sabato 11 luglio 2015

Grecia: bilancio (provvisorio) e prospettive di un riformismo onesto di Michele Nobile

ruined eu and greek1. Lo scontro tra il governo di Tsipras e i creditori internazionali della Grecia si svolge sul terreno economico ma, in effetti, è tutto politico; e se oggetto dei negoziati è la politica economica e sociale della Grecia, in prospettiva ad essere in gioco è l'intero sistema delle politiche e delle istituzioni europee o, meglio, il limite a cui esse possono spingersi nel confronto col governo di uno Stato membro la cui prospettiva è diversa da quella sedicente liberista. Infatti, non esiste alcuna presunta legge o necessità economica per imporre alla Grecia la feroce austerità che ha dovuto sopportare e a cui pare destinata ancora per anni, stando alla volontà della troika dei creditori, ribattezzata «le istituzioni»; anzi, sono proprio l'austerità e la conseguente depressione dell'economia che impediscono di ridurre il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno. A fronte dell'iniquità della politica neoliberista della troika, la vittoria elettorale di Syriza e la formazione del governo Tsipras sono eventi di enorme importanza per la sinistra europea:
«Per la prima volta dalla formazione dell'area dell'euro, nel negoziato tra il governo Tsipras e la troika (Banca centrale europea, Commissione europea, Fondo monetario internazionale) si sono opposte in modo chiaro due linee realmente alternative, sul piano istituzionale e del confronto fra governi»1.
La mia personale valutazione è che il governo Tsipras abbia operato nel migliore dei modi, per quanto umanamente possibile e date le circostanze. Ha mostrato saldezza di nervi, dignità e determinazione, caratteristiche non frequenti, per essere gentili, nella politica europea, in particolar modo in Italia.
Tuttavia, è veramente miope confondere il sostegno a chi lotta, come può, contro la postdemocrazia con l'adesione alla sua strategia politica. Al contrario, non solo replicare il successo di Syriza altrove in Europa è difficile, ma tutta la più recente vicenda greca dimostra, a parere di chi scrive, i limiti di una prospettiva elettorale di riforma delle istituzioni e della politica della postdemocrazia europea.
Se non si vuole chiudere gli occhi o indulgere nel propagandismo, peraltro contraddicendo quanto affermano gli stessi Tsipras e Varoufakis, si deve prendere atto che il governo Tsipras è costretto a contrattare non la fine, ma i modi e il peso e la distribuzione dell'austerità. Anche la convocazione del referendum è una carta giocata, abilmente ma non senza rischi, per forzare, per quanto possibile, la rete in cui il governo è avvinto. La vittoria del no al referendum allarga le maglie della rete e sposta nel tempo le contraddizioni, non le risolve.
Il problema di fondo non è neanche se uscire o meno dall'area dell'euro: chi sostiene la prima posizione vede un aspetto della situazione ma ipotizza una scorciatoia che, in effetti, ignora la questione fondamentale. Non si tratta solo degli effetti socioeconomici dell'abbandono dell'eurosistema, ma dei rapporti di forza tra le classi in Grecia.
Su questo occorre riflettere attentamente, non solo per comprendere il corso futuro della Grecia, ma anche perché mette in discussione la strategia che punta a emulare il successo elettorale di Syriza.

