domenica 7 febbraio 2016

L’attualità del comunismo di Paolo Ferrero


L’attualità del comunismo


Pubblichiamo le conclusioni del convegno La nostra storia e l’attualità del comunismo, tenutosi a Livorno lo scorso 21 gennaio in occasione dell’anniversario della fondazione del PCI. 

Oggi celebriamo il 95 anniversario della nascita del Partito Comunista in Italia. Lo facciamo nella consapevolezza che gli uomini e le donne, i compagni e le compagne che 95 anni fa fondavano il Partito Comunista avevano bisogni e aspettative simili alle nostre. Bisogni ed aspettative di conquistare una libertà diversa e superiore a quella propria della società borghese, quella libertà che chiamiamo socialismo.
Noi siamo parte di quella storia e la vogliamo proseguire perché il superamento del capitalismo è il nostro obiettivo. Per questa ragione di fondo la discussione sullo scioglimento di Rifondazione Comunista è per noi priva di fondamento: non siamo atomi sociali dispersi o politicanti in cerca di collocazione. Siamo compagni e compagne che oggi, qui ed ora, si pongono l’obiettivo di proseguire la lotta per la libertà e la giustizia, la lotta per il socialismo.
Non a caso l’atto di nascita del nostro partito si fonda sulla volontà di capire e rispondere alla sconfitta del ciclo di lotte degli anni ’70 e al fallimento del socialismo reale. E’ questa ambizione che noi chiamiamo “rifondazione comunista” – che noi proponiamo a tutte e tutti i comunisti come il terreno dell’unità – che oggi porta a misurarci con la crisi del capitale e con la necessità di costruire una alternativa di società
La natura della crisi che stiamo attraversando, pone in discussione i fondamenti del sistema e l’alternativa – lungi da essere già data – occorre imparare ad elaborarla all’interno della lotta per la modifica dei rapporti di produzione. Il tema del comunismo torna così ad essere un tema attutale proprio dentro la crisi del capitale.
Il nostro impegno per costruire una soggettività politica della sinistra, per proporre una alternativa politica al neoliberismo, non cancella quindi la necessità storica di operare per la rifondazione comunista. Per questo vi è la necessità del Partito della Rifondazione Comunista e nel contempo della nascita del processo costituente di un soggetto unitario della sinistra antiliberista. Perché oggi la crisi ripropone l’attualità del comunismo e parallelamente ci chiede di dar vita ad un vero processo costituente di una sinistra unitaria e plurale che coinvolga tutti e tutte coloro che vogliono lottare contro il neoliberismo.

Una battaglia sul significato della parola comunismo
Sappiamo bene che la prospettiva del comunismo è soggetta in questi anni ad un forte attacco e ad un forte logoramento. Ma non intendiamo adagiarci nell’accettazione del significato che la parola comunismo ha assunto nella vulgata corrente. Vogliamo fare una battaglia politica e culturale sul significato della parola comunismo, appunto perché crediamo che in quella prospettiva sia racchiusa la soluzione dei problemi che hanno investito la società.  Nel corso degli anni, molti nostri compagni di un tempo hanno scelto rinunciare a quelle che hanno definito come illusioni.  Ma noi sappiamo che l’illusione è la loro: quella di pensare di poter affrontare i problemi sbarazzandosi di un passato gravido di nuovi problemi.
Vogliamo fare una battaglia politica sul significato della parola comunismo innanzitutto nei confronti dell’ideologia dominante che postula la fine della storia e l’insuperabilità del capitalismo, come se fosse uno stato di natura. Questi avversari di classe da un lato relegano il comunismo in un passato remoto e dall’altra lo descrivono come una aberrazione che ha prodotto solo disastri. I nostri avversari hanno condotto – e conducono – una campagna ideologica violenta e pervasiva dicendo che il comunismo è un ideale barbarico ed antidemocratico. Questa campagna ha avuto una grande efficacia, in particolare in Italia dove larga parte dei dirigenti comunisti ha cambiato casacca ed è diventato liberale ed anticomunista. Contro questa vulgata diffusa a piene mani dai media, occorre fare una battaglia sul significato della parola comunista. Vi è chi sostiene che questa battaglia sia troppo difficile, troppo impervia e quindi propone un camuffamento, un abbandono del nome per mantenere la sostanza. Penso si tratti di una proposta completamente sbagliata: se lasciamo all’avversario di classe il monopolio della definizione della parola comunismo – che diventa così il male assoluto ed equiparato al nazismo -  ogni battaglia sociale e politica per l’eguaglianza e la libertà, potrà essere bollata come l’anticamera del male assoluto. Se permettiamo che l’avversario di classe colonizzi integralmente l’universo simbolico in cui ci muoviamo, sarà in ogni momento in grado di decretare se le nostre azioni sono lecite moralmente e politicamente. Se lasciamo passare l’idea che il comunismo sia il male assoluto, non sono solo i comunisti e le comuniste ad aver perso, ma è l’idea della gerarchia e della diseguaglianza come forma immutabile del vivere civile che si afferma. La parola comunismo fa paura perché rappresenta il tentativo delle classi oppresse di rovesciare i rapporti sociali: non solo di lamentarsi ma di costruire una società diversa. Questo tentativo non lo possiamo lasciare infangare e distruggere dai nostri avversari.
