L’abbiamo pescato mentre si prepara ad andare a Mantova al
Festivaletteratura che si terrà in quella città dal 4 all’8 settembre.
Un lavoro nel campo dell’editoria alternativa, un passato politico, un
presente da spettatore non silente. Chiamialo Ars Longa – Lettere o come
volete voi. Gli abbiamo posto delle domande che sono emerse qui tra
articoli e commenti.
Ti ho fatto vedere quello che si scrive sul blog, i commenti e i
ragionamenti e vorrei porti la questione che sembra emergere e che –
ovviamente – è legata al “che fare?”. Il tema è che ci sia un Paese
addormentato che ha bisogno di essere “risvegliato”. Alcuni commenti
propongono la necessità che le persone già “sveglie”, le più coscienti,
il ceto intellettuale, si adoperino per far uscire dal torpore il resto
della popolazione. Tu cosa ne pensi?
Prima di tutto un complimento per i contenuti, non sono un grande
frequentatore della blogosfera però mi pare che stiate facendo un buon
lavoro, ci vedo una qualità di contenuti una spanna sopra la media
dell’usuale. Poi, per rispondere alla tua domanda senza girarci intorno,
io credo che la teoria del popolo “addormentato” sia una tradizione
italiana più che una realtà. Non è un caso che l’inno nazionale
incominci con le parole “l’Italia s’è desta”. L’idea che il popolo
italiano viva un sonno dal quale può essere risvegliato è consolatoria
per sua natura. Presuppone che ci siano le energie per cambiare una
situazione. Presuppone che un potere ostile abbia addormentato un intero
Paese. Nell’Ottocento erano i governanti degli Stati pre-unitari
asserviti agli Austriaci, all’inizio del Novecento le grandi potenze
mondiali che volevano negarci il “posto al sole”, per noi che eravamo la
“grande proletaria” bisognosa di colonie. Dopo la parentesi
dittatoriale che ha retoricizzato la nazione, l’addormentamento è stato
attribuito ad un limaccioso potere politico democristiano. Tramontato
anche questo si è visto nella televisione berlusconiana il sonnifero
delle coscienze. La classe “intellettuale” di questo Paese ha bisogno di
questa interpretazione, che è una visione molto strumentale.
In primo luogo preserva il ruolo di una certa classe (intesa in senso ampio e non marxiano) che si pone come “risvegliatrice” e in secondo luogo ribadisce la favola autoesplicante del popolo buono governato male. In sintesi: non credo che il popolo stia dormendo ma che sia un topos comodo per molti.
In primo luogo preserva il ruolo di una certa classe (intesa in senso ampio e non marxiano) che si pone come “risvegliatrice” e in secondo luogo ribadisce la favola autoesplicante del popolo buono governato male. In sintesi: non credo che il popolo stia dormendo ma che sia un topos comodo per molti.
Se non è addormentato però sembra non reagire. Credi che la maggioranza pensi di essere governata bene?
Assolutamente no, gli ultimi centocinquanta anni non sono un esempio
di buon governo sotto nessun aspetto. Però il teorema del “buon popolo
addormentato” che sta in attesa di un principe azzurro che gli indichi
la via per il riscatto è, appunto, una favoletta. Fabbricata da un certo
“milieu” culturale. Ed è una favola che ha, da sempre, degli effetti
catastrofici. Cerco di andare con ordine. In ogni cultura nazionale
esiste una qualche forma di contrapposizione tra alto e basso, ovunque
c’è del risentimento dei governati verso i governanti. Questo
risentimento in Italia (ma anche altrove) genera però non una
propensione alla rivolta ma un adattamento fatalistico alla situazione
ed il ricorso alla astuzia come strumento di reazione. In Italia, più
che altrove, è diffusa nella cultura informale la convinzione che ci sia
un “palazzo” che ordisce trame e complotti contro la povera gente. Il
“palazzo” è abitato da una classe dirigente che ha conseguito la sua
posizione grazie ad una operazione politica non trasparente. E proprio
in virtù di questo ottenimento fraudolento del potere lo esercita in
modo da anteporre l’interesse proprio all’interesse generale. Come ci si
può difendere? Assumendo un ruolo passivo e giocando d’astuzia. Faccio
finta di sottomettermi e ricerco degli spazi di autonomia negli
interstizi del sistema. Mi faccio furbo e la furbizia diventa l’arma di
chi pensa di non potersi misurare con il potere in campo aperto. C’è
gente, soprattutto a Sinistra, che – sotto sotto – si è sempre stupita
dell’assenza di capacità rivoluzionarie del popolo italiano. Perché non
c’è una Bastiglia, un Palazzo d’Inverno italiano? E la spiegazione è
invariabilmente quella del popolo addormentato che nessuno ha mai
svegliato. In realtà – a mio avviso – non solo è sveglissimo ma è forse
uno dei più rivoluzionari al mondo. Gli Italiani sono in una rivoluzione
permanente a bassa intensità dall’unità d’Italia in poi e, forse, anche
da prima. Rivoluzione che usa l’arma della sfiducia sistematica e della
furbizia.
