Prima Landini e poi Bersani hanno agitato le acque della pax
renziana violandola proprio mentre la propaganda gonfiava
i primi segnali tecnici di ripresa e li attribuiva al polso energico
del condottiero di Rignano. Non si tratta di pure scaramucce.
Esiste un nodo di fondo che si ripropone quasi oggettivamente: la
mancanza di ogni rappresentanza sociale e politica di un mondo di
bandiere rosse che negli anni settanta conquistò il consenso di
quasi il 50 per cento del paese.
Se questa carenza di una sinistra
politica e sociale è un problema, anche di sistema, che si intende
superare, occorre comprendere le ragioni (cioè i punti di forza)
dell’avversario e penetrare, se ci sono, nelle sue zone di debolezza.
Con Renzi, il Pd porta alle conseguenze estreme delle tendenze
interne verso approdi post-ideologici operanti già al tempo del
Lingotto. Però quest’anima interclassista e moderata, con il suo
disegno di sfondare al centro con la promessa di una rivoluzione
liberale, che con Veltroni e Rutelli si arenò, ora trova espressioni
inedite che sembrano rivitalizzarla. Perché Renzi riesce dove
Rutelli ha già fallito?
Alla spinta centrista
e modernizzatrice, condita con la salsa di un liberismo ostile ai
diritti, egli aggiunge una magica porzione di antipolitica.
Mettendo insieme il nucleo del programma della Confindustria
(riduzione dello spazio pubblico e semplificazione delle regole
del lavoro) e lo stile antipolitico, Renzi intercetta domande di
novità e distrugge, con la maschera della discontinuità radicale, il
vecchio ceto politico di estrazione comunista. Muta anche, con
l’assalto al sindacato, la composizione sociale del partito, al
punto da penetrare in aree e interessi sociali delle microimprese
attratte dalla distruzione delle cosiddette rigidità del mercato del
lavoro (e dalla enfasi renziana contro i controlli burocratici
eccessivi, che riscontrano irregolarità nel 65 per cento delle
aziende visitate) e che difficilmente avrebbero guardato
a sinistra.
Dalla prima anima, quella in senso lato
confindustriale, Renzi ricava media e denaro che coprono le sue gesta
con un conformismo assoluto (c’è una sorta di giornale unico
nazionale che da Repubblica passa per il Corriere, La Stampa, Il
Messaggero, Il Sole 24 ore). Dalla seconda anima, quella del capo di
governo che è nemico del ceto politico, egli assorbe un desiderio di
vittoria (comprensibile dopo che il Pd si era accasciato a terra
proprio al momento del trionfo) e una invocazione di nuovo e di
rottura verso schemi tradizionali.
La forza di Renzi (ancoraggio ad interessi d’impresa e copertura della scena pubblica con una asfissiante comunicazione post-politica) è anche la sua debolezza. Senza un partito strutturato, privo di un sistema di potere consolidato che si estenda oltre i meri traffici clientelari del giglio magico, senza un vero gruppo dirigente e una valida classe di governo, privo di un collegamento con ampi soggetti sociali, il grado di autonomia di cui Renzi gode rispetto alle potenze economiche e finanziarie è quasi insussistente.
Sfrutta al massimo le loro risorse, le esibisce in un pubblico sfarzo alla Leopolda e amministra spesso con arroganza le loro munizioni, ma non ne è il padrone. E quindi naviga a vista perché il sostegno dei poteri forti è sempre condizionato al rapido incasso in moneta sonante. La coalizione sociale che con Monti e poi con Letta ha gestito il potere nella fase di transizione post-berlusconiana è la stessa, con varie sfumature, che sorregge adesso Renzi.
La forza di Renzi (ancoraggio ad interessi d’impresa e copertura della scena pubblica con una asfissiante comunicazione post-politica) è anche la sua debolezza. Senza un partito strutturato, privo di un sistema di potere consolidato che si estenda oltre i meri traffici clientelari del giglio magico, senza un vero gruppo dirigente e una valida classe di governo, privo di un collegamento con ampi soggetti sociali, il grado di autonomia di cui Renzi gode rispetto alle potenze economiche e finanziarie è quasi insussistente.
Sfrutta al massimo le loro risorse, le esibisce in un pubblico sfarzo alla Leopolda e amministra spesso con arroganza le loro munizioni, ma non ne è il padrone. E quindi naviga a vista perché il sostegno dei poteri forti è sempre condizionato al rapido incasso in moneta sonante. La coalizione sociale che con Monti e poi con Letta ha gestito il potere nella fase di transizione post-berlusconiana è la stessa, con varie sfumature, che sorregge adesso Renzi.
La novità è soprattutto il grado di
antipolitica che il fiorentino aggiunge alla commedia e lo
smantellamento di un partito (mai consolidato) tramutato in una
sua appendice personale. Il dominio renziano sembrerebbe
incontrastabile, con lo spread che si calma, con il trasformismo
del venti per cento dei deputati pronti al grande salto nel carro del
rottamatore, con l’opportunismo di tanti parlamentari del Pd che
hanno fiutato che in un non-partito degli eletti sovrano è solo chi
decide le candidature.