2. La posizione in cui si è trovato il governo Tsipras è paragonabile a quella del governo di uno Stato che sia stato sconfitto in guerra e al quale i vincitori intendano far pagare delle riparazioni punitive. La caduta del prodotto interno della Grecia dal 2008 (un quarto; picco del 27% del tasso medio di disoccupazione, tasso di disoccupazione giovanile ben oltre il 50%) è la più grave tra tutti i paesi europei «occidentali» dopo la Seconda guerra mondiale, circa tre volte maggiore dei crolli in Finlandia nel 1990-93 e in Irlanda nel 2007-09. Politicamente e moralmente il disastro è tanto più grave perché guerra non c'è stata, né una rivoluzione né una transizione come nelle repubbliche dell'ex Unione sovietica: il disastro non è imputabile a straordinari eventi storici, ma a deliberate decisioni politiche in tempo di pace. Ciò che si vuole venga «riparato», a spese dei cittadini greci, in origine non era altro che il salvataggio delle banche private francesi e tedesche; e queste pseudo-riparazioni sono strumentali a una serie di «riforme» il cui effetto depressivo sull'attività economica è tale per cui il debito non potrà mai essere rimborsato, ammesso che esso sia rimborsabile anche nel migliore dei casi, fatto assai dubbio. Inoltre, la responsabilità dell'inefficienza, del clientelismo e della corruzione dell'apparato statale greco, nonché della «finanza pubblica creativa» e menzognera, non è certo di Syriza, ma dei partiti che hanno governato la Grecia dalla caduta della dittatura e che, per la troika e i mass media, sarebbero i veri e responsabili «europeisti». Fatti - questi - notati non solo da intellettuali marxisti, ma da economisti che radicali non sono per nulla, quali Krugman, Stiglitz e Jeffrey Sachs; in ultimo, pochi giorni fa, alla conclusione che il debito greco è insostenibile è giunto anche, nientedimeno, il Fondo monetario internazionale, ma nei termini che esamino oltre.
In realtà, la crisi del debito sovrano della Grecia non nasce in Grecia, ma nel funzionamento dell'economia europea e mondiale: dal nesso tra espansione creditizia, bolle speculative, polarizzazione della domanda e dell'offerta mondiali (con gli Stati Uniti a un estremo, Germania, Giappone e Cina all'altro), e dalla riproduzione di questo meccanismo all'interno dell'area monetaria dell'euro, aggravato dal fatto che alla moneta unica si affiancano regole restrittive sulla finanza pubblica. Allo stesso modo, la risoluzione della crisi greca non potrà mai darsi in una dimensione nazionale.
Per apprezzare l'atteggiamento del governo Tsipras nei negoziati, può essere utile richiamare un'altra importante vicenda, che all'epoca suscitò grandi aspettative tanto che, per Fausto Bertinotti e Rifondazione comunista, continuò ad essere un esempio ben dentro il nuovo secolo (e probabilmente è, nostalgicamente, ancora tale): quella dell'Union de la gauche in Francia, diretta da Mitterand, di cui faceva parte anche il Partito comunista francese. Ebbene, il programma con cui Syriza ha vinto le elezioni è ben più moderato del «programma comune» con cui l'Union de la gauche vinse le elezioni politiche e presidenziali nel 1981. Tuttavia, alla prima difficoltà Mitterand e i socialisti francesi operarono una completa inversione di rotta, nonostante la Francia fosse uno dei «grandi», una potenza nucleare, avesse una posizione economica e finanziaria infinitamente più forte della Grecia e la sovranità monetaria e fosse libera dai vincoli determinati dai trattati del decennio successivo. Anzi, furono proprio i socialisti francesi a farsi convinti e allegri propagatori del neoliberismo in versione «sociale» in Europa, nonché promotori dell'unificazione monetaria, nei termini poi dettati dalla recalcitrante Bundesbank al cancelliere tedesco. In un contesto di depressione profonda, elevatissima disoccupazione e povertà dilagante, privato della possibilità di condurre una politica economica e sociale indipendente e con rilievo diplomatico e strategico ben diverso da quello della Francia mitterandiana, il governo Tsipras si è trovato di fronte alla negazione di qualsiasi piano di rilancio dell'economia. Questo ha significato che, già all'inizio dei negoziati di febbraio, il governo greco è stato costretto a rinunciare alla realizzazione del programma con cui aveva appena vinto le elezioni. Di esso, anche al di là delle singole misure, è stata subito liquidata la logica espansiva, che aveva importanti implicazioni anche per il resto d'Europa.
È dunque chiaro che lo scontro politico non ha per oggetto la realizzazione del programma con cui Syriza ha vinto le elezioni; né, ovviamente, è in questione la fine del cosiddetto neoliberismo la cui vigenza, al contrario, viene ribadita con la massima energia dai governi e dalle istituzioni europee, insieme al Fmi.
Di fatto l'unico spazio, temporaneamente concesso a febbraio, riguardava la contrattazione sul quanto e sul come continuare l'austerità che ha causato la più grave depressione del dopoguerra in un paese europeo.

La mia valutazione è che il governo Tsipras, in una situazione infinitamente più difficile di quella francese nei primi anni Ottanta, ha fatto quel che poteva fare, dati i rapporti di forza sul piano istituzionale e diplomatico: contrattare fino all'ultimo l'alleggerimento dell'austerità e la distribuzione del suo peso verso gli strati più ricchi della società greca, mantenendo la prospettiva di misure che legassero il pagamento del debito all'evolversi della crescita economica. Il governo Tsipras non ha «venduto» l'austerità ai suoi elettori per qualcosa di diverso, né ha nascosto la differenza di vedute rispetto alla troika, pur illudendosi di poter raggiungere un compromesso ragionevole e concordato. I greci hanno contrattato seriamente con alcuni dei governi e delle istituzioni più potenti del pianeta, utilizzando gli strumenti, assai deboli, di cui dispongono: la legittimazione del voto popolare, che per gli avversari è solo un fastidio che non intimorisce, e dell'alta burocrazia di uno Stato corrotto, inefficiente, ostile, organico al capitalismo greco.
L'arroganza delle caste politiche europee, che ha una sua razionalità, è stata però tale da puntare ad imporre, più che un compromesso sfavorevole, una capitolazione politica totale e definitiva. Si ricorderà il trionfalismo dei «realisti» della stampa padronale dopo l'accordo, temporaneo, di febbraio: era quello di gente che, da troppo tempo, ha fatto l'abitudine a veder chinare le schiene e a cooptare nella casta politica, in posizione subordinata e finché è utile, i partitini rossi e verdi. Politici, eurocrati e pennivendoli sono però rimasti spiazzati dall'azione di un soggetto che si sforza di tenere la testa alta. Lo scontro in atto tra la troika dei creditori internazionali e il governo greco è quindi, innanzitutto, lo scontro tra la volontà popolare, espressa in libere elezioni e rappresentata da Syriza, e le istituzioni non elette ma che rappresentano il potere capitalistico in Europa. È uno scontro tra interessi sociali contrapposti, ma anche fra la più elementare forma di democrazia e le istituzioni della postdemocrazia.
Di fronte all'ostinata determinazione dei creditori, il governo Tsipras non ha voluto diventarne il burattino, rifiutando di sottoscrivere un accordo capestro che, in effetti, avrebbe fatto entrare Syriza, o una sua parte, nella grande famiglia dei partiti della postdemocrazia europea, come già accaduto con il Pasok, alla nascita il più a sinistra tra i partiti socialdemocratici europei (ad es., era contrario alla Nato).
Sottoponendo a referendum i termini di un eventuale accordo con la troika, il governo greco ha confermato di continuare a muoversi nella linea del rispetto della volontà popolare e della democrazia.

