Una lettera in soggettiva può spiegare più di una lunga analisi politica. Oggi il manifesto vive il suo ultimo giorno, ma il futuro, se mai ci sarà, in mano alla "redazione a Norma" sembra decisamente buio.
Ancora non è noto il nome del padrone della "nuova storia" -
questo il titolo di un editoriale collettivo, per quanto possa valere
l'espressione "collettivo" dopo la lettura di queste sofferte righe, che
aveva l'ambizione di presentare "il futuro" senza dire mai come sarebbe
stato - ma si sa già quali saranno le relazioni interne. Padronali.
Uscite
tutte le firme storiche - meno Giuliana Sgrena, impegnata come
candidata vendoliana, ossia col Pd, alle elezioni regionali del Lazio;
una ragione ci sarà - i "nuovi" raccolti intorno a Norma Rangeri stanno
strutturandosi per una continuazione dell'attività sotto altre forme
societarie. La testata è in vendita (non è un segreto, sono usciti i
bandi sui giornali...), ma ritengono che fare una nuova cooperativa
possa garantire loro una continuità di gestione editoriale. Come se un
padrone qualsiasi possa davvero limitarsi a comperare un brand e
lasciarlo in mano ad altri, senza un controllo teso a salvaguardare
l'"investimento".
Ma solo un imbecille può credere che un'attività
industriale "nuova" - perché questo sarà quel giornale dal 2 gennaio in
poi - possa partire senza fondi.
La domanda interessante è dunque:
da dove arriveranno i soldi per pagare i normali costi industriali
(affitto, bollette, tipografia, carta, ecc) anche considerando che "i
nuovi" possano "investire su se stessi" e quindi autosospendersi il
pagamento degli stipendi fino al momento in cui cominceranno ad entrare i
ricavi delle vendite? (90-180 giorni).
Di certo non dai circoli dei
lettori organizzati, che - oltre a finanziare il giornale ogni volta che
questo aveva lanciato una "campagnadi sottoscrizione - avevano tentato
di proporsi come acquirenti della testata, ricevendo dall'attuale
direzione/redazione un quasi indignato rifiuto.
In attesa di
scoprirlo - e nulla, nel mondo dell'informazione, resta segreto a lungo -
ci illumina questo squarcio sulla presente e prossima vita interna al
giornale. Che già prima, come "comunista" lasciava parecchio a
desiderare, ma ora...
Da "la rivoluzione non russa" a "la rivoluzione no".
Scrivo per spezzare le nostre solitudini
Car* compagn*
come sapete sono in corso le procedure per formare la nuova cooperativa
che dovrà fare in modo che il manifesto rimanga in edicola. La nuova
coop è stata costituita prima di Natale da (credo) 9 persone, con uno
statuto (credo sia stato ripreso quello della vecchia coop) senza che
sia mai stata data una comunicazione ufficiale ai vecchi, nuovi e
aspiranti soci. Se ne è parlato al giornale, sul giornale, sui social
media ma chi abbia deciso i nomi dei “fondatori” e anche chi siano i
fondatori io non lo so. Avrei potuto chiedere, certo, ma non ho voluto.
Ho atteso invano una comunicazione ufficiale che non è mai arrivata.
E ora veniamo a “come” si sta formando la nuova cooperativa: si parte
dal budget (calcolato sulle vendite attuali), si cerca di capire quanti
posti di lavoro si possono salvare con quei soldi, si fanno alcune
scelte (chiudere il centralino, chiudere il sito, ridimensionare
l’archivio, ma questi sono solo esempi) e poi un comitato, formato da
due persone, comunica ai singoli lavoratori il tipo di contratto che il
giornale si può (o non si può) permettere per loro.
Il processo che
io, insieme ad altri compagni, tutti ormai fuori dal giornale, compresi
Rossana e Valentino, ho sempre caldeggiato, era esattamente l’inverso:
prima si doveva parlare di progetto e poi di chi serviva per
realizzarlo, cercando di fare un buon giornale, che aumentasse le
vendite e fosse in grado di riassorbire progressivamente più persone
possibili. Questo ovviamente comportava un grande e impegnativo
dibattito politico che si è scelto di non fare.
I colloqui
Siamo stati convocati dal comitato singolarmente (cosa che ovviamente
mette le persone in condizione di debolezza) e ci è stato comunicato
cosa il comitato aveva deciso per noi: contratto a tempo pieno,
contratto a tempo parziale o nessun contratto, senza altra possibilità
che prendere o lasciare. Ognuno poi, sempre in perfetta solitudine, ha
accettato tirando un sospiro di sollievo, ha rifiutato cortesemente, ha
cercato di contrattare, ha pianto le sue lacrime o ha sbattuto la porta.
Questo è quello che non mi va giù: ognuno solo con le sue gioie o le
sue pene, nessun processo collettivo. Ognuno che racconta “come è
andata” ai suoi amici, come fosse un colloquio di lavoro in un posto
qualsiasi.
Per questo ho voluto scrivere questa lettera: per rompere
queste solitudini, per cercare di far sentire meno solo e rabbioso chi è
rimasto tagliato fuori.
Che fosse necessario un drastico
ridimensionamento del personale lo sapevamo tutti ma che questo fosse il
modo migliore per farlo, no, questo proprio no.
Che dovessimo
formare una nuova cooperativa lo sapevamo tutti, che si formasse in
questo modo, con questi tempi, senza alcuna discussione collettiva sul
chi e sul cosa, no, questo proprio non lo accetto.
Siccome sono
abituata a partire da me, vi racconto il mio colloquio (avvenuto ieri,
28 dicembre, ultimo giorno utile prima della liquidazione della vecchia
coop): qualcuno, non so chi, ha deciso che bisognava chiudere il sito.
Inutile dire che chi ci ha lavorato non è stato coinvolto in questa
decisione, è stato informato solo a decisione già presa. Nessuno ha
chiesto al gruppo di lavoro del sito se si poteva trovare una soluzione
transitoria, per cercare di tenerlo aperto comunque, solo colloqui
personali in cui si poteva accettare o rifiutare una soluzione
alternativa oppure prendere atto di essere stati tagliati fuori. Dei
quattro che lavoravano al sito uno è in pensione, a due sono stati
offerti contratti certo molto miseri ma pur sempre contratti, a me è
stato detto che non c’era alcuna possibilità di contratto. L’unico
vantaggio economico che viene al giornale, quindi, è il taglio del mio
stipendio, solo del mio, a fronte dell’immenso danno di immagine che
comporta la chiusura del sito del manifesto. Se poi mi viene da pensare
che la decisione di chiudere il sito sia stata presa al solo scopo di
eliminare una persona scomoda, praticamente l’unica rimasta del gruppo
dei “dissenzienti” dite che sbaglio? Può darsi, ma io non posso fare a
meno di pensarlo.
A questo bisogna aggiungere un particolare: mi
sono stati tolti i premessi di amministratore della pagina Facebook del
manifesto. Inutile dire che neanche questo è stato oggetto di
discussione, me ne sono accorta da sola, loggandomi alla pagina. Forse
qualcuno ha pensato che potessi abusare dei permessi da amministratore
per farne un uso improprio? Se così è quel qualcuno si sbaglia: non ho
mai pensato di usare gli strumenti che il manifesto mi dava per scopi
personali. Sono una persona seria e non tollero che questo sia messo in
discussione.
Tanto per togliere qualche eventuale dubbio, non ho
voluto scrivere questa lettera per cercare di strappare uno strapuntino,
magari a scapito di qualcun altro. No, cari compagni, la guerra tra
poveri non mi appartiene. La mia è, ancora una volta, una battaglia
politica. Continuo, come faccio ormai da quando abbiamo deciso (tutti
insieme) di mettere in liquidazione la cooperativa, a contestare il
metodo. Ho condiviso l’idea dei Circoli della proprietà collettiva, ho
scritto documenti, ne ho firmati altri, sono intervenuta in assemblea
sempre con la stessa idea in mente: la rifondazione del manifesto non è
un problema sindacale e nemmeno economico. E’ un problema politico e
come tale va trattato.
So per certo che molti non hanno firmato
documenti o ne hanno firmati altri solo temendo di perdere il posto di
lavoro. E’ una preoccupazione comprensibile che ha però inibito la
discussione che dovevamo e potevamo fare sul futuro del manifesto.