Eppure, la mancanza di una sinistra
riconoscibile solleva una latente crisi di legittimazione.
L’impressione che la politica odierna suscita è quella che ricavava
Tocqueville osservando la vita parlamentare del suo tempo. In essa
«gli affari vengono trattati fra i membri di un’unica classe,
secondo i suoi interessi e i suoi modi di vedere, non è possibile
trovare un campo di battaglia su cui i grandi partiti possano farsi
la guerra». Con il presidente del consiglio «gasatissimo da
Marchionne» e gran veneratore della sacra libertà di licenziamento,
nel parlamento opera un solo interesse prevalente, quello
dell’impresa.
Per questo è difficile al momento
pensare ad una rinascita della destra su basi diverse dal populismo
di Salvini. Una destra liberale non ha alcuna possibilità (e
necessità) di organizzarsi coltivando ambizioni di alternativa:
il suo spazio è già ben presidiato da Renzi. E una sinistra avrebbe
le forze per riprendere una funzione rappresentativa? Nel «paese
legale», continuava Tocqueville descrivendo l’omologazione dei ceti
politici francesi, esiste una «singolare omogeneità di
posizioni, di interessi e, per conseguenza di vedute, che toglie ai
dibattiti parlamentari ogni originalità e ogni realtà, e quindi
ogni vera passione». La stessa sensazione di tramonto dell’autonomia
della politica la si ricava osservando le dispute politiche
odierne.
Autonomo, al limite dell’ostilità
e dell’ingiuria, dal sindacato e dal lavoro, il Pd è privo di ogni
argine efficace rispetto alle sollecitazioni della finanza,
dell’impresa, dei media. E questo ritorno ad un parlamentarismo
monoclasse suscita anche una sensazione di impotenza, di estraneità
in consistenti fasce di opinioni. Nel dominio di grandi potenze
economiche, diceva Tocqueville, «i vari colori dei partiti si
riducono a piccole sfumature e la lotta a una disputa verbale». Non
è un caso che, in un clima di similitudine nelle basi sociali
riconosciute, avvenga il processo di unificazione tra Pd e Scelta
civica o che sfumino del tutto i confini distintivi con il nuovo
centro destra.
Quale percepibile differenza
identitaria, e di alterità nei riferimenti storici e sociali, si
può mai notare tra Guerini e Alfano, tra Boschi e Carfagna, tra
Picierno e Gelmini, tra Madia e Lupi, tra Lotti e Verdini, tra Faraone
e Fitto? Ancora Tocqueville: in una politica ad una sola
dimensione, quella della classe proprietaria, i politici ricorrono
«a tutta la loro perspicacia per scoprire argomenti di grave
dissenso, senza trovarne». Con le sue politiche in tema di lavoro,
Renzi si rafforza perché lascia senza scopo una destra di governo.
Però, proprio con questo scivolamento, mantiene sguarnito un
ampio fronte sociale, i cui interessi non coincidono con il
rafforzamento del potere unilaterale dell’impresa.
Con le sue scorribande
istituzionali, Renzi apre una vistosa voragine anche nel campo
politico (maltrattamento dei principi dell’antico
costituzionalismo democratico della sinistra, demolizione
dell’idea di un partito non personale). Colpita sul piano degli
interessi sociali di riferimento e sfregiata sull’idea di
democrazia e sul senso della politica, è impensabile che la
sinistra non provi a reagire alle umiliazioni di chi si vanta di
averla asfaltata.
Non per un senso dell’onore, che già
Bodin escludeva quale principio della politica, ammettendo la
liceità del compromesso e della trattativa al cospetto di un nemico
troppo forte per essere sfidato di punto. Ma, alla comprensibile
ritirata, che ha accompagnato il celere trionfo renziano, non
è corrisposta alcuna azione incisiva per il recupero di forza
e capacità di combattimento. È mancata quella che Lenin avrebbe
chiamato una «ritirata con giudizio». La controffensiva, dopo la
temporanea ritirata, non è stata neppure accennata. E invece
andrebbe disegnata.
Con una coalizione sociale di
protesta e ostile alla proposta politica? La specificità
italiana è che mentre altrove esistono due sinistre, qui non se ne
intravede neppure una. La minoranza del Pd deve avere la
consapevolezza che il successo di Renzi, e cioè la sua leadership
alle prossime elezioni, sarebbe il trionfo di una variante di
partito personale a vocazione populista entro cui una componente
di sinistra risulterebbe schiacciata e inutile.
Perciò deve immaginare che qualcosa
può nascere oltre Renzi e non bisogna dare più come senza alternative
il quadro attuale di governo. Se le due sinistre visibili solo in
potenza, quella sociale e quella politica, non mettono in atto un
processo di alternativa a Renzi, devono rassegnarsi alla rapida
decadenza della qualità democratica.
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