Non ti pare di condannare così il popolo e di ricadere in un giudizio altezzoso?
Affatto. Perché c’è l’altra parte del quadro da vedere. Alla visione
dal basso corrisponde specularmente una visione dall’alto. La classe
dirigente italiana ha degli stupefacenti tratti da “ancien regime” che
difficilmente si riscontrano altrove. Chi governa ha un atteggiamento
aristocratico di sostanziale disprezzo del popolo. Un disprezzo che va
al di là del tempo e delle ideologie. Provava disprezzo verso il popolo
il notabilato giolittiano e crispino ed anche quello fascista
(nonostante gli strilli di segno opposto). L’idea che governare gli
italiani sia difficilissimo è comune a tutti i regimi che si sono
succeduti. Andreotti scrisse una volta che Mussolini avrebbe detto che
“governare gli italiani non è difficile, è inutile”. Non so se Andreotti
abbia coniato un suo pensiero per metterlo in bocca al fondatore del
fascismo, ma sostanzialmente da tante altre fonti si può dedurre che
questo era effettivamente il pensiero mussoliniano. Le classi dirigenti
italiane si basano sulla dicotomia tra il noi (i colti) e loro (i
bifolchi), chi governa sente di farlo per ragioni ontologiche non in
virtù di un processo democratico. Ed il fatto che l’esercizio del potere
sia vissuto come un “destino” fa sì che la classe dirigente non abbia
mai sentito il bisogno di legittimare la propria esistenza con il
proprio lavoro. Se governo perché Dio o il destino o il Partito mi hanno
posto a governare è assolutamente inutile legittimare il mio governare
attraverso la creazione di benessere collettivo. E se manca il bisogno
di legittimazione subentra l’arroganza del potere. Ed il cerchio si
chiude.
In che senso?
Nel senso che c’è una profezia autoavverante che si compie. Il popolo
considera sempre fraudolento l’esercizio del potere della classe
dirigente, la classe dirigente considera sempre chi governa una massa di
bifolchi di cui è meglio fidarsi il meno possibile.
Questo rapporto lo vedi ben fotografato dai presupposti concettuali del sistema fiscale. Il fisco parte dal principio che il contribuente cerchi di “tirare a fregare”. Il contribuente parte dal principio che il modo migliore per reagire alla tassazione sia quella di eluderla il più possibile. Il meccanismo genera quelle cose incredibili secondo le quali l’Agenzia delle Entrate presume che tu debba guadagnare una certa cifra attraverso quella follia concettuale che è lo studio di settore. Il contribuente sotto i parametri dello studio di settore può mettersi in regola pagando una cifra che sarebbe inferiore a quello che lo studio indica ma che è superiore rispetto a quello che dichiara. Il meccanismo è: io so che tu bifolco stai tirando a fregare perché ontologicamente tiri a fregare. Questo ragionamento si rispecchia nel ragionamento dell’altra parte: io so che tu Stato sei predatorio ed ingiusto perciò gioco d’astuzia. La conclusione è un trovarsi a mezza via trattando un accordo. E questa sfiducia reciproca tra alto e basso si risolve sempre in una dialettica di trattativa che trova non un punto di verità ma un punto di comodità tra due posizioni.