Questo modo di procedere con colloqui personali ha fatto il resto:
nessun processo collettivo, nessuna condivisione, ognuno lasciato a
decidere (o a subire) da solo. Per questo o voluto socializzare la mia
esperienza e mi piacerebbe che anche altri lo facessero. Chi ha deciso
di rimanere contento, chi ha deciso di rimanere con molte perplessità,
chi non ha potuto decidere niente, chi ha deciso, più o meno
serenamente, di non voler prendere parte a questa nuova avventura. Mi
piacerebbe. E ora a voi la palla.
Tiziana Ferri
da www.manifestiamo.eu
lunedì 31 dicembre 2012
SI PUO' COSTRUIRE L'ALTERNATIVA
Per coloro che vorrebbero buttare via il bambino con l'acqua sporca: cambiare si può, rivoluzione civile, partiti e società
pubblicata da Donatella Mungo il giorno Lunedì 31 dicembre 2012 alle ore 16.14 ·
Leggo articoli, post, commenti che si incentrano su distinguo, perplessità, dubbi: sull'operazione Ingroia, sul nome nel simbolo, sulla presenza organizzata dei soggetti che dovrebbero confluire nella lista unica, sulla percentuale di alternatività della lista, ecc...
Tutto comprensibile, in alcuni casi le argomentazioni sono addirittura condivisibili. Ci sono difficoltà di percorso che sarebbe stupido e puerile nascondere, come d'altra parte trovo però che sia dannoso enfatizzare.
Io credo però che non possa essere la presenza nelle liste di 4 persone, segretari di partito, ad inficiare un percorso che è solo avviato e che non ha materialmente il tempo, prima delle elezioni, di assumere la forma definitiva che a tutti noi piacerebbe assumesse. Perché c'è bisogno del contributo di tutte/i, senza veti incrociati ma con proposte, senza assumere ogni elemento come discriminante ma focalizzandosi sugli elementi veramente importanti. E perché non ha senso continuare la (supposta) contrapposizione fra partiti e società, fra militanza politica e militanza sociale, fra "intellettuali" e "burocrati", fra le forze organizzate e i movimenti: perché al 90% questa contrapposizione a sinistra non deve esserci. Siamo tutte persone che si spendono per il cambiamento sociale e per ideali comuni, ciascuno nei modi, nelle forme, nei tempi e con gli strumenti che meglio lo rappresentano.
Faccio perciò qualche riflessione, da militante del PRC, ma anche più genericamente da persona di sinistra che pensa che si debba proseguire e portare a compimento questa esperienza, motivo per cui ho votato convintamente SI alla consultazione telematica di Cambiare Si Può sulla prosecuzione del percorso.
1) Ingroia ha accettato per il programma comune tutti i punti votati dall'assemblea di cambiare si può di sabato 1° dicembre, nonché quelli aggiuntivi decisi all'assemblea del 22 dicembre e sottoposti a validazione telematica dagli aderenti; del resto, è stata proprio il gruppo fondatore di Cambiare si può ad invitare Ingroia ad entrambe le assemblee e a dargli la parola
2) I segretari dei partiti non sono gerontocrazia, non necessariamente quantomeno... e vorrei farvi riflettere sul fatto che sono il portato, più o meno rappresentativo e più o meno esteso, di altrettante comunità di donne e uomini che sono appunto le/gli iscritte/i e militanti dei partiti
3) i segretari poi non sono tutti uguali: Di Pietro (IdV) ha 16 anni di parlamento e qualche annetto da Ministro; Diliberto (PdCI) 14 anni di Parlamento e due/tre anni da ministro; Bonelli (Verdi) ha due anni di parlamento: Ferrero (PRC) 30 giorni di Parlamento e due anni da ministro (si è dimesso da parlamentare, anche se non era obbligato a farlo, quando è stato nominato); peraltro, Ferrero è stato l'unico dei segretari che aveva considerato la sua candidatura non obbligatoria se ostativa del percorso, cosa che peraltro mi trovava solo parzialmente d'accordo (e più di così cosa doveva fare o dire?)
4) per il Porcellum è obbligatorio depositare un programma e il nome del candidato premier e per farlo manca una manciata di giorni
5) per superare il 4% occorre prendere circa un milione e mezzo di voti e si vota fra meno di due mesi
6) il tempo stringe, le risorse scarseggiano, i pezzi da comporre molti (unire è più complicato che dividere), l'obiettivo è eleggere una pattuglia di parlamentari di sinistra e alternativi (per condurre quelle battaglie che sennò non combatte nessuno, sperando di veicolarle all'attenzione dell'opinione pubblica): come si vede, abbiamo già sufficienti difficoltà oggettive senza introdurne di soggettive (ho letto commenti come; a me non convinto, non mi ha emozionato, non parlava a me: ma vogliamo per una volta provare a ragionare non come atomi sociali, ma come collettivo, usando un noi che magari è acerbo ma senza il quale non siamo niente?)
7) non dico che tutto vada bene, che tutto sia filato liscio, che non sarebbe stato preferibile lavorare un anno a questo progetto invece che poche settimane, con le feste di natale in mezzo, che non sarebbe stato più attraente e costruttivo se tutta la sinistra fosse alternativa e se tutti i pezzi di oggi avessero lavorato al progetto del quarto polo fin dalla prima ora, ecc.... ma la realtà esiste e non la si può ignorare: non è andata così e le responsabilità, per quanto non siano uguali per tutte/i, vanno ora condivise e superate.
8) sempre meglio parlare di mafia, anzi di antimafia, di connivenze fra mafia e stato, di corruzione finalizzata al disfacimento della giustizia anche sociale, che sempre e solo di casta, di mal di pancia, di vaffanculo, di dita che indicano la luna e di sterili conflitti fra vecchi e giovani (nel quale una come me, che ha 46 anni, non sa più dove collocarsi)... dopodiché è chiaro che non basta e infatti Ingroia in quel senso si mette a disposizione di una programma che è ben più ampio, davvero alternativo e che si qualifica sui nodi importanti: il no al fiscal compcact, al pareggio di bilancio e al consegunte massacro sociale; sì all'intervento publbico in economia, alla salvaguardia dell'occupazione e dei salari, dei diritti e delle conquiste nel campo del lacoro; no allo smantellamento della sanità pubblica, della scuola pubblica, del welfare, della cultura; sì al recupero delle spese militari e di quelle per le grandi opere, dannose e inutili (No Tav, Ponte sullo stretto, ecc...), per finanziare e potenziare lo stato sociale; sì al coniugare i diritti sociali con quelli individuali; no ai fascismi e razzismi vecchi e nuovi; e potrei continuare.
9) ci è data questa occasione, la dobbiamo cogliere al volo e non sprecarla: avremo tempo, dopo il 25 febbraio, di costruire cose più solide, più soddisfacenti e più utili; vedremo però chi sarà disposto, anche il giorno dopo, a rimboccarsi le maniche per farlo... perché di questo si tratta: di tanta fatica, di tanto lavoro quotidiano e e di lunga lena, di presenza in mezzo alla gente, di partecipazione attiva.
Le elezioni sono solo un passaggio certo importante, uno strumento necessario per arrivare alle orecchie, al cuore, alla testa di quella gente con la quale abbiamo perso i contatti o non li abbiamo mai avuti.
Non minimizziamone la portata, ma non carichiamole di un significato da "fine del mondo". Il mondo continua, le lotte anche,
Io sono più a sinistra di io
di Dimitrij Palagi
A marzo del 2011 Ginsborg e altri lanciavano la “Cooperativa politica”, progetto che guardava a Vendola.
Il PdCI ha rivendicato una non ben chiara “mossa Kansas City”,
citando con dubbio gusto uno dei peggiori film con Bruce Willis, dopo
aver dato indicazioni di voto alle primarie e aver sottoscritto quindi
la carta di intenti.
Delle Fabbriche di Nichi non si sente più parlare, così come Tilt! non appare particolarmente valorizzata dalle scelte del gruppo dirigente di SEL, ad oggi accodato al leader di Italia Bene Comune, Bersani, pronto a dichiarare che non ha nessuna intenzione di “rinegoziare il fiscal compact né nessuno degli accordi raggiunti nell’ultimo anno”.
Il sogno di Fassina è spostare Monti e i moderati sulle posizioni della
Camusso, che in Cgil si ritrova in equilibrio tra anime diverse e
completamente isolate rispetto alla politica parlamentare.
Sinistra Critica non si presenterà alle elezioni e valuterà se sostenere la lista di Ingroia.
Il Partito dei Comunisti Lavoratori porta avanti la sua via al socialismo, incurante delle critiche che muove il Partito di Alternativa Comunista.
Nel frattempo la società civile rivendica il suo primato sulla politica. Lo fa con Monti e a sinistra del PD ma è innegabile come l’antipartitismo segni trasversalmente molte proposte elettorali, trasversalmente collocate (dal ricambio leghista al colpo di reni di CasaPound).
