venerdì 10 maggio 2013

BOLOGNA 11 MAGGIO: CONTRADDIZIONE DI CLASSE, RAPPRESENTANZA POLITICA, AUTONOMIA DELLA SINISTRA D'ALTERNATIVA di Franco Astengo

Molti stanno riponendo e proponendo importanti aspettative nell’esito dell’assemblea bolognese di sabato prossimo, 11 Maggio, indetta dai promotori del documento “Per un movimento politico anticapitalista e libertario”.
 
L’occasione può essere intesa, infatti, come una delle ultime possibilità per riavviare un cammino nella prospettiva di costruire una soggettività politica della sinistra d’alternativa dopo le molte sconfitte, elettorali e non, subite nel corso di questi ultimi anni.
Non entro in questa sede nell’analisi degli errori compiuti da presunti gruppi dirigenti, sulla debolezza dell’analisi, sulla vacuità della proposta politica, sulla mancata comprensione della dinamica sociale e dei termini reali dello scontro imposti dalla gestione capitalistica della crisi.
Cercherò, invece, di occuparmi di una possibile “pars costruens” al riguardo della quale credo l’assemblea dovrebbe dedicare spazio e impegno.
Ho scritto di gestione capitalistica della crisi e, in quest’ambito, si sta tentando – sul piano più direttamente relativo al tema del “governo politico” un vero e proprio mutamento di paradigma, di cui il governo PD-PDL dovrebbe rappresentare il punto di suggello, dopo che questo mutamento era già stato imposto forzatamente dal “governo dei tecnici”.
Si tratta di un vero e proprio rovesciamento del senso della politica: con il passaggio, usando la terminologia della scienza politica di marca anglosassone dalla “politics” alla “policy”.
La “politica” nella sostanza sarebbe costruita dalle “politiche”, elaborate in maniera interdipendente fra di loro e del tutto staccate, non dico da una visione di tipo ideologico ma anche soltanto e semplicemente da un progetto, considerato almeno a medio termine e rivolto al complesso della società.
Ecco: tanto per cominciare, proprio con l’obiettivo di affermare la nostra autonomia di pensiero e di ideale dovremmo cominciare a opporci, prima di tutto sul piano culturale, a questo proposito di vero e proprio rovesciamento dei termini concreti dell’agire politico.
Proprio perché è da questo tipo di impostazione che ho cercato di definire e denunciare che deriva la nuova qualità degli effetti della gestione capitalistica della crisi, che stiamo subendo.
E’ sparito dal dibattito politico il tema delle classi sociali (si parla di disoccupati, precari, esodati, pensionati al minimo, ma quasi mai si fa riferimento a una “classe”), mentre in realtà l’andamento della distribuzione del reddito ha configurato la crescita di una contrapposizione tra una classe di “super-ricchi” e una classe di poveri, con un conflitto che, ormai da oltre dieci anni, favorisce soltanto i primi.
Sostenere questa tesi, che ritengo sacrosanta, non può che non richiamare alla nostra mente la tesi marxiana secondo la quale nel corso del tempo il capitalismo avrebbe assistito, da un lato, a una crescita quantitativa del proletariato condannato però a un continuo impoverimento relativo se non assoluto e, dall’altro, a una concentrazione in sempre meno mani della ricchezza del potere; con la conseguenza che lo squilibrio crescente tra una classe sempre più numerosa e sempre più povera e una classe sempre più ricca.
Ciò sta avvenendo non solo qui tra noi dalla “parte del capitalismo maturo” ma ben oltre i suoi confini: questo ben oltre lo “sfrangia mento sociale” in atto, gli effetti sulla vita comune delle nuove tecnologie e quanto di cambiamento, da non sottovalutare assolutamente, si sta verificando a livello globale.
Sulla base di quest’analisi è possibile stabilire un primo principio, un primo punto di fondo: l’opposizione al rovesciamento di paradigma tra “politcis” e “policy” non potrà risultare efficace se non si stabiliranno i termini di una visione anticapitalistica e come questa visione anticapitalistica non possa poggiare altro che sull’analisi marxiana.
Appare così evidente, per restare nell’ambito dell’attualità italiana, come le classi impoverite dalla crisi e ridotte in una condizione di sfruttamento da vero e proprio”ritorno all’indietro” siano ormai completamente prive di un’adeguata rappresentanza sul piano politico.
L’altro punto che intendevo toccare riguarda la qualità della democrazia.
Limito il mio sguardo d’orizzonte, di proposito, alla situazione italiana.
In conclusione del ciclo: esito elettorale, elezione del Presidente della Repubblica, formazione del nuovo governo, appare in via di completamento il processo di presidenzializzazione che aveva già segnato, in particolare, l’ultima fase del precedente settennato di Napolitano.
L’obiettivo è quello di inserire i termini della cosiddetta “Costituzione materiale” all’interno del complesso delle regole che presiedono il delicato meccanismo della democrazia repubblicana.