Ovviamente vi è anche un altro versante della battaglia sul significato della parola comunismo, nei confronti di coloro che si dicono comunisti e sostengono che il comunismo è quello della Corea del Nord. Questi supercomunisti sono utilissimi per la propaganda anticomunista perché confermano i luoghi comuni, dipingendo il comunismo come una caserma. Contro l’idea del comunismo da caserma serve una battaglia politico culturale per affermare un comunismo fondato sulla libertà, come quello che ci propone Marx.
La rifondazione: Capire gli errori per non ripeterli
Sappiamo bene che nella storia del movimento comunista, accanto alla costruzione di grandi movimenti per la libertà e la giustizia, accanto a grandi successi – pensiamo solo alla lotta partigiana e alla conquista della Costituzione repubblicana – vi sono stati errori ed orrori.  Noi siamo qui oggi a commemorare la nascita del Partito comunista perché non vogliamo dimenticare nulla della nostra storia. Vogliamo valorizzare le cose buone che abbiamo fatto e imparare dai nostri errori, non per fustigarci, ma per non ripeterli ed essere più efficaci nella lotta. Non solo la storia dei comunisti ma l’intera storia dell’umanità procede per errori e attraverso il riconoscimento dei propri errori. Tutte le grandi scoperte scientifiche dell’umanità sono avvenute dopo innumerevoli errori. Noi dobbiamo quindi procedere con un metodo scientifico: riconoscere i nostri errori per capirli e superarli. Il tema della libertà, come tema centrale per una trasformazione socialista, costituisce indubbiamente una delle acquisizioni che abbiamo imparato dall’analisi critica della nostra storia. Su questa strada abbiamo molto cammino da fare, come cercherò di dire dopo.
Il filo rosso del protagonismo di massa
Il contesto in cui operiamo è un contesto di poche speranze e molte delusioni. E’ un contesto in cui domina il senso di impotenza e pullulano gli uomini della provvidenza che si candidano a salvare il paese. Noi pensiamo che la salvezza del paese non possa venire attraverso un affidamento al fato ma solamente attraverso un grande moto di popolo che, consapevole della propria forza e dei propri obiettivi, sia in grado di prendere in mano il proprio futuro. Voglio sottolineare come nella storia d’Italia i momenti della delusione e della delega si sono sempre alternati ai momenti del riscatto e del protagonismo sociale. Quando 95 anni fa i nostri compagni e le nostre compagne fondavano il Partito Comunista, rappresentavano una parte di quel grande movimento operaio e contadino che aveva dato vita al biennio rosso, ai Consigli di Fabbrica. Sappiamo bene come in pochissimi anni la reazione fascista spazzo via quel movimento e le sue lotte, ponendo nelle mani dell’uomo della provvidenza i destini del paese. Furono anni non solo di repressione e di abolizione della democrazia. Furono anni di delega e di passivizzazione sociale. Ma nel ’43 vi fu il movimento partigiano, che divenne movimento di popolo, di un popolo che non voleva più delegare. Sull’onda di quel movimento di popolo nacque la Costituzione più avanzata dei paesi occidentali e poi – nonostante la repressione poliziesca e padronale – le lotte bracciantili e operaie impedirono la normalizzazione. Nel biennio 68/69 le lotte studentesche ed operaie aprirono un’altra grande stagione di protagonismo sociale che trasformò radicalmente il paese. La sconfitta di quel movimento – anche in virtù degli errori e delle insufficienze dei comunisti – ha aperto la lunga stagione della restaurazione, del disorientamento e della passivizzazione in cui viviamo immersi. Compito nostro è innanzitutto capire le ragioni della sconfitta sapendo che questa stagione non è eterna: il potere appare inattaccabile ma in realtà cammina sul ghiaccio sottile, non è in grado di risolvere nessuno dei grandi problemi che vive il popolo italiano. Dobbiamo avere un senso storico, del procedere della storia e di possibilità di cambiare il suo corso. La storia non si cambia arbitrariamente ma non è già scritta. Come ci spiegava Marx, la storia è storia di lotta di classe, della capacità di lottare e di trasformare la società in corrispondenza delle contraddizioni emerse.
