La
crisi economica mondiale scoppiata nel 2007/8 si sta abbattendo con
particolare forza sull’Europa: la situazione greca ne è l’esempio più
lampante. A livello europeo, la disoccupazione ha raggiunto percentuali
record, i salari reali stanno diminuendo, le diseguaglianze sono alle
stelle e gli attacchi alla classe lavoratrice si sono intensificati.
Secondo dati Eurostat (che sottostimano ampiamente la situazione reale),
nel 2013 circa novantadue milioni di persone, un quarto della
popolazione dell’Europa occidentale, era a rischio di povertà e di
esclusione sociale: 8 milioni e mezzo di persone in più che nel 2007. La
tendenza è più allarmante nei paesi più colpiti dalla crisi come
Grecia, Portogallo, Spagna e Italia, ma è in crescita anche nel Nord
dell’Europa, Gran Bretagna e Germania comprese. Condizioni di povertà,
precarietà e super-sfruttamento prima ritenute “tipiche” del Sud del
mondo stanno diventato sempre più diffuse anche nei paesi ricchi
dell’Unione Europea.
La crisi e i suoi effetti in Europa - compresa l’Europa “ricca”, occidentale - hanno suscitato ampio dibattito, tanto sulle sue cause che sulle strategie da adottare in risposta. Uno dei limiti principali di questo dibattito è che spesso si è concentrato sulla crisi in Europa senza considerare in modo organico la sua dimensione strutturale e internazionale. Il punto è che questa non è una “crisi europea”: è una crisi internazionale del sistema capitalistico. Nonostante i vari segnali di ripresa, inoltre, questa crisi non è una parentesi temporanea che a un certo punto si chiuderà con il ritorno dei “bei vecchi tempi” andati. No, questa crisi manifesta una tendenza strutturale verso l'impoverimento, e dipende da profonde dinamiche economiche e geopolitiche.
La crisi di profittabilità di metà anni Settanta ha fatto emergere con ancor maggiore evidenza il carattere strutturale e internazionale dell’impoverimento. Ha mostrato che, come Marx afferma con forza nel Capitale, l’impoverimento non è una conseguenza di un mancato sviluppo, ma è il risultato dello sviluppo stesso dei rapporti di produzione capitalistici alla scala mondiale. Le politiche neoliberiste che la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale hanno imposto ai paesi del Sud del mondo e dell'ex blocco “sovietico” hanno causato l’impoverimento di ampi settori popolari, determinando un drammatico aumento della povertà globale (confermato dalla Banca Mondiale stessa). In quasi tutti i paesi del mondo, la quota dei salari rispetto al PIL è diminuita. Nella maggioranza dei paesi del Sud del mondo e dell’Est Europa, fatta l’eccezione della Cina, a ciò si è sommata la diminuzione dei salari reali e l’aumento della povertà estrema. Questo è avvenuto almeno fino all’inizio degli anni 2000, quando i movimenti di resistenza – dal Sud America all’Asia – hanno iniziato a mettere in discussione l’ordine neoliberista e neocoloniale.
Guardiamo a qualche cifra. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (International Labour Organization, d’ora in poi ILO), quello che Marx avrebbe chiamato l’esercito industriale di riserva (in cui sono compresi anche i piccoli contadini impoveriti) è oggi composto di circa 2,4 miliardi di persone, ed è circa l’80 per cento più numeroso del numero complessivo di lavoratori salariati (1,4 miliardi). Nel 2010, l’ILO stimava che ci fossero circa 942 milioni di lavoratori poveri – quasi un terzo della forza-lavoro globale attiva – che vivevano sotto la soglia di 2US$ al giorno. Tali processi d’impoverimento hanno avuto come corollario un crescente sfruttamento dei lavoratori occupati.