3. La contrattazione tra il governo greco e la troika dei creditori ha poco a che fare con presunte leggi economiche e tutto a che fare con la conferma di una determinata linea di politica economica e della concentrazione del potere politico in istituzioni, nazionali e internazionali, sottratte alla pressione del voto popolare.
Teoricamente, il debito di uno Stato può ridursi variando i seguenti parametri o una loro combinazione: 
a) ammontare e persistenza dell'avanzo primario (al netto degli interessi); 
b) la riduzione del tasso di interesse reale pagato sul debito; c) la crescita reale del prodotto interno superiore al tasso d'interesse; 
d) la ristrutturazione del debito stesso, del suo ammontare e delle sue scadenze.
Nel caso della Grecia, l'alta professionalità delle istituzioni internazionali che hanno imposto i famigerati Memorandum si è manifestata con il sistematico e grave discostarsi delle previsioni dalla realtà e con l'errata valutazione degli effetti negativi del cosiddetto aggiustamento fiscale. Su questo ultimo punto si deve riconoscere al Fmi di aver fatto formalmente autocritica, ma a disastro compiuto2 .
 the imf defaulted on greece a long time ago
La politica fino ad ora imposta dalla troika e fatta propria dalla casta politica greca ha ottenuto effetti opposti a quelli intesi: non solo l'economia ha dato pochi segni vitali ed è rimasta in depressione, con il prodotto interno ancora inferiore di almeno il 25% al livello pre-crisi e un tasso di disoccupazione medio negli ultimi anni almeno al 25%, ma il rapporto del debito in percentuale del prodotto interno è aumentato.
Nel 2012 il debito pubblico greco venne ristrutturato, con il risultato di ridurre il valore della quota detenuta dai privati al 13% di quello che era nell'aprile 2010, quando la Grecia perse l'accesso al mercato internazionale dei capitali. Si trattò di un record mondiale per entità della ristrutturazione e delle perdite dei creditori, e la prima in Europa occidentale dopo le operazioni del dopoguerra3 .
Il debito pubblico greco è quindi ora quasi completamente nelle mani di creditori istituzionali europei, più la quota del Fmi. Questo è un fatto della massima importanza politica. Il debito pubblico greco non è un debito internazionale, cioè tra diversi Stati sovrani - ciascuno con una propria moneta. Sia per la parte detenuta dalla Banca centrale europea che per quella detenuta dai governi che fanno parte dell'area dell'euro, è un debito interno a un'unica area monetaria. Non esiste alcuna astratta e impersonale «legge economica» che prescriva che questo debito debba essere trattato come un debito internazionale. Tanto è vero che su di esso, e sull'andamento dei mercati, grava il pericolo di ridenominazione del debito: ovvero dell'uscita della Grecia dall'eurosistema.
Esistono invece delle regole politicamente stabilite e una precisa volontà politica di trattare il debito greco e il governo Tsipras in un certo modo. Tuttavia, se nel 2012 è stato possibile ristrutturare il debito pubblico greco detenuto da privati, un'operazione niente affatto indolore per i creditori ma che non ha suscitato una tempesta finanziaria, non si comprende, per così dire, perché non sia ora possibile ristrutturare il debito detenuto da soggetti politici o non-privati come la Bce e il Fmi, riducendolo, allungandone ulteriormente le scadenze e abbassando ancora i tassi di interesse, e perché non sia possibile ancorare il rimborso del debito alla più importante delle variabili prima indicate: la crescita dell'economia greca. È ragionevole pensare, se si vuol davvero essere europeisti, che se uno Stato membro dell'Unione europea e dell'eurosistema versa in difficoltà tanto drammatiche, e se il suo debito pubblico (prescindendo dalle responsabilità precedenti e delle ragioni dello stesso) è detenuto dalla Bce e dagli altri Stati membri, sia allora possibile una soluzione politica. Nella recente letteratura internazionale sono stati già formulati diversi progetti in questo senso e questo era anche il disegno originario del programma di Syriza. Qui non interessano i dettagli, ma il principio è che non esistono motivi «tecnici» che impediscano tale soluzione. Ciò che i governanti europei di destra e di sinistra e i mass media allineati vogliono far passare nell'opinione pubblica è che il debito greco sia responsabilità del popolo greco e che esso debba giustamente pagarlo. Così facendo, i governanti postdemocratici fanno un gioco curioso quanto ipocrita: si valgono dell'opinione che essi stessi contribuiscono con tutti i mezzi a diffondere per legittimare «democraticamente», con l'argomento della responsabilità a fronte della cittadinanza, il potere di istituti postdemocratici.
Apparentemente, la feroce ostinazione dei governi europei e della Bce nei confronti della Grecia può apparire del tutto irrazionale: è dimostrato empiricamente che l'austerità fiscale ha effetti depressivi, in contrasto con il fondamentale principio che, per pagare un debito, occorre che le entrate siano regolari o crescano. In un contesto di contrazione del prodotto interno rispetto al livello pre-crisi, di alta disoccupazione e di capacità produttive non utilizzate, lo Stato greco dovrebbe spendere più e non meno. La domanda interna è già bassa e pare proprio ci sia ben poco altro da spremere. In un contesto di questo genere anche quelle riforme razionalizzatrici, di attacco a privilegi clientelari, possono risultare di difficile applicazione o perfino controproducenti.
Tuttavia, questa politica dei creditori è tutt'altro che priva di senso.
Innanzitutto, si tratta di riaffermare il principio neoliberista della separazione tra Banca centrale e Tesoro, in modo da rendere dipendente la politica economica complessiva dalla linea della Banca centrale: in altri termini, si tratta di ribadire il principio che il luogo della decisione politica debba essere quanto più lontano possibile dal potere legislativo e, quindi, dall'indiretta influenza del popolo. Si tratta di impedire la «monetizzazione del debito», ponendo limiti di fatto all'espansione della spesa pubblica. Tuttavia, tale regola risulta di fatto soggetta a giudizio politico, o a rapporti di forza politici: ad esempio, né la Francia né la Germania sono state oggetto di sanzioni per aver violato il Patto di stabilità nel 2003.
Un altro motivo è questo: il modo in cui gli Stati hanno fronteggiato la crisi internazionale negli anni 2008-10, che portò alla crescita dei deficit pubblici, e le politiche dette non-convenzionali delle banche centrali, inclusa la Bce, hanno dimostrato la fallacia dell'ideologia neoliberista e riportato obiettivamente l'intervento statale su ampia scala al centro della gestione dell'economia. Contrariamente a quanti hanno a lungo sostenuto l'indebolimento dei poteri di intervento statale nell'economia a fronte dell'imperversare dei «mercati», attraverso il Fondo europeo di stabilità finanziaria (European Financial Stability Facility, Efsf), poi il Meccanismo europeo di stabilità (European Stability Mechanism, Esm), i programmi di acquisto titoli della Bce, ultimo le Outright Monetary Transactions e le operazioni di rifinanziamento (ultime le Longer-Term Refinancing Operations, Ltro), in Europa si sono creati, sia pur tardivamente e con gravi limiti, strumenti di intervento importanti. Tuttavia, proprio perché si è dimostrata la possibilità e la necessità della gestione politica del processo economico, è stato indispensabile porre limiti politici a questi interventi, affinché fosse possibile riprodurre, sia pure in termini rinnovati, l'impostazione liberista (o neomercantilista). Per questo la subordinazione degli interventi a condizioni pesanti di «riforma» interna e al consenso dei governi nazionali. Da qui il fiscal compact (Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell'unione economica e monetaria) sottoscritto dai governi dell'Unione nel marzo 2012, che ha rafforzato le stringenti norme fiscali già vigenti nell'Unione europea introducendo la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio e, per la prima volta in forma vincolante, l'obiettivo di un deficit strutturale, al netto delle variazioni cicliche, non superiore allo 0,5% del Pil.