Compito nostro è quindi analizzare gli errori e le sconfitte senza restare avviluppati nella ragnatela della disperazione ma avendo un senso storico della nostra lotta. Dobbiamo analizzare le contraddizioni, scorgere gli elementi di protagonismo sociale presenti in forma embrionale nei conflitti e nelle mille forme di resistenza, contribuire al loro sviluppo e all’individuazione di un percorso di ripresa del protagonismo sociale e di trasformazione del paese. Dobbiamo situare nel tempo la possibilità del sovvertimento, la possibilità della trasformazione. Il mondo non è sempre stato così e non è obbligato a rimanere così.
Il nostro impegno internazionalista
Il nostro senso storico riguarda il tempo ma anche lo spazio. Mentre facciamo questa battaglia nel nostro paese non vogliamo dimenticare i compagni e le compagne che in altre parti del mondo si battono in condizioni assai più difficili delle nostre. Il pensiero va ai compagni e alle compagne Ucraine, dove un governo nazistoide nato dopo un colpo di stato fomentato da USA e Unione Europea, ha messo la bando il partito comunista. Il nostro pensiero va ai compagni e alle compagne del PKK – tutt’ora considerato dai paesi occidentali alla stregua di una organizzazione terroristica – e oggetto di una feroce repressione da parte del governo turco. Il nostro non è solo un pensiero ma un impegno militante ed internazionalista: Rifondazione Comunista deve operare per squarciare il velo della disinformazione che regna sovrana e per costruire una concreta campagna di solidarietà con le compagne ed i compagni Kurdi e Ucraini.
L’esaurimento della spinta propulsiva del capitalismo
Il ragionamento che ho svolto sin qui potrebbe essere etichettato come un ragionamento di tipo morale: gli eredi di una grande storia che ribadiscono la loro fedeltà agli ideali e la loro internità a quella storia. Il rilievo è corretto e quindi è bene affrontare di petto il problema di come il nostro essere comunisti non sia un retaggio del passato ma abbia un valor politico oggi, qui ed ora.
Il nostro punto di partenza è dato dalla comprensione del perché, una volta conquistata una limitata egemonia sociale tra la metà degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, non siamo riusciti a consolidarla.  Del perché la forza dei nostri avversari è tornata a crescere, risospingendo indietro la società. Dagli anni ’90 in avanti ci hanno detto che il capitalismo era perfettamente in grado di risolvere le sue contraddizioni e che avrebbe portato il benessere a tutta la popolazione mondiale. Su questa base hanno sostenuto che il capitalismo rappresentasse la “fine della storia” e quindi che il comunismo era un ferrovecchio da gettare. Vediamolo questo capitalismo. Il capitalismo neoliberista è entrato in una crisi sistemica da cui non sa uscire. Nel ventennio cominciato negli anni ’90 del secolo scorso, in cui il capitalismo ha fatto quel che voleva su scala mondiale avendo sconfitto tutti i suoi nemici, nel ventennio in cui l’ideologia neoliberista è diventata l’ideologia dominante su scala mondiale, dalla Cina agli Stati Uniti, si sono poste le basi per una crisi rovinosa priva si terra e non vi sono state calamità o disastri naturali tali da produrre scarsità. Se entriamo in un supermercato vediamo come sia pieno di merci. La crisi che viviamo non è frutto si scarsità, come invece ci viene raccontato ogni giorno. La crisi è frutto di una grande sovrapproduzione di merci a cui non è possibile trovare uno sbocco che remuneri il capitale. Da qui il gonfiarsi della speculazione in cui vengono investiti i capitali eccedenti e che producono in continuazione bolle destinate ad esplodere. Da qui il tentativo del capitale di privatizzare ogni aspetto del vivere civile – a partire dai beni comuni – per cercare di estrarre plusvalore anche in quei settori che il welfare aveva sottratto alle logiche di mercato. Da qui uno sfruttamento della natura assurdo e distruttivo che mette in discussione le condizioni di vita sul pianeta. E’ proprio il caso di dire che si è esaurita la spinta propulsiva del capitalismo.
