
Ce ne è abbastanza per capire che si sta giocando una partita che viene da lontano e che ha ormai come terreno immediato l’Europa. Il 22 settembre prossimo si voterà in Germania e gli scenari sono aperti, ma tendono tutti a confermare un ruolo centrale della Merkel, ampiamente in testa nei sondaggi e nel gradimento popolare. Anche qui per un lungo percorso che ha di fatto cementato in quel Paese una sorta di blocco corporativo a sostegno della predominanza del modello export-led tedesco, di cui la Spd è stata ed è parte. Non è dunque casuale la subalternità delle posizioni con cui vanno alle elezioni la Spd e i Grunen che, non a caso, occhieggiano entrambi a possibili alleanze con la Cancelliera.
L’Enrico Letta che arriva in Germania nel suo primo viaggio da premier, sa bene che sul futuro del suo governo delle larghe intese peserà molto anche l’esito del voto tedesco. Se anche in Germania sarà Grosse Koalizione il governo italiano avrà un suo simile molto potente.
D’altronde, come per Monti, anche per il Letta-Alfano si può ben spendere l’attributo di governi costituenti. Nel caso del Letta-Alfano c’è in più l’atto psicologico fondamentale della rottura del tabù dell’antiberlusconismo. Di quel tabù che sembrava fondativo del PD mentre, alla luce dell’oggi, la vera fondazione stava invece nel ben più concreto processo materiale che ha portato a questa Europa.
Come tutte le rotture dei tabù, siamo alle prese naturalmente con un evento che ci interroga. Sulla natura delle rappresentanze politiche, nell’era dei piloti automatici. E su quella dei popoli di riferimento. Colpisce comunque che altri tabù, dalla scala mobile in poi, siano stati rotti senza una riflessione adeguata delle conseguenze. Per questo è così importante riconnettere le varie tappe fatte nel percorso che ci ha portati fin qui.
Anche perché l’anno che verrà sarà anche quello delle elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo. Probabilmente sarà la prima volta che questo voto sarà direttamente legato alle questioni europee, risultando però assai incidente anche su quelle nazionali, che sono ormai strettamente connesse. Come ci si arriverà? Ci saranno margini per continuare, magari con qualche aggiustamento, nelle stesse politiche dell’oggi, o tutto deflagrerà?
L’evidenza ci dice che il recinto di questa Europa è assai stretto e rigido e lascia ben poco spazio ad una vera dialettica democratica. L’alternanza è sempre più confinata ad essere una variante delle larghe intese piuttosto che una possibile interlocutrice dell’alternativa. E’ alla alternativa dunque che bisogna guardare sapendo che però essa passa da un processo di rottura radicale del recinto e di inversione di un assai lungo percorso storico.
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