Cosa sia poi questa società civile è
ancora da capire. L’alternativa alla società della barbarie, quindi
un’élite di nobili cittadini? L’alternativa ai partiti, quindi nel suo
insieme la comunità di cittadini non iscritti ai partiti, comunque
elettoralmente collocati?
Rifondazione ha mille limiti, però non
sembrano esistere geniali progetti alternativi. I balocchi della
sinistra si stanno consumando e spazio ne resta poco. Umiltà e senso di appartenenza a un progetto che provi a tutelare gli interessi dei lavoratori potrebbero far miracoli.
La lista Ingroia ha ugualmente mille
limiti, tutti giustamente fatti notare da chi non condivide la scelta di
questo tentativo. Però a sinistra se si inizia a problematizzare non si
salva molto.
Giovani che entrano in politica a
migliaia non li ha nessuno, né le forme classiche dei partiti né i
numerosi tentativi di forme diverse. I protagonisti restano quasi sempre gli stessi.
Insistentemente e ossessivamente torno a
scrivere che sarebbe molto meglio ragionare di obbiettivi concreti e
immediati su cui costruire unità, accettando l’idea che non esistono
strade già percorse o intraprese che portano al “successo”. Le offese e la propaganda tra anime della sinistra aiutano tutti, meno che noi.
Il vero problema è il fisco di Domenico Moro, Pubblico giornale
Il debito pubblico sarà al centro del
dibattito per tutta la durata della campagna elettorale. Le soluzioni,
quasi sempre, si riducono al taglio della spesa pubblica. Per l’agenda
Monti questa è l’unica strada per ridurre i tassi d’interesse sul debito
e le tasse. Recentemente su La7, Oscar Giannino, uno dei nuovi politici
“saliti” in campo, ha riaffermato la solita vulgata che si spende
troppo e che la colpa è della “casta” dei politici.
Peccato che la spesa pubblica italiana, al netto dei tassi d’interesse e compresi gli sprechi e le mazzette della casta, è sempre risultata più bassa di quella media dell ’eurozona e di molti paesi che hanno beneficiato di bassi tassi
Peccato che la spesa pubblica italiana, al netto dei tassi d’interesse e compresi gli sprechi e le mazzette della casta, è sempre risultata più bassa di quella media dell ’eurozona e di molti paesi che hanno beneficiato di bassi tassi
d’interesse. Nel 2011, ad esempio,
allorché l’Italia vide l’impennata dei tassi d’interesse e dello spread,
la spesa pubblica corrispondeva al 45,1% del Pil, mentre quella dell
’eurozona, con l’esclusione dell ’Italia, era del 46,7%. Quella della
Finlandia, uno dei Paesi più accaniti contro i Pigs, raggiungeva il
53,4% uguale a quella della Francia, un altro Paese con tassi
d’interesse molto più bassi dei nostri.
A chi dice che il problema sta nella massa del debito accumulato negli anni 80, durante i quali il debito passò dal 57,7% al 98%, si può rispondere che anche in questo periodo la spesa era inferiore.
Tra 1983 e 1990 la spesa media italiana fu del 43% mentre in quella che è l’eurozona di oggi fu del 45,8%. Ancora maggiore fu la differenza negli anni ’90. Negli anni 2000 il divario si ridusse, ma la spesa italiana rimase comunque sempre inferiore. La crescita del debito non deriva dalla spesa per la sanità, la scuola, le pensioni, ma da altri fattori. In parte più piccola deriva dall’inadeguatezza del nostro sistema fiscale, che attraverso la perdita di progressività delle imposte dirette ed evasione ed elusione, favorì imprese e più ricchi.
La pressione fiscale tra 1983 e 1990 si mantenne in Italia al di sotto del 40%, mentre nell’eurozona fu sempre superiore al 42%. Ma la principale ragione della crescita del debito complessivo sta nell ’aumento progressivo della spesa per interessi, a fermare la quale non sono valsi né l’aumento successivo della pressione fiscale al di sopra dei livelli medi europei né le politiche di taglio della spesa pubblica. Infatti, la spesa italiana in interessi sul debito passa dal 5,1% sul Pil nel 1980, al 7,4% nell ’83, per arrivare al 9,5% nel 1990 e al 12,1% nel 1993. L’area euro, invece, nel 1980 pagava il 2,1%, nel 1983 il 3,3%, nel 1990 il 3,6%, e nel 1993 il 4,2%, cioè poco meno di un terzo dell’Italia.
La ragione sta nel cosiddetto divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro del 1981, a causa del quale la Banca d’Italia non fu più tenuta ad acquistare titoli di stato italiani per tenere sotto controllo i tassi d’i nteresse.
Tale decisione, presa dal ministro Andreatta d’accordo con Ciampi, allora governatore della Banca d’Italia, fu giustificata con l’intenzione di ridurre l’alto tasso d’inflazione, che, secondo loro, dipendeva dalla liquidità immessa nel sistema economico con gli acquisti di titoli. L’importanza del ruolo delle banche centrali sul livello dei tassi d’interesse è confermato oggi dal fatto che la riduzione dei tassi d’interesse odierni va imputata ad un maggiore attivismo della Bce invece che alle politiche restrittive di Monti. I tassi, che dopo il decreto Salva Italia erano risaliti, sono calati solo ad agosto solo l’intervento di Draghi. Tuttavia, l’Italia continua a pagare tassi sui titoli a 10 anni del 4,4%, mentre altri paesi europei, che hanno fondamentali peggiori, come la Francia, pagano appena il 2%. Gli Usa pagano appena l’1,83% e il Giappone addirittura lo 0,76%, meno della stessa Germania che paga l’1,43%.
Eppure gli Usa hanno un debito oltre il 100%, un deficit al 7% e una bilancia dei conti correnti negli ultimi dodici mesi in rosso per 478 miliardi, una enormità, mentre il Giappone ha un debito al 220%, da far impallidire quello italiano. Come è possibile? La ragione è duplice. Primo, in questi paesi la quota del debito detenuta all ’estero è del 38% del Pil negli Usa e del 18% in Giappone., mentre nell’eurozona si va dal 96% della Grecia, al 58% della Francia, al 51% della Germania, al 46% dell ’Italia. Secondo, in questi paesi la Banca centrale interviene con l’acquisto di titoli di stato per tenere bassi gli interessi. Tra 2007 e 2011 la Fed ha raddoppiato i titoli in suo possesso, mentre la BoJ tra 2009 e 2012 è passata dal 7,4% al 10,2% del debito statale. Questo non ha provocato spinte inflattive, anzi in Giappone nel 2012 i prezzi sono calati dello 0,1% e negli Usa sono aumentati del 2,2%, a fronte di un aumento nell’area euro del 2,5%. Con l’ulteriore differenza che in Europa il tasso di disoccupazione è schizzato all ’11,7%, mentre negli Usa è al 7% e in Giappone al 4,2%. La soluzione al debito non passa per le politiche di taglio alla spesa pubblica, ma per la reinternalizzazione del debito e soprattutto per l’abolizione del divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia. Solo la riduzione della dipendenza dai mercati finanziari internazionali e la possibilità della Banca centrale europea e italiana di acquistare debito statale può controllare mercati che per loro natura cambiano repentinamente e violentemente.
Del resto, la Bundesbank, a differenza della Banca d’Italia e in contrasto con quanto predica, interviene più o meno regolarmente nelle aste debito tedesco, comprando i titoli invenduti e contribuendo a mantenerne bassi i tassi d’interesse
A chi dice che il problema sta nella massa del debito accumulato negli anni 80, durante i quali il debito passò dal 57,7% al 98%, si può rispondere che anche in questo periodo la spesa era inferiore.
Tra 1983 e 1990 la spesa media italiana fu del 43% mentre in quella che è l’eurozona di oggi fu del 45,8%. Ancora maggiore fu la differenza negli anni ’90. Negli anni 2000 il divario si ridusse, ma la spesa italiana rimase comunque sempre inferiore. La crescita del debito non deriva dalla spesa per la sanità, la scuola, le pensioni, ma da altri fattori. In parte più piccola deriva dall’inadeguatezza del nostro sistema fiscale, che attraverso la perdita di progressività delle imposte dirette ed evasione ed elusione, favorì imprese e più ricchi.