Potevamo davvero pensare che tali trasformazioni non incidessero sulle condizioni di lavoro e di vita nei centri dell’imperialismo mondiale? La domanda può sembrare retorica, ma vale la pena di porla in ogni caso. Troppo spesso, infatti, ci si dimentica della vera, epocale trasformazione che ha avuto luogo nel periodo neoliberista: la globalizzazione della produzione industriale. Il processo di ristrutturazione internazionale della produzione industriale ha messo fine al monopolio industriale dei paesi occidentali, minando la divisione del lavoro (di origine coloniale) tra paesi industrializzati del Nord e produttori di materie prime nel Sud. Secondo l’ILO, dalla metà degli anni 1970 la forza lavoro industriale nel Sud ha rapidamente superato quella nel Nord, fino al punto che quasi l’80 per cento della forza lavoro industriale oggi vive nel Sud del mondo, rispetto al 34 per cento nel 1950 e 53 per cento nel 1980. Riducendo i costi di transazione all’interno dell’UE ed eliminando le incertezze dei tassi di cambio, l'euro ha facilitato l’internazionalizzazione del capitale europeo e la delocalizzazione produttiva verso i paesi a basso salario dell’Europa dell’Est e, sempre più, dell’Asia. Questi processi hanno determinato una progressiva concentrazione della produzione ad alta intensità di capitale e di servizi (finanziari e non) nel nord dell’UE, e una concentrazione della produzione a bassa intensità di capitale nel Sud.
In seguito all’entrata della Cina nel WTO nei primi anni 2000, l'UE-15 ha perso costantemente quote di mercato nei confronti dei BRIC, in particolare la Cina. L'UE si trova ad affrontare una crescente pressione concorrenziale non solo nella produzione a basso contenuto tecnologico, ma anche in quella ad alto contenuto tecnologico. Ecco perché non è sufficiente guardare ai cosiddetti “costi del lavoro” all'interno dell'UE-15 e prendere il costo del lavoro in Germania come pietra di paragone, com’è stato fatto in molti dibattiti sulla crisi, anche a sinistra. Vari studi hanno mostrato che se ampliamo la gamma dei paesi considerati come concorrenti, il deterioramento della competitività del settore industriale in Europa è ancora maggiore (per esempio: Cambridge Econometrics 2011). Questo è uno dei motivi per cui, dopo un calo iniziale dopo il 2007, gli investimenti esteri dall'UE-15 si sono spostati verso i mercati emergenti, Cina in primis. Secondo l'UNCTAD, per la prima volta nel 2010 le “economie in via di sviluppo” hanno assorbito quasi la metà dei flussi d’investimenti esteri a livello mondiale. Questi processi colpiscono i lavoratori in tutta l'UE-15, in particolare quelli degli Stati del Sud dell’UE, paesi che sono bloccati a un livello medio di tecnologia e sono sempre più in concorrenza con i mercati emergenti.
Questa prospettiva ci permette di comprendere perché la crisi sta colpendo così duramente il settore industriale (a livello UE, circa 4 milioni di posti di lavoro industriali sono stati persi tra il 2008 e il 2012, circa il 12 per cento dell’occupazione industriale); e perché colpisce i paesi europei in modo così differenziato. Ma c’è un altro punto centrale che emerge con chiarezza. Le feroci misure di austerità imposte dalla Troika non sono assurde o irrazionali. Non mirano tanto a ridurre il debito e la spesa pubblica in quanto tali, ma puntano a sostenere la competitività e la profittabilità del capitale riducendo la spesa sociale e smantellando i sistemi di contrattazione nazionale. È per questo che l’Unione Europea sta intervenendo nella legislazione sociale degli stati membri, soprattutto di quelli più indebitati, imponendo piani di riforma strutturale che molti paragonano, non senza qualche esagerazione, a quelli imposti al Sud del mondo e all’Est europeo. Ma anche nei paesi in apparente ripresa, le politiche di austerità stanno facendo crescere la precarietà e l’impoverimento dei lavoratori. A tutto questo si aggiunge un ulteriore generale inasprimento delle politiche contro gli immigrati e del razzismo di stato. L’obiettivo complessivo dell’UE e dei vari governi è smantellare le forme esistenti di solidarietà sociale e di organizzazione sindacale, atomizzando e dividendo ancor di più la classe lavoratrice. Solo in questo modo, infatti, l’Unione Europea può mantenere la sua posizione nel gruppo degli stati imperialisti.
È per questo che la Troika si sta dimostrando così inflessibile con le richieste del governo Syriza-Anel e del popolo greco. Per continuare indisturbati nel loro massacro sociale, il capitale europeo, la Troika, devono dare una lezione esemplare ai lavoratori in Grecia, “colpevoli” di aver alzato la testa e di aver detto no. Con loro, la Troika vuole ammonire i lavoratori in tutta l’Europa, in particolare in un contesto di ripresa della conflittualità che dalla Spagna si sta allargando (in qualche misura) anche alla Germania. Come risponderanno i lavoratori nel resto dell’Europa?
