Tre sono le parole maggiormente in voga dopo l’accordo accettato da
Tsipras e imposto dai creditori, che ha evitato l’espulsione della
Grecia dalla moneta unica e in pari tempo ha messo definitivamente in
chiaro che questa non è l’Europa dei popoli e dei lavoratori delineata
nel manifesto di Ventotene, cui pure ancora oggi molti europeisti con la
coda di paglia continuano a richiamarsi. Germania, debito, euro: tre
parole nel tentativo di chiarire le ragioni della crisi ormai evidente
di una forma di unificazione che penalizza il lavoro, spinge ai margini i
paesi più deboli e si blinda nelle sue mura respingendo i disperati che
fuggono dalla fame e dallo sfruttamento, mentre ai confini si
moltiplicano le guerre.
Sono parole espressive di problemi reali, non adeguate però a inquadrare il tema di fondo: che riguarda le modalità con cui il capitale finanziario globale esercita in Europa il suo dominio, piegando a questo scopo la politica e le istituzioni europee. Tuttavia, se non si spostano su questo terreno l’analisi, la proposta e la lotta democratica di massa, l’idea di un’altra Europa è destinata a restare nel regno dei cieli, cioè nel mondo delle irrealizzabili utopie. La vicenda della Grecia dimostra che dentro la camicia di forza dell’Europa costruita a misura del dominio dei mercati, un paese che voglia percorrere un’altra strada da solo non può farcela. E la solidarietà, al di là delle manifestazioni più o meno generose, per essere efficace ha bisogno di un progetto comune che fondi nel Vecchio Continente un nuovo internazionalismo del lavoro, come lo ha chiamato Emiliano Brancaccio.
La Germania. Ha le sue responsabilità, più che evidenti. Ma quale Germania? Quella della Merkel e di Schäuble, garanti degli equilibri di dominio del capitale finanziario. Con la socialdemocrazia a far da rincalzo, non più portatrice del compromesso tra capitale e lavoro, ma reclutata all’arte con cui sottomettere in forme nuove il lavoro al capitale e l’intera società alla cultura d’impresa. Una Germania che usa gli incrementi di produttività, il contenimento dei salari e la precarietà programmata dei minijobs, oltre che il vantaggio ottenuto con il tasso di cambio dell’euro rispetto al marco, per conquistare i mercati esteri e spingere i consumi negli altri paesi europei mediante l’indebitamento, realizzando forti attivi nella bilancia dei pagamenti e accentuando così gli squilibri nel cuore d’Europa.
Un indirizzo che alimenta nazionalismi e spinte fascistiche, e che finirà per penalizzare la stessa Germania. Al quale, però, una giusta strategia politica non contrappone la coalizione antitedesca dei paesi più deboli, che finirebbe per rafforzare i conflitti e le tendenze involutive, ma un’ampia alleanza di lavoratori e di lavoratrici, degli sfruttati di tutti i paesi compresi i lavoratori tedeschi, volta a contrastare il dominio del capitale nell’intero continente. Ciò richiede un’aggiornata analisi di classe e un’iniziativa comuni, di cui oggi non dispongono i subalterni, e che non sembrano nelle corde delle diverse sinistre operanti in Europa. Diversamente dai gruppi dirigenti del capitale finanziario, illuminati non solo dall’istinto classista ma anche da un’evidente egemonia culturale.
Il debito. Non è solo il mezzo per alimentare i consumi privati in regime di bassi salari. È diventato lo strumento attraverso il quale i cosiddetti mercati realizzano oggi una nuova forma di accumulazione del capitale, paragonabile all’accumulazione primitiva della fase nascente del capitalismo. Il bilancio degli Stati nazionali infatti cambia natura. Non solo perché il debito privato delle banche è stato convertito con i salvataggi in debito pubblico. Ma soprattutto perché, attraverso il pagamento degli interessi ai detentori del debito, da strumento di redistribuzione del reddito attraverso la fornitura di beni e servizi reali, si trasforma in fornitore di ricchezza e di stabilità per il capitale finanziario. In altre parole, il debito pubblico diventa un problema quando gli investitori istituzionali se ne impossessano per ricavarne una rendita.