La pressione fiscale tra 1983 e 1990 si mantenne in Italia al di sotto del 40%, mentre nell’eurozona fu sempre superiore al 42%. Ma la principale ragione della crescita del debito complessivo sta nell ’aumento progressivo della spesa per interessi, a fermare la quale non sono valsi né l’aumento successivo della pressione fiscale al di sopra dei livelli medi europei né le politiche di taglio della spesa pubblica. Infatti, la spesa italiana in interessi sul debito passa dal 5,1% sul Pil nel 1980, al 7,4% nell ’83, per arrivare al 9,5% nel 1990 e al 12,1% nel 1993. L’area euro, invece, nel 1980 pagava il 2,1%, nel 1983 il 3,3%, nel 1990 il 3,6%, e nel 1993 il 4,2%, cioè poco meno di un terzo dell’Italia.
La ragione sta nel cosiddetto divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro del 1981, a causa del quale la Banca d’Italia non fu più tenuta ad acquistare titoli di stato italiani per tenere sotto controllo i tassi d’i nteresse.
Tale decisione, presa dal ministro Andreatta d’accordo con Ciampi, allora governatore della Banca d’Italia, fu giustificata con l’intenzione di ridurre l’alto tasso d’inflazione, che, secondo loro, dipendeva dalla liquidità immessa nel sistema economico con gli acquisti di titoli. L’importanza del ruolo delle banche centrali sul livello dei tassi d’interesse è confermato oggi dal fatto che la riduzione dei tassi d’interesse odierni va imputata ad un maggiore attivismo della Bce invece che alle politiche restrittive di Monti. I tassi, che dopo il decreto Salva Italia erano risaliti, sono calati solo ad agosto solo l’intervento di Draghi. Tuttavia, l’Italia continua a pagare tassi sui titoli a 10 anni del 4,4%, mentre altri paesi europei, che hanno fondamentali peggiori, come la Francia, pagano appena il 2%. Gli Usa pagano appena l’1,83% e il Giappone addirittura lo 0,76%, meno della stessa Germania che paga l’1,43%.
Eppure gli Usa hanno un debito oltre il 100%, un deficit al 7% e una bilancia dei conti correnti negli ultimi dodici mesi in rosso per 478 miliardi, una enormità, mentre il Giappone ha un debito al 220%, da far impallidire quello italiano. Come è possibile? La ragione è duplice. Primo, in questi paesi la quota del debito detenuta all ’estero è del 38% del Pil negli Usa e del 18% in Giappone., mentre nell’eurozona si va dal 96% della Grecia, al 58% della Francia, al 51% della Germania, al 46% dell ’Italia. Secondo, in questi paesi la Banca centrale interviene con l’acquisto di titoli di stato per tenere bassi gli interessi. Tra 2007 e 2011 la Fed ha raddoppiato i titoli in suo possesso, mentre la BoJ tra 2009 e 2012 è passata dal 7,4% al 10,2% del debito statale. Questo non ha provocato spinte inflattive, anzi in Giappone nel 2012 i prezzi sono calati dello 0,1% e negli Usa sono aumentati del 2,2%, a fronte di un aumento nell’area euro del 2,5%. Con l’ulteriore differenza che in Europa il tasso di disoccupazione è schizzato all ’11,7%, mentre negli Usa è al 7% e in Giappone al 4,2%. La soluzione al debito non passa per le politiche di taglio alla spesa pubblica, ma per la reinternalizzazione del debito e soprattutto per l’abolizione del divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia. Solo la riduzione della dipendenza dai mercati finanziari internazionali e la possibilità della Banca centrale europea e italiana di acquistare debito statale può controllare mercati che per loro natura cambiano repentinamente e violentemente.
Del resto, la Bundesbank, a differenza della Banca d’Italia e in contrasto con quanto predica, interviene più o meno regolarmente nelle aste debito tedesco, comprando i titoli invenduti e contribuendo a mantenerne bassi i tassi d’interesse
Italia: Una campagna elettorale costituente di Roberto Musacchio, www.cambiailmondo.org
Come
accadde nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, anche questa
campagna elettorale ha tutte le caratteristiche per essere una sorta di
vera e propria Costituente di quella che possiamo definire la Terza
Repubblica o la Prima dell’era dell’Europa post compromesso
sociale. Allora fu Berlusconi a cambiare le carte in tavola e a
costruire apparentemente in poco tempo, ma in realtà con materiali
accumulati nel tempo, quella forza che ha caratterizzato il cosiddetto
bipolarismo italiano. Ora è Monti che prova a sparigliare ma,
probabilmente, non riuscirà nella stessa impresa che vide il Cavaliere
divenire il più votato nel giro di una sola competizione alle urne.
In realtà infatti la mossa più
significativa in questo avvio di posizionamento l’ha fatta Bersani. E
l’ha fatta non a caso proprio sul terreno della collocazione europea che
e’ il vero dominus. Prima ha posto al centro della carta d’intenti
delle primarie l’accettazione dei Trattati, e cioe’ del Fiscal Compact,
chiedendo addirittura una sottoscrizione popolare e plebiscitaria del
vincolo esterno. Poi si e’ espresso in varie interviste alla stampa
estera a sottolineare questa natura della sua coalizione di governo.
Ma poi con l’intervista al Financial
Times ha fatto un ulteriore salto di qualità schierandosi sul punto più
caldo delle decisioni da assumere in Europa e cioè la realizzazione del
super commissario al controllo dei bilanci nazionali. Bersani si e’
detto d’accordo e cosi’ facendo ha immesso un nuovo tassello, decisivo,
nel suo profilo. La proposta del super commissario era stata infatti
avanzata da un ministro della Merkel, il super conservatore Schauble.
Aveva preso in contropiede il Presidente francese Hollande che aveva
lanciato un’offensiva mediatica, con interviste rilasciate a 5 grandi
giornali europei, per rilanciare la proposta classica dei socialisti
europei di una più forte integrazione dei Paesi dell’area euro.
Schauble aveva parlato in Parlamento
tedesco per dire che si ci vuole più integrazione ma che questa si fa a
partire da una maggiore rigidità sulle politiche di austerità che vanno
imposte con il super commissario con potere di veto sui bilanci
nazionali. Si era creata anche un poco di suspense sulla copertura da
parte della Merkel di tale proposta. Poi era arrivata la investitura
solenne della Cancelliera e ad Hollande non era rimasta che la strada di
una precipitosa ritirata di fatto bloccando al Consiglio Europeo la
proposta tedesca.
Proposta tedesca che invece riceveva
l’avallo della Spd e che ora ottiene il via libera di Bersani. Questa
mossa, solo apparentemente specialistica, in realtà la dice lunga su
quale sia lo stato dell’arte del socialismo europeo oggi e cioè quello
di una generale subalternità al quadro dominante in Europa e per giunta
con divisioni profonde in base alle collocazioni nazionali. E dice che
la coalizione del PD sceglie di stare dentro il quadro tedesco.
Stare dentro il quadro tedesco significa
in realtà optare per quella che in Germania e’ nei fatti una grande
coalizione sostanziale e, a volte, anche formale come potrebbe
realizzarsi nuovamente dopo le prossime elezioni tra Cdu e Spd.
Significa puntare su una cointeressenza dei due Paesi ad una comune
evoluzione dell’Europa fin qui clamorosamente smentita da tutte le
scelte delle classi dirigenti di quel Paese che sono uno degli
architravi dell’attuale Europa monetaristica e tecnocratica.
Pensare poi di trasferire la cosiddetta
concertazione germanica in Italia vuol dire da un lato non vedere come
essa sia ormai trasformata in un vero patto corporativo ai danni dei più
deboli, in Europa e in Germania stessa. E dall’altro non vedere che la
struttura produttiva e sociale italiana, a partire dall’enorme
differenza di grandezza media delle imprese, non consente aggiustamenti
concertativi e settoriali se non con la perdita di quei capisaldi
contrattuali che hanno consentito le conquiste sociali nel nostro Paese.
Per giunta pensare che si potranno
accrescere le dimensioni produttive nel nostro Paese a valle della vera e
propria guerra mercantilistica in corso in Europa, con lo strapotere
del capitale finanziario e le politiche di austerità imposta e’ pura
velleità.
Sta di fatto pero’ che la determinazione
con cui il PD ha scelto la real politik europea, accompagnando cioè la
nostra integrazione subalterna nell’attuale quadro di dominio, compresa
la dominanza tedesca, e’ la carta che gli fa occupare con forza la pole
position verso il governo. Del resto anche la bocciatura della super
tassa, oltre al crollo del consenso, dicono che l’esempio di Hollande va
bene per i comizi ma non per governare.