Detto nel modo più breve, «tecnicamente» il contrasto tra il governo greco e la troika si può ridurre alla definizione del valore dell'avanzo del bilancio pubblico al netto del pagamento degli interessi (primary surplus) e alla credibilità, per i creditori, delle misure di politica economica necessarie per conseguire l'obiettivo. Nel corso del negoziato tra governo greco e troika le distanze delle posizioni circa l'avanzo primario si sono ridotte, e questo è stato il maggior successo dei greci; tuttavia i creditori sono stati inflessibili sul debito e su misure gravose per i ceti popolari. Davanti alla tenacia dei governanti e dei padroni, che è solo apparentemente irrazionale, non mi stanco di citare questo passo di Kalecki, che implicitamente è pure rivolto contro le illusioni elettorali e i piani a tavolino:
«In un regime di continuo pieno impiego il licenziamento cesserebbe di agire come misura disciplinare. La posizione sociale del "principale" sarebbe scossa, si accrescerebbe la sicurezza di sé e la coscienza di classe dei lavoratori. Gli scioperi per un salario più alto e il miglioramento delle condizioni di lavoro sarebbero fonti di tensione politica.
È vero che i profitti sarebbero più elevati in un regime di pieno impiego, rispetto al loro livello medio sotto il laissez faire. Persino la crescita dei salari derivante dalla posizione più forte dei lavoratori verrebbe ad agire piuttosto in direzione di un accrescimento dei prezzi che di una riduzione di profitti e in tale maniera verrebbe a colpire soprattutto gli interessi dei redditieri.
Ma la "disciplina nelle fabbriche" e la "stabilità politica" sono più importanti per i capitalisti dei profitti correnti. L'istinto di classe dice loro che una continua piena occupazione non è "sana" dal loro punto di vista perché la disoccupazione è un elemento integrale di un sistema capitalistico normale»4 .
Da qui, infine, l'argomento fondamentale: ogni crisi capitalistica è occasione per rinnovare l'attacco ai diritti socioeconomici dei lavoratori e della cittadinanza, innalzando in tutti i modi, diretti e indiretti, il tasso di sfruttamento. È occasione che non può andare persa e chiunque, come il governo Tsipras, si sforzi - bene o male - di fronteggiare tale attacco è un avversario da liquidare. 
Il padronato e le caste partitico-statali europee conducono la lotta di classe in modo lucido, duro, determinato, coordinato su scala continentale. Fanno il loro lavoro sulla base di una serie di sconfitte storiche, almeno dai primi anni Ottanta del secolo scorso, dunque di rapporti di forza costruiti in decenni, cristallizzati nelle istituzioni e nella convergenza programmatica dei partiti di governo, nell'involuzione dei rapporti tra potere esecutivo, burocrazia e potere legislativo. Pensare che tutto questo possa essere cambiato con uno o più successi elettorali è del tutto irrealistico. Quel che occorre è una lotta di classe altrettanto lucida, dura, determinata, altrettanto coordinata. I limiti dell'azione del governo Tsipras sono i limiti della lotta di classe, non solo in Grecia ma in tutta Europa.

