Vantiamo il primato di un ex presidente del consiglio ai servizi sociali per frode fiscale. E siamo stati messi sul podio dalla Commissione Ue sulla corruzione in Europa che stimò in 60 miliardi (più o meno il 4% del Pil) l’ammontare del valore di quella di casa (non cosa) nostra elencandone spietatamente le singole voci (conflitti di interesse, leggi ad personam, prescrizione dei processi, collusioni tra politica, imprenditoria e criminalità…).
Dunque non possiamo meravigliarci troppo se oggi abbiamo anche la Capitale del paese nelle mani di un’organizzazione mafiosa, «romana e originale» come spiegano i magistrati per distinguerla dalle «mafie meridionali». Dopo due anni di lavoro, l’inchiesta coordinata dal procuratore Giuseppe Pignatone, efficacemente battezzata «terre di mezzo», ci restituisce un quadro del malaffare romano che non risparmia nessuno. Ex e attuali amministratori del Pd e del Pdl, criminalità dell’eversione nera, pezzi grossi delle aziende municipalizzate con interessi nei rifiuti, nei centri di accoglienza degli immigrati, dei campi nomadi, del verde pubblico. Per un ventaglio di accuse impressionante (estorsione, usura, corruzione, false fatturazioni, riciclaggio, turbativa d’asta).
In un paese fondato sull’evasione fiscale e sulla negazione dei diritti a chi lavora onestamente, sollevare la questione morale fa storcere il naso ai politici e a gran parte della stampa nazionale (due terre di mezzo che si sostengono a vicenda). Ma i fatti hanno la testa dura e rimuovere quel che tutti sanno e tutti vedono non è una buona medicina. Come anche l’inchiesta di Roma dimostra, si tratta di un malaffare trasversale, che riguarda destra e sinistra, che coinvolge i politici di ieri e di oggi (vedi l’altro caso clamoroso alla cronaca in questo momento: quello dell’ex assessore pd al demanio, Di Stefano, promosso al seggio parlamentare). E raggiunge tali livelli che nessuno se ne può tirare fuori.
Naturalmente è giusto evitare di scambiare le accuse con le sentenze, ma fin dall’inchiesta milanese sul braccio destro dell’allora segretario Bersani, Filippo Penati, ai più recenti scandali di Expo e Mose, fino alle cosiddette “spese pazze” del consiglio regionale emiliano, è evidente come la questione (im)morale attraversi e coinvolga un sistema di potere che della politica e delle istituzioni si è servito, e si serve, per un uso di rapina delle risorse pubbliche. La questione (im)morale, in questo senso è questione politica.
Più la politica diventa esercizio del potere, più le istituzioni si separano dai cittadini che dovrebbero rappresentare. Più i partiti diventano macchine elettorali e i leader produttori di messaggi, più le difese del corpo sociale si abbassano e la cosa pubblica diventa preda di bande fameliche che divorano le risorse pubbliche trasformando la convivenza civile in una discarica morale.
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