In Italia, dopo il «divorzio» della Banca d’Italia dal Tesoro, gli interessi pagati dallo Stato sono stati incassati nell’arco di 27 anni per il 92%, pari a 1.599 miliardi, dalle istituzioni finanziarie e dal 10% più ricco della popolazione. E per l’8%, pari a 141 miliardi, dal restante 90% degli italiani. Se si considera che le entrate dello Stato provengono per oltre l’80% dai lavoratori dipendenti e pensionati, ci si rende conto di quale gigantesca operazione classista si sia compiuta redistribuendo la ricchezza dai più poveri ai più ricchi e alimentando il parassitismo dei tagliatori di cedole. In Grecia, dopo l’esplosione della crisi, gli “aiuti” della troika non sono stati destinati alla popolazione sofferente per mancanza di lavoro e di reddito, ma alle banche detentrici del debito, soprattutto tedesche e francesi. Secondo il criterio barbaro che regna sovrano come una legge di natura: prima la remunerazione del capitale finanziario, poi tutto il resto, compresa la vita delle persone. Ma un’Europa costruita su questa priorità non è sostenibile e non ha avvenire. E non si vede perché, se non in ragione dei rapporti di forza, per ridurre il debito non si abbatte la spesa per interessi invece di tagliare la spesa sociale.
L’euro. Alla stregua di ogni altra moneta, è espressione di determinati rapporti economico-sociali. Ed è funzionale agli interessi che rappresenta. Come ha notato di recente Gianni Ferrara, «conta il soggetto che […] ne fissa le modalità dell’impiego e ne impone la destinazione». Ed «è il contesto istituzionale nel quale può operare che ne statuisce la funzione e ne determina gli effetti». Essendo strumento operativo di una Banca che non ha come obiettivo la massima occupazione e la riduzione delle disuguaglianze tra le classi, tra i generi e tra le nazioni, ma la stabilità finanziaria dei mercati in competizione con il dollaro e con il renmibi cinese mediante la fornitura di liquidità agli investitori istituzionali privati, ed essendo l’attuale Unione europea costruita sul principio del dominio totalitario del mercato sancito dal Trattato sul funzionamento dell’Unione medesima, non c’è da sorprendersi se l’euro oggi si qualifica come espressione monetaria della massima valorizzazione del capitale finanziario a fronte della massima svalorizzazione del lavoro.
Non per caso Draghi, a cominciare dal 2011 in coppia con Trichet, ha sempre suggerito «riforme strutturali» volte a ridurre i costi e i diritti del lavoro. E non per caso il Jobs Act di Renzi è perfettamente in linea con questa impostazione. Si è creata una condizione per la quale, in regime di cambi fissi, la deflazione salariale ha finito per sostituire la svalutazione della moneta nella competizione intercapitalistica. Ma da questa condizione non si esce positivamente proclamando la fuoriuscita unilaterale dall’euro per ritornare al passato, in regime di monete nazionali, nella illusione che fuori dall’euro la sinistra possa riconquistare la sua funzione storica, come auspica Fassina. La via d’uscita dalla crisi dell’Unione non si trova nel ripiegamento di ogni singolo Stato verso la propria peculiare identità e tanto meno nella rincorsa verso tante piccole patrie dai confini incerti, in una prospettiva che moltiplicherebbe i conflitti a danno soprattutto delle classi sfruttate e dei ceti più deboli.