4. Da quel che precede si intende perché ritenga del tutto infondata l'accusa di tradimento rivolta contro il governo Tsipras. Si può definire traditore, ammesso che questa qualifica morale spieghi effettivamente un comportamento politico collettivo, chi abbandona volontariamente un impegno per propri fini personali o di gruppo. Tsipras e Syriza sono stati costretti in una camicia di forza, di cui si sforzano di allentare la presa. Un giorno sarà possibile ricostruire l'intera vicenda diplomatica e valutare meglio eventuali errori tattici nella trattativa.
Ma il governo greco ha lottato, sta lottando. Il dramma obiettivo è che le «armi» politiche di cui dispone sono deboli.
Moralismo a parte, la critica più ragionevole che può rivolgersi a Tsipras e alla maggioranza di Syriza è che abbiano gravemente sopravvalutato la possibilità di riformare la politica europea. Ma la risposta a questo, che ritengo corretta, è che la «modesta proposta» di Varoufakis e lo stesso programma elettorale di Syriza sono veramente modesti, nel senso di essere perfettamente compatibili con il capitalismo. Si tratta di proposte concepite per venire incontro alla controparte e suscettibili di un'interpretazione che le renda congruenti con le esistenti norme europee. Syriza e Tsipras non solo non si sono proposti di fare la rivoluzione, ma neanche di trasformare la struttura istituzionale dell'Unione europea. Certamente non nell'immediato; sono altri, all'estero, che hanno preso lucciole per lanterne. E allora, la modestia della proposta presuppone che Tsipras e la maggioranza di Syriza non abbiano sopravvalutato la capacità negoziale della Grecia: che siano stati realisti. Hanno, invece, sopravvalutato la possibilità che, nel momento cruciale, i creditori potessero dividersi, cosa che fino ad ora non è stata: hanno nutrito illusioni in Hollande e Renzi, forse nella Merkel e nello stesso Draghi; quest'ultimo, in particolare, non aveva forse dichiarato che «la Bce è pronta a fare tutto il necessario a preservare l'euro»? E in effetti, non può la risoluzione della questione del debito (detto) sovrano della Grecia intendersi come parte necessaria di una strategia di stabilizzazione dell'area dell'euro? Al tavolino sì, certamente.
Qui interviene però il «fattore Kalecki», cioè la resistenza che i capitalisti o i loro rappresentanti oppongono a proposte che, pur ragionevoli e compatibili, possono tuttavia, sia pur indirettamente e col passar del tempo, rafforzare la posizione contrattuale dei lavoratori o dar credito a un soggetto politico considerato poco affidabile. È in questo senso che la partita tra il governo Tsipras e «le istituzioni» è essenzialmente politica: e di politica europea, non solo greca.

Allora, considerando il disegno istituzionale intrinsecamente avverso alla pressione popolare democratica, il potere strutturale dei governi degli Stati più importanti dell'area dell'euro, la loro ferma volontà politica, non è indispensabile uscire dall'area dell'euro e, eventualmente, dalla stessa Unione?
Solitamente l'obiezione a questa indicazione è di natura economica: uscire dall'euro potrebbe aggravare ulteriormente, almeno nel breve o medio periodo, la crisi socioeconomica. Sono d'accordo. Tuttavia, il dibattito intorno al Grexit da sinistra è molto viziato di economicismo. Altrettanto o più importanti sono le obiezioni politiche.
Ipotizziamo che la situazione politica greca fosse simile a quella del Portogallo nel 1975, cioè di minaccia reale per il potere capitalistico. Allora la questione, dentro o fuori l'area dell'euro, con ogni probabilità si risolverebbe, per così dire, da sé: nel senso che, nel tentativo di normalizzare la situazione e sostenere un governo moderato, i governi europei acconsentirebbero a ristrutturare il debito della Grecia e rinuncerebbero a imporre le misure antipopolari; oppure cercherebbero di strangolare immediatamente un governo espressione della rivoluzione incipiente, negando ogni finanziamento alla Banca centrale greca da parte della Bce, espellendo di fatto la Grecia dall'eurosistema. Comunque, sarebbe questione subordinata ad altre.
Chi sostiene l'uscita dall'area dell'euro da sinistra vede chiaramente un importante aspetto della situazione, la natura capitalistica delle istituzioni europee, ma prende una scorciatoia, invertendo l'effetto e la causa. Pone come determinante qualcosa che potrebbe essere il risultato di un processo di mobilitazione massiccia e di radicalizzazione dei lavoratori e dei comuni cittadini greci, indispensabile anche per creare le condizioni politiche entro le quali avrebbe senso decidere se e come rimanere nell'area dell'euro e fronteggiare le conseguenze di un'eventuale uscita o espulsione dall'eurosistema. In assenza di un movimento di massa che incida direttamente sui rapporti di forza tra le classi e che sappia esprimere nuovi organi di potere, in grado di sostituire o di subordinare gli apparati statali esistenti e l'alta burocrazia, uscire dall'eurosistema rischia di essere un suicidio, perché comporterebbe un più, non un meno, di sofferenza sociale: sacrifici certi e immediati, ma non sostenibili dalla speranza di costruire una società nuova.
Anche in questo caso, in fondo, si nutre un'illusione istituzionalista: si punta su una scorciatoia in cui al centro è la manovra dall'alto, resa possibile da una maggioranza parlamentare. Può ben accompagnarsi con una retorica movimentista, ma i movimenti non si decretano. Oggi, in Grecia, i rapporti di forza sociali, purtroppo, non sono della qualità necessaria.