In realtà, a valle della austerità, lo
spazio per politiche cosiddette eque e’ sostanzialmente pura
declamazione, questa e’ la dura verità. E qui arriva Monti e la sua
agenda. Che poi altro non e’ che l’adattamento italiano di quelle cose
che l’allora Commissario Europeo alla concorrenza scrisse nel suo Libro
Verde sulla riforma del welfare. E cioè sulla fuoriuscita da quel
modello sociale europeo che Mario Draghi ha detto essere il vero
obiettivo delle politiche di austerità. Diciamo insomma che tra il PD e
Monti c’è una divisione dei ruoli. Il PD indica la collocazione generale
del Governo futuro e Monti esplicita le conseguenze sociali di quella
collocazione. Come in tutta Europa poi c’ e’ una sorta di competizione
nella rappresentanza di questa politica ma dentro una sostanziale grande
coalizione politica, che poi spesso e’ l’altra faccia del piccolo
consenso sociale.
La novità italiana di questa fase è che
il dispiegarsi di essa sta disarticolando il vecchio bipolarismo e
ridefinendo una sorta di multipolarismo nuovo. La cosa che per altro
colpisce è che il partito più tedesco, il PD, prenda tutto dalla
Germania ma non abbia voluto prendere il sistema elettorale. Il che la
dice lunga sulla fragilità che in realtà il PD avverte per la sua
politica e che lo porta a scelte di autotrinceramento, di contrasto alla
complessità.
In fondo se non c’e più il
centrosinistra, sostituito dalla coalizione PD, e’ anche perché
l’autorevolezza, o l’autoritarismo, del quadro di comando e’ il
connotato decisivo che il PD propone di sé per essere scelto a
governare. E infatti il principio di scelta a maggioranza stravolge
qualsiasi idea di coalizione, che era stata fondativa del
centrosinistra.
Ma non si accede neanche al
riconoscimento del multipolarismo, che ad esempio in Germania c’e’ con
l’esistenza di Linke e Gruenen, perché nei fatti ritenuto una sorta di
lusso che i tedeschi si possono permettere ma l’Italia no. Dunque, per
quel che si può, subordinazione o resa all’impotenza.
D’altro canto però la ri-articolazione
multipolare avviene sul lato delle forze conservatrici, con una parte di
borghesia, quella berlusconiana da un verso e quella leghista da
un’altro, che provano a resistere al nuovo ordine. Mentre le forze
cattoliche del centro montiano lo reinterpretano secondo la propria
filiera di sussidiarismo familistico e confessionale sostitutivo del
welfare.
Sta di fatto che questo processo di
rottura del bipolarismo della Seconda Repubblica è diventato un elemento
reale dentro il quadro di imposizione di dominio che discende dalla
fase europea. Ed apre una fase nuova anche a sinistra. Quando poco più
di un anno fa il gruppo di intellettuali che lanciava il soggetto
politico nuovo collocava la sua riflessione sul bisogno di una
democrazia di cittadinanza nel contesto di una critica radicale di
questa Europa e dei due poli che la sostenevano, erano in pochi a
pensare che si sarebbe potuta riaprire la possibilità di una
collocazione autonoma dal PD una volta che Sel si consegnava alla
coalizione da esso disegnata.
Sta di fatto che ciò invece si e’
determinato. Ed e’ una cosa comunque importante. Naturalmente nel mentre
vedo realizzarsi uno scenario che avevo immaginato, sono molto colpito
dalle contraddizioni che si aprono, e che rischiano di penalizzarci
fortemente nella qualità delle soggettività che quello spazio potrebbero
far vivere. Contraddizioni da parte di chi forse ancora non ha maturato
bene il perché la strada su cui aveva puntato, e cioè l’iscriversi alla
coalizione del PD come se fosse ancora il vecchio centrosinistra, al
punto da partecipare a quelle primarie che, purtroppo, avallavano il
Fiscal Compact, si è dimostrata velleitaria e magari pensa ancora che
ciò che stiamo vivendo sia transitorio o tattico. E contraddizioni da
chi non coglie come la rigenerazione democratica e civica sia un
elemento decisivo della ricostruzione di una nuova soggettività
antagonista.
Antagonista a questo ordine europeo ma
anche a questo ordine italiano che ha visto poteri e nomenclature
traghettarsi dalla Prima alla Terza Repubblica rendendosi disponibili a
rompere i compromessi sociali progressivi assai più che i patti
scellerati che hanno gravato e gravano sulla nostra storia. Per questo
il terreno di costruzione di Rivoluzione Civile mi era apparso
praticabile nel complesso dei suoi apporti. A patto di metterci uno
spirito costituente adeguato alla fase che viviamo.
Ciò che sta accadendo mi parla appunto
di contraddizioni che possono ridurre, anche molto, la portata del
progetto. Ma io vorrei che le affrontassimo con onestà intellettuale e
senso di responsabilità, provando a fare il meglio ma evitando di
gettare il tutto, magari anche con passi indietro che dicano che non
siamo di fronte a quello che volevamo, ma provando a guardare comunque
al futuro. Cioè quello che non abbiamo fatto con quella Sinistra
Arcobaleno che a volte mi fa ormai pensare a Malussen, il capro
espiatorio dei libri di Pennac.
Siamo tornati ad essere diversi di Marco Sferini, lasinistraquotidiana
Si chiude dunque un anno tormentato
dalle peggiori politiche antisociali che si siano viste in questi ultimi
decenni. Un anno che è stato mostrato come il lavacro purificatore
dalla crisi economica che ha investito anche l’Italia e che, senza il
salvifico intervento del governo di Mario Monti, sarebbe divenuta un
blob che avrebbe ingoiato tutto e tutti. Ancora una volta si è ricorso
al terrorismo come elemento di elevazione della paura della gente comune
per il proprio futuro in una necessaria speranza affidata ai proconsoli
della Banca Centrale Europea e del mercato internazionale. Il governo
Monti ha cancellato quello che rimaneva degli ultimi diritti dei
lavoratori, a partire dall’articolo 18 sulla giusta
causa in merito ai licenziamenti; ha
preventivato anche per lo Stivale la mannaia del fiscal compact imposto
dall’Unione Europea; ha distrutto il sistema pensionistico e ha
aumentato l’Iva, spacciado spudoratamente questa ultima misura come equa
poichè distribuita su tutta la popolazione.
Diceva Don Lorenzo Milani, prima ancora di noi comunisti, che “fare parti uguali fra diseguali” è la cosa più ingiusta che possa esservi. Quanto peserà l’aumento dell’Iva sulle tasche di un lavoratore e, parimenti, su quelle di un padrone? Basta questo per dimostrare che il governo Monti ha seguito la linea che doveva seguire, per la quale è stato incaricato di sedere a palazzo Chigi e per il quale oggi, con una manovra di rimescolamento delle carte nel centro liberale e cattolico, con tutta la benedizione vaticana, punta alla competizione elettorale in arrivo velocemente a febbraio.
La “salita in politica” dell’attuale dimissionario presidente del Consiglio ha giustamente impensierito quel centrosinistra bersaniano che, dopo le primarie di novembre, pensava di avere la vittoria in tasca e ha anche ridimensionato (e molto) il ruolo di disperazione politica di Silvio Berlusconi che, nonostante le comparsate in televisione su mille canali, non può fare a meno che tentare ancora una volta la trita e ritrita sinfonia del pericolo della sinistra, dei comunisti e attribuirsi ovviamente qualche complotto ai propri danni. Fare del vittimismo colpisce l’immaginario sedimentato in una abitudinarietà logorante in questi ultimi vent’anni di vita sociale e politica del Paese.
La vera rivoluzione per questo arco di forze che hanno sostenuto Monti in questo 2012, è proprio Mario Monti. Bersani e Berlusconi sembrano gabbati dal santo questa volta. Pensavano forse di poterlo utilizzare come ministro in un governo (certamente questo progetto era stato studiato in casa PD), ma il professore bocconiano ha battuto tutti sul tempo e, dopo qualche tentennamento, ha scelto: non corre di persona, fa il capo della coalizione “Agenda Monti per l’Italia” (così battezzata provvisoriamente) e nei sondaggi viene accreditato d’un colpo al 20% dei consensi.
Non male per il portavoce degli interessi della borghesia italiana rappresentati da Luca Cordero di Montezemolo, da alcuni ministri che lo seguiranno nell’avventura elettorale e, certamente, vale la salvezza, per quelle forze come l’UdC di Casini e FLI di Fini che altrimenti avrebbero conseguito un risultato non così importante se non inserito in un più ampio contesto di forze liberiste e centriste.
Anche il Vaticano ha abbandonato sia centrodestra di vecchio modello e centrosinistra bersaniano. Oltre Tevere hanno scelto: Monti, sempre Monti, fortissimamente Monti. Insomma, schierata la Chiesa cattolica è come avere metà della vittoria già in tasca.