Al contrario, il problema del momento consiste nell’impostare una piattaforma di lotta, in Europa e in ogni singolo paese, per cambiare le condizioni politiche e istituzionali che fanno dell’euro lo strumento e la figura simbolica dell’oppressione e dell’ingiustizia, modificando i rapporti di forza, smantellando il potere delle tecnoburocrazie al servizio del capitale e aprendo le porte a nuove forme di democrazia. In modo da trasformare la moneta in uno strumento al servizio dell’Europa dei popoli e dei lavoratori. Dunque, non l’uscita dall’euro, ma la rimozione delle condizioni che lo hanno generato nella forma attuale. Per questo è necessario spostare l’attenzione sulle forze da mettere in campo per cambiare i trattati esistenti, il ruolo e la funzione della Bce. Un’operazione che non si può compiere se non si comincia col mettere sotto controllo i mercati.
A tutti dovrebbe essere però chiaro che questo passo avanti decisivo non avrà esito se le lavoratrici e i lavoratori, oggi divisi, disgregati e ridotti a pura merce come foraggio per il bue, non si coalizzano in Europa politicamente per cambiare l’ordine delle cose insieme a tutti coloro che sono stati colpiti dalla crisi. E’ il passaggio obbligato, sempre più stringente, che non si può eludere. Ed è la posta in gioco che sta di fronte alla sinistra. La costruzione di una sinistra nuova in Italia, di classe, popolare e di massa, ha senso e avrà un futuro solo se si pone a questa altezza, definendo preliminarmente un’unica piattaforma per l’Italia e per l’Europa, senza tatticismi e chiusure provinciali.
Un progetto di cambiamento per l’Italia, che abbia come riferimento i principi della Costituzione, può nascere solo dalle concrete condizioni storico-politiche del paese, ma non avrebbe prospettiva se non diventasse parte organica di un progetto di cambiamento dell’intera Europa. Il richiamo a una generica ripresa, allentando qualche vincolo dell’austerità non basta. Occorre rovesciare le priorità imposte dal dominio dei mercati, cioè dal capitale nella sua forma postmoderna e massimamente parassitaria, che ormai produce malessere, disuguaglianze e povertà: prima gli esseri umani, ovvero tutti coloro che per vivere devono lavorare, la stragrande maggioranza del genere umano, al centro di una diversa qualità sociale e ambientale; poi il capitale e l’impresa, secondo il principio che la proprietà deve assolvere a una funzione sociale. Con tutto ciò che questo comporta in termini di remunerazione del lavoro, di occupazione, di standard comuni di welfare. È una questione di fondo, certo di portata storica, che ormai bussa insistentemente alle nostre porte.
Sono parole espressive di problemi reali, non adeguate però a inquadrare il tema di fondo: che riguarda le modalità con cui il capitale finanziario globale esercita in Europa il suo dominio, piegando a questo scopo la politica e le istituzioni europee. Tuttavia, se non si spostano su questo terreno l’analisi, la proposta e la lotta democratica di massa, l’idea di un’altra Europa è destinata a restare nel regno dei cieli, cioè nel mondo delle irrealizzabili utopie. La vicenda della Grecia dimostra che dentro la camicia di forza dell’Europa costruita a misura del dominio dei mercati, un paese che voglia percorrere un’altra strada da solo non può farcela. E la solidarietà, al di là delle manifestazioni più o meno generose, per essere efficace ha bisogno di un progetto comune che fondi nel Vecchio Continente un nuovo internazionalismo del lavoro, come lo ha chiamato Emiliano Brancaccio.
La Germania. Ha le sue responsabilità, più che evidenti. Ma quale Germania? Quella della Merkel e di Schäuble, garanti degli equilibri di dominio del capitale finanziario. Con la socialdemocrazia a far da rincalzo, non più portatrice del compromesso tra capitale e lavoro, ma reclutata all’arte con cui sottomettere in forme nuove il lavoro al capitale e l’intera società alla cultura d’impresa. Una Germania che usa gli incrementi di produttività, il contenimento dei salari e la precarietà programmata dei minijobs, oltre che il vantaggio ottenuto con il tasso di cambio dell’euro rispetto al marco, per conquistare i mercati esteri e spingere i consumi negli altri paesi europei mediante l’indebitamento, realizzando forti attivi nella bilancia dei pagamenti e accentuando così gli squilibri nel cuore d’Europa.