Infine, l'illusione geopolitica: ovvero che il governo Tsipras possa essere «salvato» da un intervento economico della Russia e/o della Cina. Speculazioni in questo senso sono state fatte in occasione dell'incontro di Tsipras con Putin ad aprile, con la firma di un trattato commerciale per il valore di 4 miliardi di euro e il rinnovarsi del discorso sulle forniture energetiche della Russia alla Grecia.
Per porre la questione in prospettiva, si considerino gli ottimi rapporti tra Putin e Kōstas Karamanlīs, capo del governo di centrodestra di Nea Dimokratia: tra il 2004 e il 2009 questi incontrò Putin sei volte; nel 2006, concretizzando un progetto in discussione dal 1994, venne annunciato l'oleodotto Burgas-Alexandroupolis, con un tracciato dalla Russia alla Grecia, passando dalla Bulgaria (che poi si ritirò); nel 2007 Putin offrì alla Grecia di partecipare al progetto di gasdotto South Stream; sotto lo stesso governo venne aumentata la quota russa di forniture militari, con l'acquisto di 450 Bmp-3, uno dei più pesanti mezzi di combattimento per fanteria esistenti, e nel gennaio 2009 vennero svolte esercitazioni aeronautiche congiunte nell'Egeo. Ragion per cui, nel quadro della tensione intorno all'Ucraina e alle sanzioni, la visita di Tsipras è certamente distensiva, ma niente affatto straordinaria: una ripresa dopo il raffreddamento nel periodo del governo di Papandreou. Inoltre, la Grecia ha uno dei suoi più importanti deficit commerciali bilaterali proprio con la Russia, oltre che con la Cina. Una caratteristica della politica estera di Putin nei suoi due mandati è di aver preteso prezzi di mercato per le forniture energetiche: la Grecia importa l'80% del gas naturale dalla Russia.
Controllando il passaggio dal Mar Nero al Mediterraneo, la Grecia e la Turchia sono certamente di fondamentale importanza per il fianco sud della Nato, ma l'uscita della Grecia dalla Nato è fuori discussione. La Russia non ha alcun interesse ad alimentare ulteriormente la tensione con gli Stati europei, che sono gli acquirenti dell'80% delle esportazioni di petrolio della Russia e del 60% delle esportazioni di gas. Sia la Russia che la Cina, capitalismi imperiali e oligarchici, hanno bisogno di un euro forte.
Insomma, l'illusione geopolitica è rivelatrice di un'inguaribile nostalgia per le dittature burocratiche sedicenti socialiste e di un congenito statalismo, ma rimane quel che è: un'illusione.

Più importante, semmai, è l'insofferenza degli Stati Uniti nei confronti dell'austerità fiscale e del neomercantilismo dominanti in Europa, un ostacolo alla stabilizzazione dell'economia mondiale. Penso che questa preoccupazione geoeconomica sia inscindibile da quella geopolitica e, in questo momento, anche più forte di quella strategico-militare.
La Debt Sustainability Analysis del Fondo monetario internazionale sulla Grecia rientra in questo contesto. È da notare che l'insostenibilità del debito greco si basa, per il Fmi, su una valutazione politica: nel 2012 la Grecia si era avviata sulla buona strada, ma
«cambiamenti significativi nelle politiche da quel momento - non ultimo, avanzi primari più bassi e un debole sforzo di riforma che peserà sulla crescita e sulla privatizzazione […]»; «ma se il pacchetto di riforme in esame è ulteriormente indebolito - in particolare, attraverso un ulteriore abbassamento degli obiettivi dei surplus primari e più deboli riforme strutturali […]».