Questa dinamica genera due alibi comodissimi sia per il basso che per l’alto. Il popolo ha nell’uso fraudolento del potere da parte delle classi dirigenti, l’alibi per mettere in atto comportamenti tecnicamente e/o moralmente discutibili nel suo rapporto con lo Stato. La classe dirigente ha l’alibi per giustificare il proprio potere senza la necessità di legittimarlo. Ma dirò di più, la classe dirigente può in questo ecosistema distorto rifiutare di sentirsi élite che guida. Se ci fai caso la classe dirigente italiana nega sistematicamente il proprio ruolo di responsabilità. Se vai da un sindaco ti dice che lui, il potere non lo ha, che sta altrove. La stessa cosa te la dice il presidente della regione, il parlamentare, il membro del governo. La classe dirigente italiana si dichiara sempre sfornita di potere e, in questo modo, lo può esercitare senza sentirsi responsabile e senza decidere di assumere le guida. L’innamoramento dell’Europa, fortissimo per molto tempo in Italia, è stato comune al popolo e alla classe dirigente. La ragione è semplice: la classe dirigente trovava negli organismi europei un soggetto sui quali scaricare il ruolo guida, il popolo sperava finalmente che qualcuno questo ruolo guida se lo assumesse. Quando le cose andavano bene si coltivava l’idea che i nostri nodi sarebbero stati sciolti dalle decisioni europee. Alcune decisioni forti ci sarebbero state, finalmente, imposte dall’esterno. E un meccanismo del genere aveva un consenso larghissimo. Le classi dirigenti che hanno sistematicamente rifiutato un ruolo guida e le responsabilità ad esso connesse si sono sentite sollevate ancora di più dal loro dovere. I governati hanno sperato che l’intervento esterno avrebbe costretto la classe dirigente a fare ciò che non aveva mai fatto perché fraudolenta in sé.
Questo rapporto lo vedi ben fotografato dai presupposti concettuali del sistema fiscale. Il fisco parte dal principio che il contribuente cerchi di “tirare a fregare”. Il contribuente parte dal principio che il modo migliore per reagire alla tassazione sia quella di eluderla il più possibile. Il meccanismo genera quelle cose incredibili secondo le quali l’Agenzia delle Entrate presume che tu debba guadagnare una certa cifra attraverso quella follia concettuale che è lo studio di settore. Il contribuente sotto i parametri dello studio di settore può mettersi in regola pagando una cifra che sarebbe inferiore a quello che lo studio indica ma che è superiore rispetto a quello che dichiara. Il meccanismo è: io so che tu bifolco stai tirando a fregare perché ontologicamente tiri a fregare. Questo ragionamento si rispecchia nel ragionamento dell’altra parte: io so che tu Stato sei predatorio ed ingiusto perciò gioco d’astuzia. La conclusione è un trovarsi a mezza via trattando un accordo. E questa sfiducia reciproca tra alto e basso si risolve sempre in una dialettica di trattativa che trova non un punto di verità ma un punto di comodità tra due posizioni.