L’intreccio che si cercherà d realizzare sarà quello tra l’esercizio della cosiddetta “democrazia del pubblico” con un ruolo di governo (a tutti i livelli) fortemente accentrato e imperniato su figure monocratiche: in particolare il Presidente della Repubblica, sulla cui elezione in forma diretta mi pare si stia puntando fortemente da più parti.
Si pone dunque in Italia un’urgente questione democratica.
Il presidenzialismo porterà con sé tutto il resto, dal sistema elettorale sempre più limitativo del pluralismo, al ruolo del parlamento a quello dei consessi elettivi nelle autonomie locali, alla democrazia sindacale, già così compromessa.
E’ nostro compito, allora, ribadire la funzione fondamentale della democrazia rappresentativa, evidenziando anche i pericoli gravi insiti in una certa logica della democrazia diretta (magari agita esclusivamente attraverso il web).
Il sistema politico italiano attraversa, come hanno ben dimostrato i recenti risultati elettorali, una grave crisi principiata con la devastazione compiuta attraverso l’adozione del sistema elettorale maggioritario, la ricerca della governabilità come bene in sé, la personalizzazione della politica, la distruzione dei partiti intesi come soggetti di dibattito politico e non tenuti in piedi semplicemente per svolgere funzioni di nomina e di spesa, la creazione di nuovo soggetti fondati sull’individualismo competitivo.
Attorno ai due punti fondativi, della contraddizione di classe e dell’agibilità piena della rappresentatività democratica ritengo debba impostarsi una proposta di nuova pratica politica della sinistra d’alternativa da concretizzarsi attraverso l’espressione di una nuova soggettività anticapitalista, connessa con la storia e la tradizione della parte più avanzata della sinistra italiana e internazionale.
Una nuova soggettività da costruire partendo dal basso, realizzando nello stesso tempo un forte radicamento sociale e la promozione di nuovi gruppi dirigenti, a partire dal territorio, sciogliendo le incrostazioni esistenti nell’esercizio di un potere di basso profilo.
Questa ipotesi di costruzione di una nuova soggettività mi pare esca rafforzata attraverso l’espressione dell’esigenza di mettere in moto un meccanismo di costruzione che proceda prima di tutto nell’evidenziare una piena autonomia, sia rispetto all’espressione di pensiero, sia al riguardo dell’elaborazione programmatica, sia nei confronti di ciò che si muove all’interno del quadro politico.
Questa autonomia è reclamata, prima di tutto come abbiamo già visto e argomentato, proprio dall’espressione violenta di una crisi la cui gestione capitalistica sta impoverendo e gettando nella disperazione milioni di donne e di uomini in un crescendo che pare davvero inarrestabile: senza un chiaro connotato anticapitalista alcun soggetto politico a sinistra non potrà esprimere quella capacità di sintesi e di aggregazione che è necessaria per rispondere adeguatamente alle molteplicità di istanze di movimento che pure sono in piedi ed esprimono momenti importanti di lotta sociale.
Intendo essere chiaro su questo punto: la mia idea di soggettività politica coincide con quella di partito, un partito che, indipendentemente dai numeri di partenza, agisca senza indugi nella logica (aggiornata quanto si vuole per via del mutamento delle condizioni tecnologiche, comunicativa, ecc) del partito” a integrazione di massa”.
Proprio la descrizione, sia pure sintetica, delle contraddizioni in campo ritengo, inoltre, che ci possa far affermare come un partito della sinistra d’alternativa in questo momento non sarebbe semplicemente nelle condizioni di agire “in difesa” ma, pur tra mille difficoltà, con una forte capacità di proposta alternativa che proprio la drammatica situazione in atto impone di avanzare verso precise soggettività sociali, a partire dal lavoro dipendente, potenzialmente in grado di produrre nuovo radicamento.
Nei confronti dell’idea di partito, oggi, si pongono molte obiezioni, soprattutto partendo dal dato – inoppugnabile – della modificazione nel rapporto tra agire sociale, agire politico, aggregazione, confronto, avvenuto attraverso l’espansione delle nuove tecnologie telematiche.
Mi permetto di obiettare a queste osservazioni ritenendo ancora l’aggregazione politica sul territorio nella forma del partito la più valida per poter esprimere quello che Gramsci definiva “l’intellettuale collettivo”.
Ecco la rielaborazione di un partito “intellettuale collettivo” dovrebbe rappresentare, insieme, il nostro obiettivo e la nostra ambizione, figurando anche un modello di struttura misurato sull’idea consiliare a livello orizzontale (con meccanismi democratici di qualificazione dei quadri) da espandere anche verticalmente.
Un’ambizione sicuramente legittima in questa fase di scontro sociale e politico così difficile: dobbiamo dimostrare capacità di visione e d’iniziativa, solo così potremo superare le difficoltà del momento, in una prospettiva storica di rovesciamento vero e proprio dello “stato delle cose presenti”.

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