5. Riassumendo: considerando gli ultimi 35 anni, da quando venne lanciata su scala mondiale la controffensiva capitalistica totale da parte dell'amministrazione Reagan, quello del governo Tsipras è l'unico, o senza dubbio il più significativo tentativo di riforma del capitalismo in Europa, che si vuole centrato sulla salvaguardia degli interessi minimi (e proprio per questo fondamentali) dei lavoratori e dei cittadini comuni. Rimane, però, un tentativo, i cui risultati sono ben al di sotto delle aspettative e tali sono destinati a rimanere, a meno di un drammatico rovesciamento dei rapporti di forza tra le classi in Grecia. 
È un tentativo onesto: nel senso che Syriza non ha rinunciato a condurre una lotta impari, almeno sul piano diplomatico; e con il referendum non ha rinunciato a sottoporre al giudizio popolare la legittimazione della propria condotta. Si può accusare Tsipras, Varoufakis e i loro compagni di essere degli illusi, non dei mentitori opportunisti o dei demagoghi. Nella storia dei partiti della sinistra europea di questo periodo storico è raro riscontrare una tale onesta disponibilità a battersi e a correre rischi, il nocciolo dell'alta politica: al contrario, quella è una storia di rese volontarie, fatte in nome dell'integrazione nel sistema dei partiti, contrabbandata come «lotta alla destra» o «male minore», non di sconfitte nella battaglia politica. Di questo i partiti della sinistra italiana sono il caso esemplare. Ed è questo che fa del negoziato tra governo Tsipras e «istituzioni» un fatto di grande rilievo politico: il confronto è fra democrazia e postdemocrazia.

Detto questo, ritengo che dalla Grecia si possano trarre le seguenti lezioni:
1) Si badi bene al fatto che in questi anni la Bce ha effettivamente innovato sul piano istituzionale e della strumentazione finalizzata alla stabilità finanziaria, in modi che prima del 2008 erano inconcepibili; e che fino al 2009-10 anche i governi sono intervenuti pesantemente per impedire che la grande recessione si trasformasse in grande depressione. I poteri d'intervento politico nel ciclo economico non sono affatto obsoleti: non si deve sottovalutare la capacità d'innovazione istituzionale. Tuttavia, ciò avviene entro i limiti dei rapporti di forza tra le classi come si sono definiti da almeno un trentennio e nel quadro della trasformazione postdemocratica dei sistemi politici, di cui le istituzioni europee sono espressione e fattore di ulteriore sviluppo. Infine, la crisi è occasione di approfondimento della logica postdemocratica e di attacco ai diritti socioeconomici. Ebbene, i negoziati tra governo Tsipras e creditori hanno dimostrato i limiti delle concessioni che si possono ottenere per via diplomatica e istituzionale dalle istituzioni e dai governi europei.
2) Questi limiti possono essere spostati da un governo determinato come quello di Tsipras, ma non abbattuti. Vincere le elezioni non è affatto sufficiente. Anzi, vincere le elezioni in assenza di una seria minaccia al potere della classe capitalistica può rivelarsi una trappola, potenzialmente assai pericolosa per lo stesso governo e Syriza.
Nei primi di marzo 2015 scrissi:
«Quel che manca al governo Tsipras è la pietra dura e pesante della mobilitazione popolare, non quella delle manifestazioni di tripudio e neanche del sostegno risultante dai sondaggi d'opinione (effimeri), ma la mobilitazione capillare, tale da incidere direttamente sui rapporti di potere tra le classi sociali. È in questo senso che tutta Syriza è ora intrappolata: in guerra, ma senza le armi necessarie»5 .
Il punto rimane questo: il successo elettorale di Syriza e il referendum di domenica non sono che surrogati, niente affatto adeguati, di quel che manca in Grecia, nonostante l'ottima tenuta, a fronte di altri paesi, della capacità di protesta in piazza dei lavoratori e il sano orientamento politico di una parte consistente dei cittadini greci: una serie di movimenti dal basso in grado di attaccare in modo capillare i rapporti di forza tra le classi e di creare istituti popolari alternativi a quelli dello Stato greco. Un movimento sociale di questo tipo è cosa diversa dalle manifestazioni di protesta o di sostegno politico.
3) Chi oppone al governo greco la propaganda della rivoluzione o dell'uscita dall'area dell'euro, oltre a non fare una valutazione realistica dei rapporti di forza in Grecia e delle condizioni politiche per reggere il ritorno alla dracma, non comprende che lo sviluppo della coscienza politica in Grecia passa attraverso un processo di mobilitazione e organizzazione di massa intorno a concreti obiettivi di lotta. Non è necessario inventare nulla, né è necessario far la gara a definire l'obiettivo più alto possibile. Nella situazione greca di oggi un programma suscettibile di avviare un processo di radicalizzazione politica esiste già: è quello con cui Syriza ha vinto le elezioni. Si dirà: ma è un programma minimo, moderato, di riforma del capitalismo. Certamente, è la scoperta dell'acqua calda! Ma, qui è il paradosso: l'attuazione di un programma minimo di difesa sociale nell'Europa di oggi è destinato a entrare in collisione con l'ordine esistente. Per realizzare questo programma oggi in Europa occorre muoversi in modo da minacciare il capitalismo. Quel che importa è la mobilitazione massiccia e determinata a vincere. Ed è dentro l'esperienza della lotta di massa che si concretizzano la radicalizzazione della coscienza politica e degli obiettivi, fino alla resa dei conti con il potere economico e politico.
4) A questo punto abbiamo un altro paradosso, rivelatore dei limiti della prospettiva di riforma delle istituzioni europee sulla base della vittoria elettorale. Da una parte, la mobilitazione e offensiva dei lavoratori e dei cittadini greci rafforzerebbe la posizione contrattuale del governo Tsipras a fronte dei creditori ma, nello stesso tempo, potrebbe essere ragione di acute contraddizioni, che per Syriza sarebbero una prova ancor più difficile del negoziato con la troika. È veramente difficile essere «partito di lotta e di governo». Il criterio con cui ritengo si debba valutare il governo Tsipras e Syriza è questo: spostano oppure no la dinamica politica in modo da favorire la mobilitazione e l'auto-organizzazione della società?
5) Il tempo non trascorre senza effetti e, in certe situazioni critiche, esso scorre più velocemente che in altre. Nello stesso articolo di marzo prima citato notavo, tra molti altri punti, che non è affatto sufficiente dire che con l'accordo di febbraio si è guadagnato tempo (Gabriele Pastrello nel Manifesto del primo marzo) o spazio (Balibar e Mezzadra), e che era indispensabile che i compagni greci trovassero «il modo per colmare lo scarto tra la responsabilità di governo e i rapporti di forza tra le classi». La sinistra di Syriza dà una risposta sbagliata a questo problema (l'uscita dall'euro), ma ha perfettamente ragione a porlo come centrale.
6) Ricordo che nelle elezioni di gennaio Syriza ottenne il 22% del consenso di tutti gli elettori, includendo nel calcolo anche gli astenuti. Percentuale certamente ottima, ma che pure attesta che, in quel momento, quasi l'80% dei cittadini elettori non condivideva, per diverse ragioni, la linea di Syriza.
Mentre scrivo queste righe i risultati ufficiali del referendum non sono ancora noti, benché il No sembri avviato a vincere con almeno il 60% dei voti validi. La vittoria del No ovviamente costituisce un sovrappiù di legittimità politica per il governo Tsipras. Una chiusura da parte dei creditori, specialmente dopo che la Debt Sustainability Analysis sulla Grecia del Fmi è divenuta di pubblico dominio, è assai improbabile.
Viceversa, la vittoria del Sì sarebbe un colpo letale al governo Tsipras, alla strategia della maggioranza di Syriza e alla via elettorale per por fine al neoliberismo; e se il governo rimanesse in carica lo scenario futuro sarebbe letteralmente nero. Perché si verificherebbe la situazione ideale non solo per la rivincita dei tradizionali partiti di governo, ND e Pasok, ma per l'avanzata della destra estrema e fascistoide.
E non conta solo la mera vittoria del No. Conta molto anche la distanza fra Sì e No, se piccola o grande. E conta molto, e forse anche più, un dato che sarà sicuramente trascurato dalla maggioranza dei commentatori: la partecipazione dei cittadini al referendum. A fronte di una percentuale di astenuti intorno o superiore al 40%, la vittoria del No permetterebbe di tirare un sospiro di sollievo ma, a parte la propaganda, il segnale sarebbe veramente molto preoccupante. Una percentuale di No pari al 60%, ma con una partecipazione elettorale anche del 60%, equivale al 36% degli elettori. Un risultato di questo ordine di grandezza è, a mio parere, un ulteriore argomento a favore della necessità di riorientamento politico di Syriza verso la lotta sociale, piuttosto che verso la diplomazia. Con la contraddizione che non è difficile intuire. Se il No vincesse con una percentuale elevata sia di voti validi che di partecipazione, il governo greco avrebbe il dovere di giocare al rialzo: nientedimeno che la ristrutturazione del debito* .