Un indirizzo che alimenta nazionalismi e spinte fascistiche, e che finirà per penalizzare la stessa Germania. Al quale, però, una giusta strategia politica non contrappone la coalizione antitedesca dei paesi più deboli, che finirebbe per rafforzare i conflitti e le tendenze involutive, ma un’ampia alleanza di lavoratori e di lavoratrici, degli sfruttati di tutti i paesi compresi i lavoratori tedeschi, volta a contrastare il dominio del capitale nell’intero continente. Ciò richiede un’aggiornata analisi di classe e un’iniziativa comuni, di cui oggi non dispongono i subalterni, e che non sembrano nelle corde delle diverse sinistre operanti in Europa. Diversamente dai gruppi dirigenti del capitale finanziario, illuminati non solo dall’istinto classista ma anche da un’evidente egemonia culturale.
Il debito. Non è solo il mezzo per alimentare i consumi privati in regime di bassi salari. È diventato lo strumento attraverso il quale i cosiddetti mercati realizzano oggi una nuova forma di accumulazione del capitale, paragonabile all’accumulazione primitiva della fase nascente del capitalismo. Il bilancio degli Stati nazionali infatti cambia natura. Non solo perché il debito privato delle banche è stato convertito con i salvataggi in debito pubblico. Ma soprattutto perché, attraverso il pagamento degli interessi ai detentori del debito, da strumento di redistribuzione del reddito attraverso la fornitura di beni e servizi reali, si trasforma in fornitore di ricchezza e di stabilità per il capitale finanziario. In altre parole, il debito pubblico diventa un problema quando gli investitori istituzionali se ne impossessano per ricavarne una rendita.
In Italia, dopo il «divorzio» della Banca d’Italia dal Tesoro, gli interessi pagati dallo Stato sono stati incassati nell’arco di 27 anni per il 92%, pari a 1.599 miliardi, dalle istituzioni finanziarie e dal 10% più ricco della popolazione. E per l’8%, pari a 141 miliardi, dal restante 90% degli italiani. Se si considera che le entrate dello Stato provengono per oltre l’80% dai lavoratori dipendenti e pensionati, ci si rende conto di quale gigantesca operazione classista si sia compiuta redistribuendo la ricchezza dai più poveri ai più ricchi e alimentando il parassitismo dei tagliatori di cedole. In Grecia, dopo l’esplosione della crisi, gli “aiuti” della troika non sono stati destinati alla popolazione sofferente per mancanza di lavoro e di reddito, ma alle banche detentrici del debito, soprattutto tedesche e francesi. Secondo il criterio barbaro che regna sovrano come una legge di natura: prima la remunerazione del capitale finanziario, poi tutto il resto, compresa la vita delle persone. Ma un’Europa costruita su questa priorità non è sostenibile e non ha avvenire. E non si vede perché, se non in ragione dei rapporti di forza, per ridurre il debito non si abbatte la spesa per interessi invece di tagliare la spesa sociale.
L’euro. Alla stregua di ogni altra moneta, è espressione di determinati rapporti economico-sociali. Ed è funzionale agli interessi che rappresenta. Come ha notato di recente Gianni Ferrara, «conta il soggetto che […] ne fissa le modalità dell’impiego e ne impone la destinazione». Ed «è il contesto istituzionale nel quale può operare che ne statuisce la funzione e ne determina gli effetti». Essendo strumento operativo di una Banca che non ha come obiettivo la massima occupazione e la riduzione delle disuguaglianze tra le classi, tra i generi e tra le nazioni, ma la stabilità finanziaria dei mercati in competizione con il dollaro e con il renmibi cinese mediante la fornitura di liquidità agli investitori istituzionali privati, ed essendo l’attuale Unione europea costruita sul principio del dominio totalitario del mercato sancito dal Trattato sul funzionamento dell’Unione medesima, non c’è da sorprendersi se l’euro oggi si qualifica come espressione monetaria della massima valorizzazione del capitale finanziario a fronte della massima svalorizzazione del lavoro.