Socialismo o barbarie
In questo modo, il capitalismo concentra la ricchezza e parallelamente distrugge capitale, cercando di recuperare i margini di profitto che desidera. Questo lo fa attraverso una produzione voluta ed artificiale della scarsità. La crisi, come ci insegnavano Marx e poi Lenin e Rosa Luxemburg, è una enorme distruzione di capitale e le politiche di austerità non sono altro che politiche finalizzate a creare artificialmente una situazione di scarsità che distrugge capitale, perché non sa più come valorizzarlo. La guerra – è bene averlo presente – è il modo più rapido per distruggere capitale e porre le condizioni per una nuova fase di sviluppo. E’ stato così dopo la crisi del 1929, vi sono tutti i presupposti per cui torni ad esserlo oggi. Così come la guerra tra i poveri e il razzismo sono il modo più semplice per aumentare lo sfruttamento e ridurre il valore del lavoro. La crisi non distrugge solo capitale ma le condizioni di vita dell’umanità oltre che la natura. Questa crisi mostra come il capitalismo, dopo aver prodotto una enorme ricchezza, nel tentativo di riprodurre un alto saggio del profitto, abbia imboccato la strada della barbarie. In altri termini, il capitalismo non è in grado di riprodursi nell’abbondanza: la caduta tendenziale del saggio medio del profitto glielo impedisce. La crisi che viviamo è quindi la crisi del capitale, è la crisi di un modello di sviluppo basato sul profitto e sullo sfruttamento del lavoro e della natura.  Ma questa crisi ha coinvolto pure noi, perché, pur volendolo, non abbiamo sin qui saputo elaborare alternativa che sapessero imporsi come socialmente valide.
Oggi il tema che è posto concretamente all’umanità è l’impossibilità del capitalismo di riprodursi allargando il benessere sociale e rispettando la natura. Il capitalismo può riprodursi solamente distruggendo capitale, distruggendo l’ambiente e, nel suo tentativo non riuscito di riprodursi, fa regredire le condizioni di vita di miliardi di persone. Il disastro sociale si somma non a caso ai disastri ambientali e alle guerre. Oggi il tema posto all’umanità è che il capitalismo per salvaguardare se stesso sta portando l’umanità alla rovina, sta producendo la barbarie. Lo sviluppo capitalistico che ora è arrivato ad un punto in cui, per dirla in termini semplici, ha dato tutto quello che poteva dare, cioè procede distruggendo le stesse condizioni su cui poggia.
Cooperare non concorrere
Se è il meccanismo di accumulazione capitalistico a distruggere la ricchezza prodotta e a portare alla barbarie si tratta di chiedersi se sia possibile una alternativa. A me pare che questa alternativa sia – forse per la prima volta nella storia dell’umanità – piuttosto visibile anche se di difficile realizzazione.  
Se da questa crisi non se ne può uscire con le politiche neoliberiste è del tutto evidente che non è possibile uscirne nemmeno rilanciando semplicemente le politiche di sviluppo: esistono dei limiti ambientali e della domanda che non permettono la ripresa di uno sviluppo quantitativo che ripeta quanto è accaduto nel secondo dopoguerra.
L’unica uscita dalla crisi sta nella radicale redistribuzione del lavoro, nella socializzazione della ricchezza, nella costruzione di un potere di autogoverno diffuso contrapposto alla dittatura delle multinazionali, nella riconversione ambientale e sociale dell’economia e delle produzioni.  Occorre cioè superare i vincolo del profitto e della rendita come principi ordinatori delle attività umane e delle relazioni sociali. Si potrebbe passare molto tempo a descrivere questi semplici obiettivi ma il punto fondamentale che voglio sottolineare è che per la prima volta nella sua storia, l’umanità non deve più confrontarsi principalmente con il tema della scarsità ma piuttosto con il tema di una gestione equilibrata della ricchezza. Si tratta quindi di ridistribuire il lavoro perché lo sviluppo della scienza e della tecnica hanno permesso un così grande aumento della produttività tale da rendere la riproduzione sociale possibile con una netta riduzione delle ore lavorate pro capite. Si tratta di socializzare la ricchezza superando una condizione folle in cui 62 miliardari possiedono una ricchezza pari a quella di 3,5 miliardi di persone. Si tratta di costruire forme democratiche di autogoverno superando lo svuotamento della democrazia rappresentativa ridotta ad un impotente teatrino. Si tratta di praticare una riconversione ambientale e sociale dell’economia e delle produzioni