(*) Lucia Pradella è Research Associate alla School of Oriental and African Studies, University of London, e insegna economia del welfare all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È l’autrice dell’Attualità del Capitale (2010) e di Globalization and the Critique of Political Economy (2015), e co-curatrice di Polarizing Development (2014). Ha pubblicato di recente articoli sui lavoratori poveri in Italia, Gran Bretagna e Germania su Comparative European Politics, e su crisi e immigrazione in Europa in Competition & Change.
La crisi e i suoi effetti in Europa - compresa l’Europa “ricca”, occidentale - hanno suscitato ampio dibattito, tanto sulle sue cause che sulle strategie da adottare in risposta. Uno dei limiti principali di questo dibattito è che spesso si è concentrato sulla crisi in Europa senza considerare in modo organico la sua dimensione strutturale e internazionale. Il punto è che questa non è una “crisi europea”: è una crisi internazionale del sistema capitalistico. Nonostante i vari segnali di ripresa, inoltre, questa crisi non è una parentesi temporanea che a un certo punto si chiuderà con il ritorno dei “bei vecchi tempi” andati. No, questa crisi manifesta una tendenza strutturale verso l'impoverimento, e dipende da profonde dinamiche economiche e geopolitiche.
La crisi di profittabilità di metà anni Settanta ha fatto emergere con ancor maggiore evidenza il carattere strutturale e internazionale dell’impoverimento. Ha mostrato che, come Marx afferma con forza nel Capitale, l’impoverimento non è una conseguenza di un mancato sviluppo, ma è il risultato dello sviluppo stesso dei rapporti di produzione capitalistici alla scala mondiale. Le politiche neoliberiste che la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale hanno imposto ai paesi del Sud del mondo e dell'ex blocco “sovietico” hanno causato l’impoverimento di ampi settori popolari, determinando un drammatico aumento della povertà globale (confermato dalla Banca Mondiale stessa). In quasi tutti i paesi del mondo, la quota dei salari rispetto al PIL è diminuita. Nella maggioranza dei paesi del Sud del mondo e dell’Est Europa, fatta l’eccezione della Cina, a ciò si è sommata la diminuzione dei salari reali e l’aumento della povertà estrema. Questo è avvenuto almeno fino all’inizio degli anni 2000, quando i movimenti di resistenza – dal Sud America all’Asia – hanno iniziato a mettere in discussione l’ordine neoliberista e neocoloniale.
Guardiamo a qualche cifra. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (International Labour Organization, d’ora in poi ILO), quello che Marx avrebbe chiamato l’esercito industriale di riserva (in cui sono compresi anche i piccoli contadini impoveriti) è oggi composto di circa 2,4 miliardi di persone, ed è circa l’80 per cento più numeroso del numero complessivo di lavoratori salariati (1,4 miliardi). Nel 2010, l’ILO stimava che ci fossero circa 942 milioni di lavoratori poveri – quasi un terzo della forza-lavoro globale attiva – che vivevano sotto la soglia di 2US$ al giorno. Tali processi d’impoverimento hanno avuto come corollario un crescente sfruttamento dei lavoratori occupati.
Potevamo davvero pensare che tali trasformazioni non incidessero sulle condizioni di lavoro e di vita nei centri dell’imperialismo mondiale? La domanda può sembrare retorica, ma vale la pena di porla in ogni caso. Troppo spesso, infatti, ci si dimentica della vera, epocale trasformazione che ha avuto luogo nel periodo neoliberista: la globalizzazione della produzione industriale. Il processo di ristrutturazione internazionale della produzione industriale ha messo fine al monopolio industriale dei paesi occidentali, minando la divisione del lavoro (di origine coloniale) tra paesi industrializzati del Nord e produttori di materie prime nel Sud. Secondo l’ILO, dalla metà degli anni 1970 la forza lavoro industriale nel Sud ha rapidamente superato quella nel Nord, fino al punto che quasi l’80 per cento della forza lavoro industriale oggi vive nel Sud del mondo, rispetto al 34 per cento nel 1950 e 53 per cento nel 1980. Riducendo i costi di transazione all’interno dell’UE ed eliminando le incertezze dei tassi di cambio, l'euro ha facilitato l’internazionalizzazione del capitale europeo e la delocalizzazione produttiva verso i paesi a basso salario dell’Europa dell’Est e, sempre più, dell’Asia. Questi processi hanno determinato una progressiva concentrazione della produzione ad alta intensità di capitale e di servizi (finanziari e non) nel nord dell’UE, e una concentrazione della produzione a bassa intensità di capitale nel Sud.