Questa dinamica genera due alibi comodissimi sia per il basso che per l’alto. Il popolo ha nell’uso fraudolento del potere da parte delle classi dirigenti, l’alibi per mettere in atto comportamenti tecnicamente e/o moralmente discutibili nel suo rapporto con lo Stato. La classe dirigente ha l’alibi per giustificare il proprio potere senza la necessità di legittimarlo. Ma dirò di più, la classe dirigente può in questo ecosistema distorto rifiutare di sentirsi élite che guida. Se ci fai caso la classe dirigente italiana nega sistematicamente il proprio ruolo di responsabilità. Se vai da un sindaco ti dice che lui, il potere non lo ha, che sta altrove. La stessa cosa te la dice il presidente della regione, il parlamentare, il membro del governo. La classe dirigente italiana si dichiara sempre sfornita di potere e, in questo modo, lo può esercitare senza sentirsi responsabile e senza decidere di assumere le guida. L’innamoramento dell’Europa, fortissimo per molto tempo in Italia, è stato comune al popolo e alla classe dirigente. La ragione è semplice: la classe dirigente trovava negli organismi europei un soggetto sui quali scaricare il ruolo guida, il popolo sperava finalmente che qualcuno questo ruolo guida se lo assumesse. Quando le cose andavano bene si coltivava l’idea che i nostri nodi sarebbero stati sciolti dalle decisioni europee. Alcune decisioni forti ci sarebbero state, finalmente, imposte dall’esterno. E un meccanismo del genere aveva un consenso larghissimo. Le classi dirigenti che hanno sistematicamente rifiutato un ruolo guida e le responsabilità ad esso connesse si sono sentite sollevate ancora di più dal loro dovere. I governati hanno sperato che l’intervento esterno avrebbe costretto la classe dirigente a fare ciò che non aveva mai fatto perché fraudolenta in sé.
Ma adesso le cose vanno male.
Sì ma la produzione seriale degli alibi non è finita, anzi. Da un
lato la classe dirigente sta giocando la partita con la parola magica
“ce lo chiede l’Europa” e continuando a nuotare beatamente nel mare
della deresponsabilizzazione. Dall’altro lato sempre più cresce
l’ostilità popolare verso l’Europa accusata di essere la ragione della
crisi economica. Che – a fare i conti bene – è un ulteriore alibi per
dimenticarsi e dimettersi dalle proprie responsabilità. Questo poi si
intreccia con temi popolari dormienti ma sempre vivi: i tedeschi
sanguinari e cattivi, il potere cieco e oppressivo qualunque sia.
L’antieuropeismo che sta sorgendo è l’alibi per i governanti e i
governati. Non dico che il progetto europeo sia stato positivo. Io penso
tutto il male possibile di come negli ultimi dieci anni è stato
gestito. Però dico anche che fa comodo nascondere le proprie colpe sotto
il tappeto europeo. Nessuno si prende – come al solito – la propria
parte di responsabilità, si può vigliaccamente e criminalmente sostenere
che in questo Paese la corruzione non sia un problema. Si può giocare
sulla autovittimizzazione per assolvere una classe imprenditoriale
incapace, un sindacato seduto su sé stesso. Si può cioè far finta di
essere lindi e innocenti dentro al bordello. Il gioco della vergine
capitata per caso e contro la sua volontà nel puttanaio è un altro
classico nazionale.
Ma non ti pare che in questo modo, anche tu attribuisca la
situazione a fattori ontologici e quindi si ricada nel “nulla si può
cambiare”?
No, perché alcune occasioni di cambiamento ci sono state e la
principale è stata nel 1992 con il crollo dei sistemi di governo nati
dal dopoguerra e vissuti nel clima della guerra fredda. Con Tangentopoli
– per un momento – c’è stata una reazione al fatalismo e allo
scetticismo diffuso, c’era stata l’idea di una liberazione da una
“casta” – uso un termine abusato – che aveva espanso i livelli della sua
immoralità oltre la sfera del sopportabile. Ma quella reazione – come
spesso sembra accadere – non ha generato il rinnovamento della classe
politica. Ha semplicemente fatto avanzare la linea dei colonelli che si
sono sostituiti ai generali caduti sul campo delle inchieste
giudiziarie. Ha favorito l’ascesa di figure solitarie come Berlusconi
che altro non è se non il prodotto del sistema che era crollato, perché
era nato ed era prosperato in quel sistema. Invece del rinnovamento ci
si è accontentati della grande menzogna del bipolarismo, dell’idea cioè
che la classe dirigente diventava più decente se semplificava le sue
posizioni polarizzandosi in una fittizia sinistra e in una fittizia
destra.
Il tutto mentre teorie neoliberiste, con il consenso unanime della classe dirigente, desertificavano i diritti delle persone e smantellavano il welfare state riducendolo ad una parodia.