perché l’unica cosa scarsa è la Terra: ne abbiamo una sola. Le tecnologie esistenti, liberate dal vincolo del profitto sono in grado di permettere un a riconversione degli stili di vita occidentali e un miglioramento delle condizioni di vita degli altri paesi in forme rispettose dell’ambiente. Torna qui il tema della cooperazione, anche a livello internazionale. E’ infatti del tutto evidente che la scarsità di materie prime, la scarsità di terre coltivabili, la scarsità di acqua potabile, non può essere risolto attraverso la concorrenza: questa porta fisiologicamente alla guerra. Solo la cooperazione può permettere di gestire le risorse del pianeta terra in forme compatibili con lo sviluppo della civiltà e la ricostruzione dell’equilibrio naturale. L’unica via di uscita dalla crisi è il superamento del capitalismo in senso egalitario, libertario, cooperativo e rispettoso dell’ambiente. Questo è quello che noi consideriamo il comunismo del quale esprimiamo il bisogno. Lo chiamiamo comunismo – sottolineando con questa parola la necessità del conflitto sociale, anche perché se vi sono i presupposti per una transizione al di fuori del capitalismo, è del tutto evidente che forze potentissime sono lì ad impedirlo. Il superamento del capitalismo non può avvenire per volontà dello spirito santo o perché il capitalismo si auto trasforma. Visto che è in discussione il nocciolo duro del profitto – e quindi del privilegio, della gerarchia e del potere – la transizione al di fuori del capitalismo può avvenire unicamente attraverso una battaglia politica, sociale e culturale, attraverso la lotta per il socialismo che richiede anche una nostra autotrasformazione. Qui non si tratta di passare dalla General Motors a Steve Jobs: si tratta di superare la logica della massimizzazione del profitto che presiedono al funzionamento della General Motors come della Apple. A chi obietta che ci poniamo degli obiettivi troppo ambiziosi vista la nostra debolezza replico che occorre imparare quelle poche migliaia di comunisti e comuniste che animarono la lotta clandestina sotto il regime fascista. Fu un lavoro politico difficilissimo, che normalmente portava alla galera ma che contribuì in modo decisivo alla costruzione del patrimonio di credibilità del Partito Comunista e tenne aperta una contraddizione. Così come occorre imparare un po’ da quei giovani che salirono in montagna nel 1943: la forza dell’esercito tedesco in Italia non era nemmeno paragonabile alle poche armi di quei valorosi. Eppure in montagna ci salirono e dettero vita ad una lotta partigiana che cambiò letteralmente la storia del paese. Io penso che oggi siamo in una situazione che non è chiusa ma contraddittoria: il potere sembra invincibile ma cammina sul ghiaccio sottile e noi dobbiamo avere una visione e obiettivi che permettano di favorire una ripresa del conflitto che superi la situazione attuale.
L’uscita dalla preistoria del comunismo
Anche chi convenisse su una parte almeno delle riflessioni sopra esposta potrebbe però obiettare che il comunismo è la strada sbagliata su cui incamminarsi, che ha già fallito una volta per cui occorre cambiare strada. A riguardo ho una tesi molto netta: penso che i tentativi di superare il capitalismo che sono avvenuti nel secolo scorso siano stati in realtà condizionati pesantemente dal fatto di nascere in una situazione ancora immatura, in una situazione di scarsità in cui non esistevano ancora compiutamente i presupposti di una transizione dal capitalismo al socialismo. Marx spiega a lungo come il capitale ponga i presupposti del suo superamento e a me pare che oggi questi presupposti siano pienamente maturi.
Penso che questi presupposti esistano oggi in virtù dell’enorme sviluppo prodotto dal capitalismo e quindi che il tempo dell’attualità del comunismo sia oggi molto più di ieri.  Ritengo inoltre che il comunismo non sia oggi solo una possibilità concreta ma una necessità per l’umanità e per il futuro del pianeta. Il rischio che ci troviamo dinnanzi è infatti quello della barbarie prodotta dall’incapacità /impossibilità del capitalismo di uscire dalla sua crisi e penso che l’unica strada positiva di uscita da questa crisi sia data dal socialismo: socialismo o barbarie è oggi il bivio che l’umanità ha dinnanzi a se. Penso quindi, in altri termini, che sia finita la preistoria del comunismo e che proprio lo sviluppo del capitalismo e la sua crisi abbiano posto concretamente la possibilità e la necessità del comunismo.