In seguito all’entrata della Cina nel WTO nei primi anni 2000, l'UE-15 ha perso costantemente quote di mercato nei confronti dei BRIC, in particolare la Cina. L'UE si trova ad affrontare una crescente pressione concorrenziale non solo nella produzione a basso contenuto tecnologico, ma anche in quella ad alto contenuto tecnologico. Ecco perché non è sufficiente guardare ai cosiddetti “costi del lavoro” all'interno dell'UE-15 e prendere il costo del lavoro in Germania come pietra di paragone, com’è stato fatto in molti dibattiti sulla crisi, anche a sinistra. Vari studi hanno mostrato che se ampliamo la gamma dei paesi considerati come concorrenti, il deterioramento della competitività del settore industriale in Europa è ancora maggiore (per esempio: Cambridge Econometrics 2011). Questo è uno dei motivi per cui, dopo un calo iniziale dopo il 2007, gli investimenti esteri dall'UE-15 si sono spostati verso i mercati emergenti, Cina in primis. Secondo l'UNCTAD, per la prima volta nel 2010 le “economie in via di sviluppo” hanno assorbito quasi la metà dei flussi d’investimenti esteri a livello mondiale. Questi processi colpiscono i lavoratori in tutta l'UE-15, in particolare quelli degli Stati del Sud dell’UE, paesi che sono bloccati a un livello medio di tecnologia e sono sempre più in concorrenza con i mercati emergenti.
Questa prospettiva ci permette di comprendere perché la crisi sta colpendo così duramente il settore industriale (a livello UE, circa 4 milioni di posti di lavoro industriali sono stati persi tra il 2008 e il 2012, circa il 12 per cento dell’occupazione industriale); e perché colpisce i paesi europei in modo così differenziato. Ma c’è un altro punto centrale che emerge con chiarezza. Le feroci misure di austerità imposte dalla Troika non sono assurde o irrazionali. Non mirano tanto a ridurre il debito e la spesa pubblica in quanto tali, ma puntano a sostenere la competitività e la profittabilità del capitale riducendo la spesa sociale e smantellando i sistemi di contrattazione nazionale. È per questo che l’Unione Europea sta intervenendo nella legislazione sociale degli stati membri, soprattutto di quelli più indebitati, imponendo piani di riforma strutturale che molti paragonano, non senza qualche esagerazione, a quelli imposti al Sud del mondo e all’Est europeo. Ma anche nei paesi in apparente ripresa, le politiche di austerità stanno facendo crescere la precarietà e l’impoverimento dei lavoratori. A tutto questo si aggiunge un ulteriore generale inasprimento delle politiche contro gli immigrati e del razzismo di stato. L’obiettivo complessivo dell’UE e dei vari governi è smantellare le forme esistenti di solidarietà sociale e di organizzazione sindacale, atomizzando e dividendo ancor di più la classe lavoratrice. Solo in questo modo, infatti, l’Unione Europea può mantenere la sua posizione nel gruppo degli stati imperialisti.
È per questo che la Troika si sta dimostrando così inflessibile con le richieste del governo Syriza-Anel e del popolo greco. Per continuare indisturbati nel loro massacro sociale, il capitale europeo, la Troika, devono dare una lezione esemplare ai lavoratori in Grecia, “colpevoli” di aver alzato la testa e di aver detto no. Con loro, la Troika vuole ammonire i lavoratori in tutta l’Europa, in particolare in un contesto di ripresa della conflittualità che dalla Spagna si sta allargando (in qualche misura) anche alla Germania. Come risponderanno i lavoratori nel resto dell’Europa?
(*) Lucia Pradella è Research Associate alla School of Oriental and African Studies, University of London, e insegna economia del welfare all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È l’autrice dell’Attualità del Capitale (2010) e di Globalization and the Critique of Political Economy (2015), e co-curatrice di Polarizing Development (2014). Ha pubblicato di recente articoli sui lavoratori poveri in Italia, Gran Bretagna e Germania su Comparative European Politics, e su crisi e immigrazione in Europa in Competition & Change.
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