Il tutto mentre teorie neoliberiste, con il consenso unanime della classe dirigente, desertificavano i diritti delle persone e smantellavano il welfare state riducendolo ad una parodia.
Ma in tutto questo il popolo non ti è sembrato addormentato?
Per niente. Il popolo ha continuato nella sua rivoluzione permanente a
bassa intensità esattamente come prima inglobando alcune parole
d’ordine plastificate: “competitività”, “meritocrazia”, e via dicendo.
Ha adattato il proprio agire sintonizzandolo sulla retorica neoliberista
e riposizionandosi. La classe dirigente ha continuato a fare
esattamente quello che faceva prima. L’avvizzimento – per me
ingiustificato e ingiustificabile – delle ideologie ha segnato il
“libera tutti” e le uniche aggregazioni popolari forti si sono
verificate intorno alla difesa dei beni comuni. Ma nessuno ha voluto e
saputo utilizzare questi temi per renderli pensiero unificante ed
elemento sul quale uscire dalla rivoluzione a bassa intensità e
inaugurare una stagione di radicale cambiamento.
In un certo senso il Movimento Cinque Stelle si è posto in questo modo, no?
Stai scherzando spero. Grillo e il suo movimento hanno generato una
grossa pentola nella quale bollire a fuoco lento, senza farli mai
arrivare alla temperatura giusta per essere affrontati, dei temi
importanti. Sotto la forma di non-partito che tutto contesta nella
realtà non contesta seriamente nulla. Accoglie tutti i temi, fa appello a
tutte le differenze, raccoglie scontenti consci ed inconsci e li sbatte
dentro ad un contenitore che li tiene caldi e controllati. Sulla
questione europea ti dice che promuoverà un referendum che significa che
non ha intenzione di uscire dall’euro ma non vuole dirlo. Sulle
questioni ambientali e dei beni comuni si accoda a movimenti spontanei.
Li vampirizza un po’ ma soprattutto li sterilizza. E – così facendo –
continua a favorire la rivoluzione continua a bassa intensità che non
esplode mai. Per esemplificare ancora di più: fare una campagna sul
costo dei politici è legittimo ed anche utile ma usare il costo e non
affrontare il tema della responsabilità significa sviare i problemi.
Ma allora come se ne esce? Quali idee possono valere per
trasformare quella che tu chiami rivoluzione permanente a bassa
intensità con un reale cambiamento? Come favorire un nuovo impegno
collettivo?
I temi sui quali lavorare sono moltissimi, c’è solo l’imbarazzo della
scelta. Purtroppo quello che vedo è la rincorsa alla creazione di
soggetti politici (leggi partitici) altrettanto confusi e forse più di
quelli già esistenti. C’è attenzione al contenitore perché si pensa che
un contenitore potrebbe canalizzare lo scontento. Non ci sono nell’aria
proposte politiche che hanno valore di assunzione di responsabilità ma
tentativi di appropriarsi del disagio sociale. Quello che vedo è
tatticismo. C’è un buco spaventoso sia a destra che a sinistra. Non
esiste più né un grande partito di destra né un grande partito di
sinistra perché si è fatta strada l’idea che gli italiani siano un
popolo essenzialmente di centro. In questo modo tutti cercano di essere
meno definibili possibili. Una specie di politica di marketing che possa
captare voti qui e lì. Così tutto si è fatto impreciso, tutto si è
omologato. Tutti evitano di prendere posizioni nette su temi difficili:
lavoro migrante, politiche di welfare, politica internazionale. Le
battaglie si scatenano (apparentemente) su temi periferici rispetto alla
sostanza. Il tema che ho visto trattare con grande intensità sul vostro
blog è l’euroexit. Bene, questo è un esempio della periferizzazione dei
discorsi. Il tema centrale è: “vogliamo continuare a percorrere il
sentiero neoliberista?” La periferia del tema è, “vogliamo continuare a
stare nell’Euro?”. Scegliere il tema periferico è una operazione di
ipocrisia politica. Perché alla fin fine battere sul tasto “Euro sì,
Euro no” ha l’indubbio vantaggio di spostare il problema centrale in un
“più avanti” indefinito e di cercare di acchiappare consensi a destra e a
sinistra. In una prospettiva, appunto, del “poi si vedrà”. E’ più
facile parlare di Euro che non di politiche dell’occupazione giovanile.