In questo scenario confuso ma che comincia comunque a delinearsi, è evidente che il centrosinistra di Bersani non farà opposizione: punta a vincere, ma difficilmente potrà riuscirci. E allora, dopo il voto di febbraio, con tutta probabilità accadrà che PD e Agenda Monti si parleranno e verranno ad un accordo per il governo del Paese: il tutto in perfetta continuità con le politiche cui abbiamo assistito in questo ultimo anno che si chiude in queste ore.
E a sinistra? La lista lanciata da Antonio Ingroia, “Rivoluzione Civile”, sta prendendo corpo: Italia dei Valori, Rifondazione Comunista, Verdi, Comunisti Italiani, Movimento arancione di de Magistris. Tutti insieme per rappresentare una alternativa tanto a questo schieramento liberista e montiano quanto al classico centrodestra dai tratti ora demagogici, ora populisti.
Rivoluzione Civile rappresenta un luogo della politica che rifiuta qualunque compromesso con l’agenda Monti, che si schiera tanto contro la TAV quanto contro il fiscal compact. Potremmo definirla una lista anti-liberista, visto che ci troviamo intorno a forze politiche che del liberismo più o meno moderato fanno il loro asse portante.
Rivoluzione Civile entrerà in Parlamento perché deve rappresentare la sinistra unita tra comunisti, ecologisti, società civile diffusa, comitati, associazioni no-profit, movimenti che sui territori si battono contro le speculazioni, le mafie e tutto quello che corrode il tessuto democratico e costituzionale.
Penso che possiamo dire di farne parte davvero con grande dignità, orgoglio e passione. Di sicuro, siamo tornati ad essere “diversi”. Diversi da tutte le altre forze politiche, perché non accettiamo il punto di vista del mercato su tutto ciò che ci viene avanti mostrato e proposto.
Lasciamo al centrosinistra e al centrodestra di baloccarsi col montismo, a Monti di svolgere il suo ruolo di classe, a Grillo di urlare alla luna e di provare sedurre la gente con le battute xenofobe sui migranti, portandosi ai livelli della Lega del fu leader Umberto Bossi.
Rivoluzione Civile ha come simbolo il “Quarto Stato” di Pelizza da Volpedo: quel proletariato che cammina, avanza nella sua marcia di conquista dei diritti sociali e civili. C’è posto accanto a tutti noi: uniamoci, unitevi all’impresa, alla lotta. Di cammino ce n’è parecchio da fare.
Diceva Don Lorenzo Milani, prima ancora di noi comunisti, che “fare parti uguali fra diseguali” è la cosa più ingiusta che possa esservi. Quanto peserà l’aumento dell’Iva sulle tasche di un lavoratore e, parimenti, su quelle di un padrone? Basta questo per dimostrare che il governo Monti ha seguito la linea che doveva seguire, per la quale è stato incaricato di sedere a palazzo Chigi e per il quale oggi, con una manovra di rimescolamento delle carte nel centro liberale e cattolico, con tutta la benedizione vaticana, punta alla competizione elettorale in arrivo velocemente a febbraio.
La “salita in politica” dell’attuale dimissionario presidente del Consiglio ha giustamente impensierito quel centrosinistra bersaniano che, dopo le primarie di novembre, pensava di avere la vittoria in tasca e ha anche ridimensionato (e molto) il ruolo di disperazione politica di Silvio Berlusconi che, nonostante le comparsate in televisione su mille canali, non può fare a meno che tentare ancora una volta la trita e ritrita sinfonia del pericolo della sinistra, dei comunisti e attribuirsi ovviamente qualche complotto ai propri danni. Fare del vittimismo colpisce l’immaginario sedimentato in una abitudinarietà logorante in questi ultimi vent’anni di vita sociale e politica del Paese.
La vera rivoluzione per questo arco di forze che hanno sostenuto Monti in questo 2012, è proprio Mario Monti. Bersani e Berlusconi sembrano gabbati dal santo questa volta. Pensavano forse di poterlo utilizzare come ministro in un governo (certamente questo progetto era stato studiato in casa PD), ma il professore bocconiano ha battuto tutti sul tempo e, dopo qualche tentennamento, ha scelto: non corre di persona, fa il capo della coalizione “Agenda Monti per l’Italia” (così battezzata provvisoriamente) e nei sondaggi viene accreditato d’un colpo al 20% dei consensi.
Non male per il portavoce degli interessi della borghesia italiana rappresentati da Luca Cordero di Montezemolo, da alcuni ministri che lo seguiranno nell’avventura elettorale e, certamente, vale la salvezza, per quelle forze come l’UdC di Casini e FLI di Fini che altrimenti avrebbero conseguito un risultato non così importante se non inserito in un più ampio contesto di forze liberiste e centriste.
Anche il Vaticano ha abbandonato sia centrodestra di vecchio modello e centrosinistra bersaniano. Oltre Tevere hanno scelto: Monti, sempre Monti, fortissimamente Monti. Insomma, schierata la Chiesa cattolica è come avere metà della vittoria già in tasca.
In questo scenario confuso ma che comincia comunque a delinearsi, è evidente che il centrosinistra di Bersani non farà opposizione: punta a vincere, ma difficilmente potrà riuscirci. E allora, dopo il voto di febbraio, con tutta probabilità accadrà che PD e Agenda Monti si parleranno e verranno ad un accordo per il governo del Paese: il tutto in perfetta continuità con le politiche cui abbiamo assistito in questo ultimo anno che si chiude in queste ore.
E a sinistra? La lista lanciata da Antonio Ingroia, “Rivoluzione Civile”, sta prendendo corpo: Italia dei Valori, Rifondazione Comunista, Verdi, Comunisti Italiani, Movimento arancione di de Magistris. Tutti insieme per rappresentare una alternativa tanto a questo schieramento liberista e montiano quanto al classico centrodestra dai tratti ora demagogici, ora populisti.
Rivoluzione Civile rappresenta un luogo della politica che rifiuta qualunque compromesso con l’agenda Monti, che si schiera tanto contro la TAV quanto contro il fiscal compact. Potremmo definirla una lista anti-liberista, visto che ci troviamo intorno a forze politiche che del liberismo più o meno moderato fanno il loro asse portante.
Rivoluzione Civile entrerà in Parlamento perché deve rappresentare la sinistra unita tra comunisti, ecologisti, società civile diffusa, comitati, associazioni no-profit, movimenti che sui territori si battono contro le speculazioni, le mafie e tutto quello che corrode il tessuto democratico e costituzionale.
Penso che possiamo dire di farne parte davvero con grande dignità, orgoglio e passione. Di sicuro, siamo tornati ad essere “diversi”. Diversi da tutte le altre forze politiche, perché non accettiamo il punto di vista del mercato su tutto ciò che ci viene avanti mostrato e proposto.
Lasciamo al centrosinistra e al centrodestra di baloccarsi col montismo, a Monti di svolgere il suo ruolo di classe, a Grillo di urlare alla luna e di provare sedurre la gente con le battute xenofobe sui migranti, portandosi ai livelli della Lega del fu leader Umberto Bossi.
Rivoluzione Civile ha come simbolo il “Quarto Stato” di Pelizza da Volpedo: quel proletariato che cammina, avanza nella sua marcia di conquista dei diritti sociali e civili. C’è posto accanto a tutti noi: uniamoci, unitevi all’impresa, alla lotta. Di cammino ce n’è parecchio da fare.
domenica 30 dicembre 2012
Cambiare. Si fa!
Negli ultimi giorni la politica italiana
è stata scombussolata da una serie di eventi che necessitano di una
riflessione analitica prima e di una pratica poi per poter meglio fare
delle scelte.
1) E’ stato definitivamente approvato il provvedimento della procedura di modifica della Costituzione. Vengono, infatti, modificati quattro articoli – 81, 97, 117 e 119 – e si introduce il principio del pareggio di bilancio.