Mi piace ricordare qui una nota frase che Marx scrive nell’Ideologia tedesca e che ogni anno riportiamo sulla tessera di Rifondazione Comunista. Scrive Marx: “Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.” In genere la citazione finisce qui ma io penso che sia bene riportare anche la frase successiva con cui Marx porta a compimento il suo pensiero: “Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente”. Io penso che il “presupposto ora esistente” sia proprio la globalizzazione capitalistica, l’enorme sviluppo capitalistico in cui è scoppiata la crisi da cui il capitale non è in grado di uscire. Utilizzerò ancora una frase di Marx, sempre tratta dall’Ideologia tedesca per descrivere questa situazione: “Essa produsse per la prima volta la storia mondiale, in quanto fece dipendere dal mondo intero ogni nazione civilizzata, e in essa ciascun individuo, per la soddisfazione dei suoi bisogni, e in quanto tale annullò l’allora esistente carattere esclusivo delle singole nazioni”. Questa straordinaria frase di Marx che 150 anni fa descrive esattamente la situazione di interdipendenza determinata dalla globalizzazione capitalistica e ci dice che questa nuova situazione rappresenta la nascita della “storia mondiale”.  
Proprio dentro questa nascita della storia mondiale, dentro l’enorme ricchezza prodotta dal capitale e dentro la crisi della globalizzazione neoliberista – che segnala l’incapacità/impossibilità del capitale di mediare in termini positivi questa ricchezza – si presenta il tema del comunismo. Si presenta non come retaggio del passato ma come unica possibilità di uscita positiva dalla crisi, come unica alternativa alla barbarie a cui da luogo il capitalismo neoliberista nel tentativo di riprodursi e riprodurre il rapporto di valore.
Lo sviluppo della libera individualità
Abbiamo detto che il comunismo, il nodo centrale del comunismo, è la sostituzione della concorrenza con la cooperazione. La concorrenza è l’anticamera della guerra e solo la cooperazione può essere la base su cui gestire la ricchezza sociale e permettere quindi il libero sviluppo dell’individuo, degli uomini e delle donne. Riteniamo infatti che ogni contrapposizione tra diritti collettivi e diritti individuali sia infondata: la possibilità dello sviluppo della persona è intrecciata con la soluzione dei problemi materiali e sociali di fondo. Noi siamo per il libero sviluppo della persona, di tutte le persone, per questo riteniamo necessario superare il capitalismo in una direzione egualitaria: per fornire a tutti e tutte la base materiale su cui poter sviluppare liberamente la propria personalità. Su questa base riteniamo una pura mistificazione reazionaria ogni contrapposizione tra diritti sociali e diritti civili. Quando sento qualcuno che dice che non bisogna riconoscere le unioni civili perché abbiamo una alta disoccupazione mi chiedo: ma se non si fa una legge sulle unioni civili, quanti disoccupati vanno a lavorare? Quanti posti di lavoro si creano non permettendo alle persone di uno stesso sesso di vedersi riconosciuto il proprio legame affettivo? Essendo evidente l’assurdità del quesito ritengo che chiunque contrapponga i diritti sociali e civili – o dica che i comunisti non si devono occupare dei diritti civili – sia semplicemente in malafede o con la lingua più veloce del cervello. Ricordo anche a tutti i compagni e le compagne che con la rivoluzione d’ottobre, le donne in Russia ebbero il diritto di voto, vennero legalizzati il divorzio e l’aborto e furono tolti dal codice penale i reati connessi all’omosessualità. Fu sotto Stalin che venne ristretto il diritto al divorzio e che – nel 1934 – l’omosessualità tornò ad essere un reato. La lotta allo stalinismo passa anche su questo terreno.
Il tema della persona, del libero sviluppo dell’individuo necessita quindi di essere affrontato in termini assai più approfonditi. Non solo perché nella nostra storia questo è stato un aspetto misconosciuto, quando non avversato, ma anche perché sul tema dell’individuo si concentrano le politiche neoliberiste.