Perché con il 39,5% di disoccupazione nella fascia più giovane dare una
risposta significa prendere una posizione netta. Ad un problema del
genere devi opporre una ricetta che vada al di là del problema stesso.
Devi dire alle persone: “signori, il modello neoliberista ci ha portato
qui, occorre uscire dal neoliberismo”. Invece si preferisce dire “l’Euro
ci ha portati qui, bisogna uscire dall’Euro” o, dall’altra parte si
dice “dobbiamo avere più Europa”. Il che è, francamente, una operazione
di scarico delle responsabilità ancora una volta. Perché nessuno, e
sottolineo nessuno, ti dice come ridurre la disoccupazione giovanile,
gestire il lavoro migrante, amministrare il welfare e rinnovarlo,
impostare nuove politiche industriali. Io francamente mi sento preso per
il sedere quando qualcuno invece di espormi politiche complessive cerca
di concentrare la mia attenzione su un tema periferico.
Ammettiamo per un attimo di essere usciti dall’Euro. Con precisione, dopo, che idea di società e quali scelte si vogliono fare? Che modello c’è dopo? E non basta dire, “intanto usciamo perché se restiamo saremo morti” perché questa è una stupidaggine. La mobilitazione fatta sotto la pressione della paura esime chi fa proposte dallo spiegare bene il dopo. L’obiezione secondo la quale la casa sta bruciando e bisogna uscirne e poi vedere sembra di buon senso ma in realtà è una truffa. Perché uscire dall’Euro non significa uscire dalla casa, significa uscire solo da una stanza. In sostanza si propone di uscire da dove si è ma non si dice che non c’è volontà di uscire dalla casa.
Ammettiamo per un attimo di essere usciti dall’Euro. Con precisione, dopo, che idea di società e quali scelte si vogliono fare? Che modello c’è dopo? E non basta dire, “intanto usciamo perché se restiamo saremo morti” perché questa è una stupidaggine. La mobilitazione fatta sotto la pressione della paura esime chi fa proposte dallo spiegare bene il dopo. L’obiezione secondo la quale la casa sta bruciando e bisogna uscirne e poi vedere sembra di buon senso ma in realtà è una truffa. Perché uscire dall’Euro non significa uscire dalla casa, significa uscire solo da una stanza. In sostanza si propone di uscire da dove si è ma non si dice che non c’è volontà di uscire dalla casa.
Per casa intendi il pensiero neoliberista?
Di più: intendo il paradigma di crescita complessivo. Questo nessuno
lo discute. A destra si ripercorre una strada tradizionale e si dice in
sostanza che il capitalismo finanziario è da arrestare. Ma per far cosa?
Per sostituirlo? No. A destra ti parlano di un capitalismo “ben
temperato”, direi quasi “caritatevole”. Insomma un capitalismo che lasci
sopravvivere il dettagliante e il piccolo imprenditore, un capitalismo
un po’ autarchico con qualche pezza sul sedere ma sempre capitalismo. A
sinistra (in una certa sinistra radicale, perché il resto non è sinistra
se non per un concetto di nominalismo) ti parlano di uscita dal
capitalismo ma nonostante tutte le eterodossie possibili che esistono in
quel campo, rimangono inchiodati al valore del lavoro, alle classi
operaie (sempre più striminzite, ma non importa). Il che significa
ancora una volta che neppure qui si mette in dubbio il paradigma della
crescita. La “crescita” è la parola tabù: nessuno mette in discussione
il significato di “crescita”.