Ritengo che la vicenda di Syriza e del governo Tsipras sia assai difficilmente emulabile fuori dalla Grecia e che, proprio perché si tratta del miglior governo con intenti riformatori e popolari in Europa da molto tempo, la sua esperienza riveli in modo definitivo i limiti insuperabili di una prospettiva basata sul cambiamento della politica europea che abbia nel successo elettorale la sua condizione essenziale. Il governo Tsipras è il primo ma anche l'ultimo fuoco di una prospettiva elettorale e istituzionale onestamente riformatrice dentro la postdemocrazia europea.


* A scrutinio concluso, i dati ufficiali del ministero degli Interni greco danno il No al 61,31% e il Sì al 38,69%; ciò significa che, considerata l'astensione del 37,5% degli aventi diritto e l'incidenza delle schede bianche/nulle al 5,8%, il No al referendum indetto da Syriza ha avuto l'appoggio del 36% dell'intero elettorato (poco più di 3 milioni e mezzo di voti effettivi). Posso quindi confermare quanto scritto nella mia vena più pessimistica: a livello puramente diplomatico, quella di Tsipras sarà - con ogni probabilità - la classica vittoria di Pirro.
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Note
1 «Le lezioni della Grecia e le prospettive», in utopiarossa.blogspot.it, 7 marzo 2015.
2 Olivier Blanchard - Daniel Leigh, «Growth Forecast Errors and Fiscal Multipliers», IMF Working Paper, gennaio 2013; Alessandro Leipold, «L'autocritica del Fmi e il caso Italia», in Il Sole 24 Ore, 12 gennaio 2013.
3 Jeromin Zettelmeyer - Christoph Trebesch - Mitu Gulati, «The Greek Debt Restructuring: An Autopsy», Economic Policy, luglio 2013.
4 Michał Kalecki, «Aspetti politici del pieno impiego» (1943), in Id., Sul capitalismo contemporaneo, Editori Riuniti, Roma 1975, p. 38.
5 «Le lezioni della Grecia e le prospettive», cit.

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