L’assolutizzazione dell’individualismo predatorio, che si basa sulla forma privata della proprietà, è infatti il punto fondamentale su cui si basa il neoliberismo. Nella visione neoliberista il compito dello stato è quello di garantire il massimo della concorrenza e la libertà degli investimenti (come il TTIP) e in questo quadro il ruolo dell’individuo è quello di competere con gli altri al fine di prevalere. Non a caso, ponendosi l’obiettivo di rompere ogni solidarietà di classe, le politiche neoliberiste considerano l’individuo alla stregua di una impresa nella concorrenza. Compito dell’individuo deve essere di accrescere il proprio patrimonio conoscitivo (si comincia dalla scuola e si va avanti) e valorizzare il proprio patrimonio nel mercato concorrendo contro le altre persone per avere il lavoro e fare carriera. Il neoliberismo attraverso la crisi e le politiche di austerità sfocia in una situazione di scarsità che utilizza per mettere gli individui l’uno contro l’altro. La vulgata è: la coperta è corta è meglio che restino fuori i piedi di qualcun altro”. Alla base del neoliberismo vi è quindi una visione antropologica che vuole costruire un individuo asociale, solo proprietario privato, dedito al perseguimento del proprio godimento immediato, mettendo i piedi in testa a chiunque. E’ la classica visione della destra che considera l’individuo un “lupo che cammina su due zampe” come presupposto di una società gerarchica considerata come il vero ordine naturale delle cose. Infatti chi per qualche motivo non riesce, è considerato uno “sfigato”, cioè un debole che non è stato capace di prevalere. La nozione di sfruttamento scompare con la nozione di classe facendo spazio alla logica della massima concorrenza. E’ del tutto evidente che questa visione dell’individuo come atomo isolato in concorrenza con gli altri non è solo alla base delle disumanizzazione determinata dalla concorrenza ma è l’anticamera del razzismo e della logica della guerra. Il neoliberismo porta l’antitesi “amico-nemico” dentro il corpo sociale e ne determina la sua regressione barbarica. Come ci dice Marx: “I singoli individui formano una classe solo in quanto debbono condurre una lotta comune contro un’altra classe; per il resto essi stessi si ritrovano l’uno di contro all’altro come nemici, nella concorrenza.“
E’ evidente che l’antropologia neoliberista si nutre della sconfitta della classe lavoratrice e alimenta il tentativo di far scomparire anche la memoria dello scontro di classe.
Conflitto di classe contro guerra e razzismo
Al contrario noi comunisti e comuniste operiamo per estendere e rafforzare lo scontro di classe che costituisce un elemento fondamentale per poter permettere lo sviluppo di un individuo che, spingendosi al di là dei rapporti privati, impara a costruire relazioni di cooperazione su una base superiore rispetto a quelli borghesi. A questo riguardo è bene soffermarsi un attimo sulla differenza tra conflitto di classe e conflitto nella concorrenza, su base nazionale o di tipo razzista. Il conflitto nella concorrenza o su base nazionale o di tipo razzista è finalizzato alla sconfitta del nemico per poterlo assoggettare o distruggere. La pulizia etnica e lo stupro etnico costituiscono l’esito ultimo di questo tipo di conflitto. Si tratta cioè di un conflitto che non produce uno sviluppo dell’umanità ma una sua tendenziale regressione.
Al contrario il conflitto di classe non è finalizzato all’uccisione dei padroni ma alla messa in discussione dei rapporti sociali di produzione, cioè al superamento delle classi. Il conflitto di cui noi siamo portatori è un conflitto che mettendo in discussione i rapporti sociali che producono la schiavitù apre la porta alla liberazione di tutti e tutte.
La nostra visione antropologica si basa quindi sull’estensione del conflitto di classe e alla produzione di un individuo sociale in grado di costruire relazioni di cooperazione tra i lavoratori e i popoli. Il superamento delle classi è quindi finalizzato a permettere la cooperazione sociale e ad ogni singolo individuo – liberato dal vincolo materiale dello sfruttamento e della concorrenza, e dai limiti del proprio agire privato – l’espressione e la costruzione della propria libera individualità.
Come ci ha ricordato anche in questa occasione Lidia Menapace l’individuo non è declinabile in un modello unico perché esistono i maschi e le femmine. Concordo con questa sottolineatura e quindi con la necessità di far attraversare e ridefinire la nostra elaborazione a partire dal nodo della differenza.  Non a caso la lotta al patriarcato l’abbiamo inserita all’interno dello statuto di Rifondazione Comunista. Dobbiamo essere assolutamente consapevoli che il maschilismo non è automaticamente abolito dalla lotta di classe. La lotta per il superamento del capitalismo e la lotta per il superamento del patriarcato sono due facce della stessa medaglia, due facce necessarie della lotta per la libertà. La lotta al patriarcato non è un lusso ma un elemento fondativo della nostra lotta per il comunismo che è una lotta per superare tutte le diseguaglianze e le discriminazioni. Riprendendo il ragionamento di Lidia Menapace, credo per certi versi che occorra addirittura andare oltre. Io penso che non si possa ridurre alcun individuo – maschio o femmina che sia – ad un aspetto solo della sua persona. La riduzione ad un solo aspetto di noi è alla base del razzismo: quello è nero, quello è islamico ci dicono i razzisti di casa nostra. La nostra idea di antropologia connette la questione di classe con la questione di genere e punta a costruire rapporti sociali che permettano alle persone di esprimere la propria varietà di sfaccettature che compongono l’irripetibile ricchezza di ogni essere umano. Io sono un maschio di 55 anni, comunista, valdese a cui piace andare in montagna e suonare. Sono tante cose come ognuno di voi. Così come un immigrato non è solo un uomo con la pelle di un altro colore ma una persona con la sua storia, le sue passioni, le sue idee, la sua complessità e unicità. E’ del tutto evidente che la logica della concorrenza o della guerra riduce le nostre identità ad un aspetto solo al fine di poter identificare i nemici: gli immigrati, i mussulmani, gli zingari. Le persone scompaiono e vengono ridotte a simboli nella barbarie che cerca e produce capri espiatori. Noi contrapponiamo la cooperazione alla competizione perché pensiamo che solo una società retta dalla cooperazione tra eguali possa permettere il libero sviluppo della personalità umana nelle sue differenze.