Il fatto che il “decrescismo” in Italia sia preso come una teoria bislacca e utopista ti dice chiaramente che il paradigma della crescita come progresso sta lì granitico e intoccabile a destra come a sinistra. Certamente non ha aiutato il “decrescismo” certe posizioni “new age” e certi personaggi ed idee più medioevali che altro. Certe affermazioni di un Latouche sono così folli da contribuire a far catalogare il “decrescismo” come una setta di squinternati. Il problema allora è che non si tratta più di dire “fuori dal capitalismo” perché ci sono tante versioni del capitalismo, versioni hard e versioni soft. Chi ti dice “fuori dal capitalismo” propone sempre la sua idea di capitalismo. Il punto è affermare con decisione che bisogna uscire fuori da un “paradigma di crescita”.
Il fatto che il “decrescismo” in Italia sia preso come una teoria bislacca e utopista ti dice chiaramente che il paradigma della crescita come progresso sta lì granitico e intoccabile a destra come a sinistra. Certamente non ha aiutato il “decrescismo” certe posizioni “new age” e certi personaggi ed idee più medioevali che altro. Certe affermazioni di un Latouche sono così folli da contribuire a far catalogare il “decrescismo” come una setta di squinternati. Il problema allora è che non si tratta più di dire “fuori dal capitalismo” perché ci sono tante versioni del capitalismo, versioni hard e versioni soft. Chi ti dice “fuori dal capitalismo” propone sempre la sua idea di capitalismo. Il punto è affermare con decisione che bisogna uscire fuori da un “paradigma di crescita”.
E affermare senza mezzi termini la necessità di uscire dal “paradigma di crescita” aggregherebbe e motiverebbe?
Voglio dire che qualsiasi cosa tu proponi devi proporlo con decisione
e senza retropensieri tattici e ambigui. Non bisogna avere paura di
perdere voti dicendo le cose precise. Il problema è che nessuno si
mobiliterà mai seriamente, nessuno svilupperà mai un pathos, una
idealità intorno a delle ambiguità. Devi dire esattamente cosa vuoi su
tutti i temi non solo su quelli periferici che ritieni aggreganti. Non
puoi stare zitto su quegli argomenti sui quali sai già che potresti non
avere il consenso di una parte. Devi dire tutto su tutti i temi, anche
scomodi. Devi fare quello che non fa più nessuno: devi prendere
posizione, una posizione netta e chiara e lavorare perché su quella
convergano le persone. Certo sui temi della cittadinanza se ti dichiari
che ne so, per lo ius soli o per lo ius sanguinis a seconda di dove ti
collochi, perdi consenso dall’altra parte. Ma se vuoi fare politica devi
credere in quello che dici. Se fai pretattica non vuoi cambiare le
cose, vuoi prendere il potere. Ma prendere il potere restando ambiguo ti
rende definitivamente ambiguo. La gente ti osserva. Capisce se credi in
quello che dici, se affronti il nocciolo della questione. C’è gente
come Casaleggio che nelle interviste preconizza (e secondo me si augura)
disordini e violenze causate da uno shock economico. E, nell’attesa dei
moti di piazza, sta seduta a guardare illudendosi di cavalcare l’onda
quando arriverà. Ma l’esperienza ci dice che in situazioni anche più
estreme (penso alla Grecia) la rivolta non sta generando alcun
cambiamento. Per generare cambiamento ci vuole una proposta globale di
rinnovamento della società. Una proposta completa, che non trascuri
niente, che non taccia su niente. Occorre dare alle persone risposte non
ambigue su tutti i temi. La gente non vuole sentirsi dire: “su questo
ci penseremo poi”. Non vuole una proposta che ti faccia solo uscire da
una stanza mentre la casa continua a bruciare. Non vuole sentirsi dare
delle risposte parziali. La gente non vuole marketing politico,
“politiche di fase”, tatticismi: la gente vuole cuore, convinzione,
impegno, chiarezza, competenza. E nessuno gliela sta dando. Prima ancora
di pensare a come rendere comprensibile un programma sul quale
aggregare le persone bisogna che sia “vissuto autenticamente” da chi lo
propone. Bisogna ascoltare e bisogna prendere posizione.
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