Tale principio vale per tutti i livelli dello stato. Questo comporterà
che gli organi dello stato non potranno fare spese se non dentro questo
principio vincolante. L’effetto più drammatico di questa modifica
costituzionale è che le spese che riguardano le politiche sociali, la
sanità e più in generale il welfare subiranno una netta contrazione. E’
facile prevedere che nel contesto di crisi occupazionale e di
contrazione dei salari, fase iniziata con il governo Berlusconi e
rafforzata a dismisura con il Governo Monti, questa scelta produrrà
effetti sociali devastanti in tutto il paese. Un esempio di questo si è
già visto con il taglio dei fondi per i malati di SLA. L’approvazione
del pareggio di bilancio in costituzione unito all’approvazione del
c.d. Fiscal Compact sono i cardini del nuovo indirizzo economico
dell’Europa. La stragrande maggioranza dei partiti presenti in
parlamento, compreso il PD, ha votato a favore sia del fiscal compact
che della modifica costiuzionale. Il fiscal compact non è altro che un dispositivo, inteso nell’accezione foucaltiana di apparato, che impone il taglio di 45 mld di euro annui per i prossimi venti anni. Questo dispositivo porta con sé un vero e proprio modello sociale che si fonda sul principio dello stato di natura
di Hobbes, cioè un luogo senza mediazioni e senza legge dove non ci
sono più garanzie per nessuno e i servizi e gli stessi salari saranno
erogati fino a quando non si arriva al limite del pareggio di
bilancio. http://documenti.camera.it/leg16/dossier/Testi/ac0691e.htm#dossierList
2) E’ finito il Governo “tecnico”
di Mario Monti che ha visto applicare i principi citati e che alla
bisogna si è caratterizzato anche per i manganelli tecnici contro
studenti e operai in lotta e che ha funzionato da collante ideologico
per le forze moderate per sponsorizzare il modello economico europeo.
Non è un caso che in alcune fasi Monti ha ricevuto proposte di
candidature praticamente da tutti, PD compreso.
3) Il quadro politico si è definito
in maniera più netta e precisa: il Pd insieme a SEL e a pezzi di ex
democristiani come Tabacci e a quel che rimane della diaspora socialista
craxiana, si predispone ad affrontare una campagna elettorale tutta in
discesa, basata però sugli stessi orientamenti economici e sociali del
Governo appena dimesso: tagli alla spesa sociale, nessuna messa in
discussione dei principali provvedimenti realizzati da Monti ( pensioni,
art 18, riforma del lavoro). Non è un caso che Monti abbia dichiarato “
I lavori iniziati saranno completati da questo governo e, se non sarà possibile, costituiranno base di attività del prossimo”. In
effetti tutti i partiti, con particolare riferimento a quelli del
centrosinistra e all’UDC, si dicono montiani, naturalmente con qualche
presa di distanza nell’approssimarsi della campagna elettorale. Oggi
Monti decide di sponsorizzare una lista centrista che lo vede partecipe
come guida e regista che servirà da strumento di controllo
dell’applicazione degli indirizzi europei da parte del centrosinistra,
probabile vincitore delle prossime elezioni.
4) Dopo una gestazione non facile
nasce un fronte che si pone come alternativo sia al centrodestra sia al
centrosinistra. L’operazione inizia con un appello di importanti ed
autorevoli intellettuali della sinistra italiana ( Revelli, Gallino,
Viale ecc) che firmano il documento “ cambiare si può” ( http://www.cambiaresipuo.net/appello/)
e danno vita ad una discussione ampia che vede interessati e partecipi
anche alcuni partiti ( PRC, PDCI, Verdi, IDV). A distanza di pochi
giorni questo percorso si intreccia con un altro percorso, quello di Io
ci sto ( http://www.iocisto.com/manifesto-per-la-convocazione-dellevento-del-21-dicembre/
) che vede lanciare la candidatura di Antonio Ingroia, magistrato
antimafia, come front man di una lista che vuole rompere l’isolamento di
tutti coloro che non si ritrovano nelle politiche di Monti e di
Berlusconi e soprattutto non si ritrovano nelle politiche economiche
europee. L’incontro fra Ingroia e gli aderenti di “cambiare si può” apre
ancor di più gli spazi ad un campo politico e di soggettività che si
pone fuori dallo schema centrosinistra-centrodestra. In ogni caso questa
fusione fra i due appelli e i loro aderenti è giunta ad uno scoglio:
la discussione su come ci si relaziona con i partiti sul ruolo che
questi devono assumere. E’ in corso in queste ore una consultazione on
line fra i firmatari di cambiare si può se aderire alla lista di Ingroia
o meno.
Questo il quadro fino ad oggi. La
questione è come si va avanti, prima e dopo le elezioni. La discussione
sulla presenza dei segretari di partito nelle liste è segno che una
immaturità politica è presente nelle varie componenti, in specie in una
fase in cui i tempi vengono dettati dall’esterno. Sarà necessario, ad
esempio, ragionare su come costruire il fronte anti “agenda Monti” nel
paese e sul livello europeo, perchè la dimensione della crisi e le
idiote ricette di risposta agiscono sul livello europeo. Sarà utile
capire come, candidature a parte, si intrecciano i movimenti che in
questi mesi si son resi protagonisti di quelle lotte di resistenza al
disfacimento di tutte le conquiste sociali degli ultimi 50 anni. In
questi movimenti ci sono stati e ci sono sia partiti sia movimenti che
associazioni e c’è stata anche la componente sindacale più avanzata del
paese, che sia essa confederale o di base. Il punto di partenza di un
processo politico deve essere necessariamente il riconoscersi
reciprocamente. Chi pensa che siamo nelle condizioni di poterci
permettere il lusso di saltare un giro lo fa non avendo la
consapevolezza di qual’è la posta in gioco e forse lo fa a pancia piena
non avendo il problema di pagare il mutuo o la bolletta, ma soprattutto
esprimendo una visione narcisista della politica . La discussione sui
partiti e sul loro modus operandi non può non tenere conto che la crisi
della politica è cosa più vasta ed articolata e che vi è una
funzionalità all’emarginare i partiti, anche quelli che non hanno i
Fiorito o i Lusi fra le loro fila. Questa lista e l’incontro fra queste
aree, non omogenee ma nemmeno così distanti, non può che costituire il
laboratorio di riflessione sulle pratiche della politica che ha il
compito di modificare il contesto generale. I modi e le forme dell’agire
politico sono tanti e differenti, ma se dentro una lotta o nella
costruzione di una vertenza o in qualunque luogo si materializzi una
pratica di alternativa si incontrano un certo numero di persone, è con
quelle persone che si ha la responsabilità di confrontarsi e di
costruire. Sia Ingroia sia cambiare si può sia i militanti dei partiti
che stanno dando luogo a questa lista stanno sempre nei luoghi della
pratiche, magari con differenti modalità. Forse oggi ci dobbiamo porre
il problema di quelli che stanno in quei luoghi e non stanno nel
percorso.
Ho imparato che nelle pratiche e
nell’agire concreto i punti di contatto si rafforzano e le diversità si
indeboliscono. Dobbiamo costruire il fare di questa opportunità. A
cambiare ci sto!
Gianluca NIGRO
FONTE: http://gianlucapasa.wordpress.com
CAMBIARE SI PUO’ VENEZIA - DOCUMENTO APPROVATO ALL'UNANIMITA'
L'assemblea "Cambiare si Può" veneziana riunitasi il 30/12/2012 presso l'auditorium Antonio Lippiello
a Mestre, ritiene positivo che Antonio Ingroia abbia sciolto le riserve
sulla sua candidatura a presidente del consiglio per una lista che si
chiama "Rivoluzione civile". È un risultato positivo che alle prossime
elezioni vi sia una lista a sinistra della coalizione dei democratici e
progressisti, su posizioni di chiara discontinuità con le politiche
liberiste del Governo Monti. La possibilità di portare in parlamento una
delegazione di coloro che in questi anni – partiti, associazioni e
comitati - si sono battuti contro le politiche liberiste - e negli
ultimi mesi contro le politiche di Monti – è oggi alla portata di mano e
si tratta di un risultato di grande valore.
Noi pensiamo che questo sia il punto fondamentale e che a partire da questo risultato – tutt’altro che scontato – occorra dare una valutazione positiva del risultato raggiunto.
È importante sia stata chiarita ogni ambiguità nella collocazione politica, che sia stato espresso un no chiaro alle grandi opere contro la volontà dei territori, a partire dalla TAV, il no al fiscal compact ed in generale una decisa messa al centro delle questioni sociali, del lavoro e dell'antifascismo.
Per quanto riguarda il simbolo della lista “rivoluzione civile”, che non contiene alcun simbolo di partito ma ha una chiaro riferimento al movimento operaio nella riproduzione del “quarto stato” in rosso nella parte bassa del simbolo, sottolineiamo la scelta "estranea" alla tradizione e cultura politica della sinistra italiana di comprende la scritta "Ingroia" al centro del simbolo - riteniamo sia giustificabile solo alla luce dei tempi strettissimi che abbiamo per far conoscere il simbolo a qualche decina di milioni di persone e quindi conseguire il miglior risultato. Chiediamo di lavorare, quantomeno, per rivedere le proporzioni grafiche all'interno del simbolo, riducendo le dimensioni del nome di Ingroia e aumentando quelle del nome della lista.
