Raramente, nella storia italiana del secondo dopoguerra, una canzone è
stata in grado di narrare ed evocare – anche a distanza di decenni – un
fatto pubblico come Per i morti di Reggio Emilia.
C’è un filo rosso tra i moti genovesi del 30 giugno 1960 e la canzone
scritta da Fausto Amodei: la manifestazione del 7 luglio proclamata
nella città emiliana dalla Cgil, contro cui si scatena la repressione
della polizia e dei carabinieri che provoca i “morti di Reggio Emilia”,
nasce proprio sull’onda della grande sollevazione popolare e operaia
avvenuta a Genova per impedire la celebrazione del congresso nazionale
del Msi.
La protesta monta in tutta Italia, e va al di là della specifica
vicenda del congresso neo-fascista: il sostegno dei parlamentari
missini, infatti, è indispensabile per l’esistenza del governo
democristiano presieduto da Tambroni. Per la prima volta, in Italia, ci
sono una maggioranza e un governo distanti anni luce senza se e senza ma
dalla Costituzione e desiderosi di utilizzare ogni mezzo per fermare il
movimento operaio e il partito comunista. La possibilità di deviazione
verso soluzioni autoritarie e fascistoidi è concreta e realistica.
Fausto Amodei canta il dolore e l’indignazione per i manifestanti
colpiti dal piombo di stato a Reggio Emilia, ed è evidente il richiamo
del giovane cantautore alla necessità di una nuova Resistenza.
Anche se legata ad un fatto di cronaca, Per i morti di Reggio Emilia
ha una scrittura colta e complessa, che la rende diversa da numerose
altre canzoni politiche e di lotta: è, per alcuni aspetti, una canzone
composta da altre canzoni.
Nel testo viene citata in ben due passaggi Fischia il vento (“sopra
l’Italia intera/fischia il vento e infuria la bufera”, “uguale è la
canzone/che abbiamo da cantare/scarpe rotte eppur bisogna andare”), a
ribadire il forte richiamo al patrimonio politico e morale della lotta
partigiana, e nel conosciutissimo finale arriva l’esortazione perché i
compagni uccisi dal governo Tambroni risorgano e cantino Bandiera rossa
(“Morti di Reggio Emilia/uscite dalla fossa/fuori a cantar con
noi/Bandiera rossa”).
Amodei riconosce e legittima, anche in questo modo, la canzone di
lotta come componente della storia più complessiva del Paese; come
richiamo la cui evocazione consente di raffigurare in modo diretto
eventi ed esperienze collettive del passato. Il cantautore esprime in
musica la sua convinzione, ovvero che la canzone sia uno strumento di
narrazione popolare al servizio delle masse. E, a sua volta, Per i morti
di Reggio Emilia si pone proprio in questa direzione. In questo, è una
meta-canzone.
C’è un’altra ragione che fa sì che il riferimento ai canti del
movimento operaio e partigiano abbia un ruolo centrale nell’impianto di
questo brano: cosa stanno facendo i lavoratori delle Officine Meccaniche
Reggiane che si trovano davanti al monumento dei Caduti, quando la
polizia comincia a sparare? Stanno cantando. Usano il canto per onorare i
caduti della Resistenza e per rinnovare il proprio legame ideale e
politico con i partigiani. Un legame a maggior ragione importante
proprio perché il 7 luglio del 1960 quei lavoratori lottavano e si
opponevano ad un governo di destra sostenuto dai fascisti. Questo dà un
senso preciso allo stesso finale della canzone, quell’invito ai morti a
tornare per unirsi attraverso il canto ai vivi.
Inoltre nel testo Amodei, parlando dei caduti del 7 luglio, fa un
chiaro riferimento alla questione generazionale: “son morti sui
vent’anni/per il nostro domani/son morti come vecchi partigiani”. E’ un
passaggio importante, perché tanto a Genova quanto a Reggio Emilia si
trovano dalla stessa parte della barricata i partigiani e quelli che
sono “sui vent’anni”, ovvero giovani proletari cresciuti nella difficile
stagione del centrismo. Si affaccia quindi alla lotta e al conflitto
sociale una nuova generazione: sono i teddy boys, o i ragazzi con la
maglietta a strisce.
Va detto che l’autore di Per i morti di Reggio Emilia, allora
ventiseienne, non aveva un rapporto “individuale” con la musica, ma
faceva parte del gruppo Cantacronache. I Cantacronache, anche se avevano
un pubblico molto ristretto e di nicchia, hanno svolto un ruolo
fondamentale nella storia della canzone italiana. Sono stati coloro che
con maggiore radicalità – tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio
dei Sessanta (la loro attività va dal 1958 al 1962) – hanno
caratterizzato la canzone come strumento di critica morale, sociale e
politica, ponendosi all’opposizione dell’Italia democristiana. Proprio
nello stesso periodo nascono nuove tendenze nel campo della canzone più
commerciale: Modugno vince il Festival di Sanremo nel 1958 con Nel blu
dipinto di blu, brano che rompe con la tradizione del melodramma fino ad
allora imperante anche nella musica leggera. Arriva da oltreoceano il
rock and roll, che diventa uno dei punti di riferimento anche dei teddy
boys nostrani. Si aprono così nuovi spazi, indispensabili per la nascita
dei primi cantautori. Ma il gruppo dei Cantacronache – composto da
musicisti politicizzati ed intellettuali – considerava tali tendenze
totalmente interne alla logica del capitalismo e della difesa
dell’esistente.
In fondo i Cantacronache facevano con le canzoni ciò che i ragazzi
con le magliette a strisce facevano con gli scioperi, le rivolte e le
pietre.
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