Il premier russo Dmitri Medvedev, ieri impegnato a Monaco
insieme a John Kerry per decidere la cessazione delle ostilità in Siria,
si sono trovati quasi d'accordo: "ci saranno altri attacchi e grandi
attentati” e "se la situazione in Siria e in altre zone 'calde' non si
normalizzerà, il terrorismo si tramuterà in in nuovo tipo di guerra
coinvolgendo il mondo intero".
Le due frasi sono state pronunciate nell'ordine dai due capi di
governo e, una volta messe assieme, danno un quadro previsionale preciso
del prossimo futuro: dobbiamo attenderci grandi attentati qui da noi, a
meno che non si trovi un nuovo equilibrio con il polo sunnita guidato
in competitivo condominio da Arabia Saudita e Turchia, costringendolo a
rinunciare volontariamente ai sogni di grandezza. Che sono per l'Arabia
Saudita (come per Israele) il ridimensionamento drastico dell'Iran e,
per la Turchia, il sogno demente di un rinato impero ottomano a spese
dei vicini e, ovviamente, dei curdi.
Questo quadro illumina un po' meglio la situazione: non esiste nessun “terrorismo”,
nessuna “ideologia fanatica”, nessun integralismo religioso che ci odia
per motivi incomprensibili. O, per lo'meno, queste maschere
ideologico-culturali non avrebbero alcuna efficacia politico-militare se
non fossero insufflate, sostenute, nutrite, dalle potenze regionali
sunnite (alquanto integraliste, questo è noto).
C è dunque una guerra. Molto asimmetrica e molto ambigua. Perché il
nemico dichiarato è poco più di un fantasma, mentre quello reale è fatto
di alleati storici, in un caso addirittura un membro della Nato. Il
quale pretenderebbe che il resto dell'alleanza portasse a termine il
piano originario (abbattere Assad, consegnando buona parte della Siria a
Erdogan, eliminando così la componente sciita nella regione, ovvero
alauiti ed Hezbollah), su cui tanto ha investito in questi cinque anni.
Ogni raggiungimento della pace che non preveda il conseguimento di
quegli obiettivi è dunque per Erdogan e il re saudita una sconfitta
inaccettabile, oltre che un tradimento occidentale. Dunque non ci sarà
per il momento nessuna pace, ma solo un miscuglio inestricabile di
impegni assunti al tavolo di trattativa e massacri feroci sul terreno.
Ma va capito fino in fondo che il “terreno” su cui ci si scontra
militarmente non si limita affatto alle ciità e ai deserti del Siraq (i
confini del trattato Sykes-Picot sono per il momento cancellati dallo
Stato Islamico), e comprende ormai da tempo anche le principali città
dell'Occidente, Russia compresa.
È una guerra ambigua, dunque, perché avviene tra
quattro soggetti diversi (Usa e Unione, in parte uniti nella Nato, polo
sunnita – con Turchia e Sauditi che non hanno esattamente gli stessi
interessi -, polo sciita e Russia), che sul terreno dovrebbero essere
teoricamente schierati tutti insieme contro un fantasma militarmente
insignificante (l'Isis) ma che sono divisi in almeno tre fronti
contrapposti e incomponibili (Usa e Ue, Russia e sciiti, sunniti e Isis,
con la complicazione delle antiche alleanze politiche, dei contratti
per le forniture militari e gli interessi divergenti sul petrolio).
È una guerra asimmetrica, perchè non c'è nessun
equilibrio militare tra il polo sunnita e gli altri due. Le enormi spese
in armamenti dell'Arabia Saudita non sono state sufficienti a risolvere
militarmente neppure il piccolo “problema yemenita”, e in ogni caso non
c'è alcuna intenzione di rischiare di essere spianati dalla potenza Usa
(la Russia non ha alcun interesse o possibilità di “ridimensionare” i
sauditi con la forza, vista lla loro antica alleanza con Usa e Israele).
Ma questa inferiorità strategica e militare non implica affatto una
rinuncia o una resa.
Nella guerra asimmetrica, infatti, il più forte usa le armi in cui ha
una superiorità indiscutibile, e quindi via con i bombardamenti, i
droni, i missili e quant'altro consenta di ridurre al minimo l'impegno
di uomini sul terreno. Il più debole, all'opposto, usa proprio la
relativamente grande disponibilità di “carne da cannone”: in casa
propria, nei territori oggetto di contesa o nelle metropoli dei nemici.
Il polo sunnita, in altri termini, non punta a “vincere la guerra con
l'Occidente” o a “distruggere il nostro modo di vita” - come ripetono
ottusamente i media di regime “qui da noi”. L'obiettivo è pià ridotto e
locale: sbaragliare il polo sunnita e ridiscutere i termini dei rapporti
economici, politici e militari cone l'imperialismo Usa-Ue. La Russia ha
sparigliato il gioco intervenendo in Siria al fianco del polo sciita,
magari anche per freddissima vendetta per l'apporto saudita alla
catastrofe afgana, che segnò la fine dell'Urss; ma non era, all'inizio,
un avversario di cui tener troppo conto.
A questo punto, per tenere alta la pressione sull'Occidente e
“convincerlo” a ritornare agli obiettivi originari, al polo sunnita non
resta che resistere il più possibile in Siraq e portare la guerra nelle
metropoli occidentali.
Dunque ogni nuova mossa di guerra occidentale nel Mediterraeo o in
Medio Oriente – tra poche settimane quella in Libia, non appena avranno
trovato un quisling sufficientemente forte disposto a “chiedere
aiuto” - porterà sicuramente a tentatvi di attentati tanto più clamorosi
quanto più facili. Non atti di guerra condotti contro strutture
politiche o militari, insomma, ma l'equivalente nudo e crudo dei
bombardamenti sulle città di Siria, Iraq e Libia. Tanti Bataclan, da cui
non ci proteggerà nessuna pattuglia piazzata in strada con le armi bene
in vista. Massacri che militarmente non spostano di una virgola i
rapporti di forza globali, ma avvelenano i pozzi a cui si è abbeverata
finora la cultura dell'Occidente capitalistico. I primi segnali, come già scritto, sono di evidenza solare.
Una guerra ambigua e asimmetrica come questa non ammette vittoria,
solo distruzioni crescenti nel tempo, fino ad un punto di collasso
imprevedibile per tutti i soggetti in campo. È iniziata 25 anni fa con
il primo attacco all'Iraq, e non accenna a finire. Anche per questo o
proprio per questo, non dovrebbe essere combattuta. Anche per questo, o
proprio per questo, bisogna battersi contro ogni nuova escalation
travestita da “guerra al terrorismo”.
Perché ogni nuova escalation fa delle nostre strade un potenziale
teatro di bombardamento. Non iper-tecnologico e dall'alto, come fanno “i
nostri” laggiù. Ma ugualmente devastatori.
Chi dice di volerci "difendere", dunque, ci sta consapevolmente
portando la guerra in casa. E nel frattempo ci toglie la nostra libertà.
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