Per questo noi comunisti e comuniste operiamo per il superamento del sistema capitalistico e lo facciamo ponendo al centro una antropologia basata sulla cooperazione, sull’individuo sociale, sul riconoscimento del “noi umani”, contrapposta alla logica della concorrenza che produce individui disumanizzati in guerra perenne gli uni contro gli altri.
Per un soggetto unitario e plurale della sinistra antiliberista
Tutto questo non siamo oggi in grado di farlo da soli. Per le ragioni sopra espresse abbiamo la necessità di favorire l’allargamento della partecipazione e di aggregare forze al fine di sconfiggere le politiche neoliberiste che stanno portando il mondo nella barbarie.
Per questo proponiamo di aggregare tutte le forze antiliberiste di sinistra al fine di dar vita al processo costituente di un soggetto politico unitario e plurale. Un processo costituente che permetta la partecipazione e il protagonismo di tutti gli uomini e le donne che ritengono necessario sconfiggere il neoliberismo. Ci siamo scontrati nelle settimane scorse con il settarismo di SEL e Sinistra Italiana che hanno scelto la strada di fare un nuovo partito. Una proposta politica che ha mostrato una determinazione degna di miglior causa nella richiesta di sciogliere Rifondazione Comunista mentre è assai ambigua sul tema fondamentale dei rapporti con il PD. Noi pensiamo che occorra fare il contrario: occorre dar vita ad un soggetto politico che sia chiaramente e strategicamente alternativo al PD e ai socialisti e che sia costruito in modo plurale, al fine di aggregare tutte le energia sociali, culturali e politiche disponibili a operare per una alternativa di sinistra. Vi è chi vede una contraddizione tra la proposta di rafforzare Rifondazione Comunista e quella di costruire un soggetto unitario della sinistra antiliberista. Non è così: dall’America Latina all’Europa le migliori esperienze di sinistra sono nate con un carattere unitario e plurale, proprio per raccogliere il complesso delle forze e delle intelligenze nella lotta al liberismo. Proprio il carattere plurale e democratico è la condizione per porre le basi di una partecipazione politica di massa, non circoscritta a ristretti circoli militanti. Questa necessità dell’unità nel pluralismo lo possiamo vedere anche nella parte migliore della nostra storia. Nel 1943 in nome della necessità e dell’urgenza di sconfiggere il nazifascismo il PCI contribuì a dar vita al CLN, al Comitato di Liberazione Nazionale. Oggi noi dobbiamo dar vita ad un soggetto politico che abbia l’ambizione di costruire un CLN antiliberista.
Così come all’inizio degli anni ’70, nel vivo di quella grande stagione di lotte operaie i comunisti seppero stare da protagonisti nella costruzione dell’unità sindacale e della FLM. Il sindacato unitario fu la cornice in cui poté crescere il sindacato dei consigli e contribuì in modo fondamentale a quella magnifica stagione di conquiste e di trasformazioni sociali.
Quando faccio questi esempi non intendo ovviamente riproporre le forme specifiche in cui essi si realizzarono: abbiamo detto in tutte le salse che il soggetto unitario deve basarsi sul principio di una testa un voto, non deve essere una forma federativa. Voglio però riproporre con forza quell’ispirazione unitaria che in nome della lotta contro il nemico e per i comuni obiettivi, seppe costruire grandi stagioni di riscatto e protagonismo sociale.
La nostra proposta politica di dar vita ad una sinistra unitaria e plurale non si è quindi esaurita a causa della scelta sbagliata di SEL e Sinistra Italiana. Noi siamo impegnati affinché questa prospettiva possa realizzarsi e continueremo nei prossimi mesi a batterci per questo. Riteniamo infatti che il terreno dell’unità della sinistra antiliberista sia il terreno su cui può realizzarsi un nuovo protagonismo di massa e una nuova stagione di trasformazione sociale.
Siamo liberamente ed orgogliosamente comunisti e proprio per questo per l’unità della sinistra antiliberista.

Nessun commento: