Finalmente l'industria europea ha trovato la ragione della propria
crisi: la Cina. Ci ha messo un quarto di secolo, non si è mai
interrogata sul proprio percorso e le strategie, sulla delocalizzaione
furibonda o almeno sulla riscrittura delle filiere produttive in
funzione del complesso tedesco.. Ma alla fine ha trovato un bersaglio
comodo, lontano, “popolare”, su cui scaricare tutta la propria paura.
Domani a Bruxelles ci sarà un'inedita manifestazione di industriali, supportati
da funzionari dei sindacati complici, che presumibilmente dovrebbero
avere qualche competenza in più nella gestione della piazza.
Cosa chiedono? Protezionismo, ovviamente. Il contrario della liberalizzazione
dei commerci. Ovvero la fine della globalizzazione anche da punto di
vista ideologico, oltre che – prima di tutto – su quello brutalmente
economico. Vogliono che l'Unione Europea e gli stati nazionali mettano
dazi più alti sulle merci cinesi (e ditutti gli altri paesi emergenti),
in misura tale da renderle non competitive rispetto a quelle europee.
Non
stiamo parlando di “cineserie”, di quella paccottiglia di tutto un po'
che possamo trovare dappertutto, a cominciare dai negozietti gestiti da
cinesi nelle metropoli europee. L'industria principale
che si sente sotto assedio è quella dell'acciaio, mica quelle delle
cover per smatphone. Accusa la Cina di avere una “sovracapacità
produttiva” di ben 400 milioni di tonnellate, più del doppio dell'intera
produzione nell’Ue. Il rallentamento dell'economia del Celeste Impero
ha ristretto quel mercato interno, ma l'acciaio continua a uscire dagli
altoforni di Pechino. Dunque preme per trovare altri sbocchi. Ha un
serio vantaggio competitivo, in termini di costo (circa il 40% in meno),
anche perché come qualità non ha più molto da invidiare alla produzione
europea.
Fin qui la Ue ha imposto solo un dazio provvisorio antidumping, come se la Cina stesse vendendo sottocosto solo per conquistare mercati ed eliminare la concorrenza, sulle barre e in tondini
da costruzioni. È seguita, solo due giorni fa, l'identica decisione per
quanto riguarda i laminati piani a freddo (anche per quelli russi),
accompagnata dall'apertura di un'indagine antidumping su altri manufatti
d'acciaio. La tendenza è dunque chiara: proteggere l'acciaio prodotto
sul Vecchio Continente, ovviamente a un costo più alto.
I
sette paesi europei più esposti in questo settore - Italia, Germania,
Francia, Regno Unito, Belgio, Lussemburgo e Polonia – si sono già
accordati per portare la domanda di protezionismo sull'acciaio
all'attenzione della Commissione guidata da Juncker. Il vicepresidente
italiano del Parlamento europeo, il residuato berlusconiano Antonio Tajani, sarà presente alla manifestazione, garantendo così un deciso supporto istituzionale alla richiesta.
Contemporaneamente
l'ndustria continentale preme perché alla Cina non sia concesso il
riconoscimento di “economia di mercato”, che renderebbe difficile - se
non impossibile – l'applicazione di dazi
protettivi su una grande quantità di settori merceologici. Dopo
l'acciaio, infatti, il settore più a rischio risulta essere quello della
ceramica.
Il
coinvolgimento dei sindacati complici (nonché delle cosiddette Ong) è
particolarmente odioso, perché punta a indirizzare altrove – sulla Cina,
appunto – le conseguenze sull'occupazione di molti anni di austerità
decisa dalla Troika e accolta con grande convinzione da parte degli industriali europei, che hanno guardato soltanto alla compressione dei salari e all'eliminazione delle tutele per il lavoro.
Ma
per i capitalisti singoli la cecità è d'obbligo. Tutto va bene finché
ottengono quel che ritengono un vantaggio per sé quindi viva la
globalizzazione e la minimizzazione del ruolo dello Stato, quando ha
permesso loro di delocalizzare verso paesi meno sviluppati e con salari
ridicoli. Ma quando il “grande successo” della deindustrializzaione si
rovescia nel suo contrario – ossia nel vero e proprio suicidio
industriale di un continente - eccoli riscoprire le virtù dello Stato.
Quello del protezionismo e della guerra commerciale. Che prepara tutte
le altre.
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