Non per caso Draghi, a cominciare dal 2011 in coppia con Trichet, ha sempre suggerito «riforme strutturali» volte a ridurre i costi e i diritti del lavoro. E non per caso il Jobs Act di Renzi è perfettamente in linea con questa impostazione. Si è creata una condizione per la quale, in regime di cambi fissi, la deflazione salariale ha finito per sostituire la svalutazione della moneta nella competizione intercapitalistica. Ma da questa condizione non si esce positivamente proclamando la fuoriuscita unilaterale dall’euro per ritornare al passato, in regime di monete nazionali, nella illusione che fuori dall’euro la sinistra possa riconquistare la sua funzione storica, come auspica Fassina. La via d’uscita dalla crisi dell’Unione non si trova nel ripiegamento di ogni singolo Stato verso la propria peculiare identità e tanto meno nella rincorsa verso tante piccole patrie dai confini incerti, in una prospettiva che moltiplicherebbe i conflitti a danno soprattutto delle classi sfruttate e dei ceti più deboli.
Al contrario, il problema del momento consiste nell’impostare una piattaforma di lotta, in Europa e in ogni singolo paese, per cambiare le condizioni politiche e istituzionali che fanno dell’euro lo strumento e la figura simbolica dell’oppressione e dell’ingiustizia, modificando i rapporti di forza, smantellando il potere delle tecnoburocrazie al servizio del capitale e aprendo le porte a nuove forme di democrazia. In modo da trasformare la moneta in uno strumento al servizio dell’Europa dei popoli e dei lavoratori. Dunque, non l’uscita dall’euro, ma la rimozione delle condizioni che lo hanno generato nella forma attuale. Per questo è necessario spostare l’attenzione sulle forze da mettere in campo per cambiare i trattati esistenti, il ruolo e la funzione della Bce. Un’operazione che non si può compiere se non si comincia col mettere sotto controllo i mercati.
A tutti dovrebbe essere però chiaro che questo passo avanti decisivo non avrà esito se le lavoratrici e i lavoratori, oggi divisi, disgregati e ridotti a pura merce come foraggio per il bue, non si coalizzano in Europa politicamente per cambiare l’ordine delle cose insieme a tutti coloro che sono stati colpiti dalla crisi. E’ il passaggio obbligato, sempre più stringente, che non si può eludere. Ed è la posta in gioco che sta di fronte alla sinistra. La costruzione di una sinistra nuova in Italia, di classe, popolare e di massa, ha senso e avrà un futuro solo se si pone a questa altezza, definendo preliminarmente un’unica piattaforma per l’Italia e per l’Europa, senza tatticismi e chiusure provinciali.
Un progetto di cambiamento per l’Italia, che abbia come riferimento i principi della Costituzione, può nascere solo dalle concrete condizioni storico-politiche del paese, ma non avrebbe prospettiva se non diventasse parte organica di un progetto di cambiamento dell’intera Europa. Il richiamo a una generica ripresa, allentando qualche vincolo dell’austerità non basta. Occorre rovesciare le priorità imposte dal dominio dei mercati, cioè dal capitale nella sua forma postmoderna e massimamente parassitaria, che ormai produce malessere, disuguaglianze e povertà: prima gli esseri umani, ovvero tutti coloro che per vivere devono lavorare, la stragrande maggioranza del genere umano, al centro di una diversa qualità sociale e ambientale; poi il capitale e l’impresa, secondo il principio che la proprietà deve assolvere a una funzione sociale. Con tutto ciò che questo comporta in termini di remunerazione del lavoro, di occupazione, di standard comuni di welfare. È una questione di fondo, certo di portata storica, che ormai bussa insistentemente alle nostre porte.
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