Si chiede che nella definizione delle candidature ci si concentri, più che sui criteri con cui escludere a priori, sui criteri "in positivo" e sulle priorità, dando precedenza a candidature rappresentative socialmente dei conflitti, delle lotte e delle vertenze, e quindi scelta ad ampio raggio tra compagne/i attivisti di associazioni e movimenti, militanti ed esponenti di partito protagonisti delle molteplici mobilitazioni. Chiediamo che venga fatto valere il criterio della democrazia, della orizzontalità, del più elevato grado di rinnovamento possibile, anche arrivando a valutare l'opportunità di un passo indietro da parte degli apparati burocratici dei partiti, del collegamento con le realtà territoriali e della trasparenza nella definizione delle candidature, della parità di genere e generazionale.
Tutto ciò considerato l'assemblea chiede che, pur tenendo conto delle significative difficoltà e contraddizioni di questo percorso, si propone di proseguire con celerità alla formazione di una lista comune con candidato Antonio Ingroia e la presenza delle proposte programmatiche dell'appello "Cambiare si può".
Noi pensiamo che questo sia il punto fondamentale e che a partire da questo risultato – tutt’altro che scontato – occorra dare una valutazione positiva del risultato raggiunto.
È importante sia stata chiarita ogni ambiguità nella collocazione politica, che sia stato espresso un no chiaro alle grandi opere contro la volontà dei territori, a partire dalla TAV, il no al fiscal compact ed in generale una decisa messa al centro delle questioni sociali, del lavoro e dell'antifascismo.
Per quanto riguarda il simbolo della lista “rivoluzione civile”, che non contiene alcun simbolo di partito ma ha una chiaro riferimento al movimento operaio nella riproduzione del “quarto stato” in rosso nella parte bassa del simbolo, sottolineiamo la scelta "estranea" alla tradizione e cultura politica della sinistra italiana di comprende la scritta "Ingroia" al centro del simbolo - riteniamo sia giustificabile solo alla luce dei tempi strettissimi che abbiamo per far conoscere il simbolo a qualche decina di milioni di persone e quindi conseguire il miglior risultato. Chiediamo di lavorare, quantomeno, per rivedere le proporzioni grafiche all'interno del simbolo, riducendo le dimensioni del nome di Ingroia e aumentando quelle del nome della lista.
Si chiede che nella definizione delle candidature ci si concentri, più che sui criteri con cui escludere a priori, sui criteri "in positivo" e sulle priorità, dando precedenza a candidature rappresentative socialmente dei conflitti, delle lotte e delle vertenze, e quindi scelta ad ampio raggio tra compagne/i attivisti di associazioni e movimenti, militanti ed esponenti di partito protagonisti delle molteplici mobilitazioni. Chiediamo che venga fatto valere il criterio della democrazia, della orizzontalità, del più elevato grado di rinnovamento possibile, anche arrivando a valutare l'opportunità di un passo indietro da parte degli apparati burocratici dei partiti, del collegamento con le realtà territoriali e della trasparenza nella definizione delle candidature, della parità di genere e generazionale.
Tutto ciò considerato l'assemblea chiede che, pur tenendo conto delle significative difficoltà e contraddizioni di questo percorso, si propone di proseguire con celerità alla formazione di una lista comune con candidato Antonio Ingroia e la presenza delle proposte programmatiche dell'appello "Cambiare si può".
SINISTRA ....STAMPA
Il prossimo "il manifesto"? Se è questa roba qui...
di
Dante Barontin, www.contropiano.org
Pubblico: cronaca di un giornalicidio
di
Redazione Contropiano
Il quotidiano di Telese doveva servire a tirare la
volata all'assalto di Vendola alle primarie del PD. E' andata male, e
ora il "giornale a tempo" chiude. Una ricostruzione - anche troppo
garbata e diplomatica - del disastro da parte della redazione.
Oggi, domenica 30 dicembre alle 16,30 presso Pubblico, Lungotevere dei Mellini 10, conferenza stampa sulla vicenda del nostro quotidiano, che ad appena tre mesi dalla sua prima uscita non sarà più nelle edicole. Quello del 31 dicembre sarà l’ultimo numero. Dal primo gennaio Pubblico, in edicola dal 18 settembre, sospende le pubblicazioni. Intanto vi invitiamo in redazione a brindare con noi a questa “incredibile impresa”.
Cronaca surreale di un giornalicidio. Perché la breve vita
di Pubblico non è solo la vicenda di un quotidiano che non ha avuto la
fortuna sperata nelle edicole, me è soprattutto la storia di un disastro
imprenditoriale. Per quel che ne sa la redazione, il 31 dicembre, come
preannunciato dall’amministratore delegato davanti ai rappresentanti
della Federazione nazionale della stampa italiana, l’assemblea dei soci
metterà ai voti la liquidazione della Pubblico srl che lo ha editato. E
questo dopo appena tre mesi da quel 18 settembre in cui approdavamo sul
mercato editoriale sospinti dall’orgoglioso motto: “Dalla parte degli
ultimi e dei primi”.Oggi, domenica 30 dicembre alle 16,30 presso Pubblico, Lungotevere dei Mellini 10, conferenza stampa sulla vicenda del nostro quotidiano, che ad appena tre mesi dalla sua prima uscita non sarà più nelle edicole. Quello del 31 dicembre sarà l’ultimo numero. Dal primo gennaio Pubblico, in edicola dal 18 settembre, sospende le pubblicazioni. Intanto vi invitiamo in redazione a brindare con noi a questa “incredibile impresa”.
Tre mesi dopo quel giornale spietatamente scompare dalle edicole, fermandosi tuttavia ad un testardo nocciolo duro di 4000 lettori circa. La metà di quel che serve per “stare nei conti”. E per arrivare alla decisione di chiusura dell’azienda. Anzi della non-azienda. Che non ha saputo sostenere il prodotto, che ha assistito all’erosione del capitale (appena 748mila euro) e che pur non avendo nemmeno un euro di debiti precipitosamente decide di chiudere baracca e burattini.
Il direttore del giornale è tra i principali fondatori e promotori di questa azienda, così come l’amministratore delegato. Eppure né l’uno né l’altro hanno saputo arginare le scelte strategiche che hanno portato al disastro.
Primo, il capitale sociale esangue, che non poteva certo reggere ad una programmazione economica di almeno sei mesi. Secondo, il prezzo di copertina iniziale ad un euro e mezzo, evidentemente troppo alto all’epoca della “grande crisi”.Terzo, la totale assenza di una campagna pubblicitaria che facesse conoscere il giornale ai lettori, nell’ingenua convinzione che ai tempi di internet e di twitter bastasse il tam-tam digitale per farsi strada. Quarto, la totale mancanza di un “piano B” nel caso in cui le cose fossero andate male. Qualche tentativo di correggere la rotta, appena s è visto che i conti – evidentemente – non tornavano? No.
Come chiunque sa, se uno decie di produrre un nuovo dentifricio, prepara una campagna pubblicitaria, si accerta che il prodotto sia opportunamente distribuito nei grandi supermercati e nelle migliori farmacie, e poi che venga collocato adeguatamente sugli scaffali. Infine, un’indagine sul gradimento tra i consumatori, per capire cosa convenga fare perché possa assestarsi sul mercato. Niente di tutto questo è stato fatto dalla Pubblico srl, con l’aggravante che un quotidiano è uno strumento “democraticamente sensibile”, contrariamente ad un dentifricio.
Ebbene, una delle prime scelte dell’azienda è stata quella di tagliare “orizzontalmente” la tiratura iniziale, che era molto alta, come sempre accade quando si lancia un nuovo giornale. Peccato che questo sia stato fatto senza che venisse effettuata una mappatura delle edicole, per capire dove si vende di più e dove si vende meno. Risultato numero uno: si spendono inutilmente soldi per spedire le copie del giornale in un qualche villaggio remoto, ma non si sostiene il prodotto là dove si vende (o venderebbe) di più. Risultato numero due: un colpo d’ascia sulle vendite in edicola. Dopodiché la “grande fuga”: nonostante una minuscola campagna di spot (solo su La7 e su alcune radio) che hanno fatto raddoppiare le vendite, laPubblico srl ha iniziato poche settimane fa l’operazione smantellamento. Quasi un mantra: si chiude, si chiude, si chiude.
Un tentativo di salvataggio da parte di un grande stampatore, che aveva mostrato notevole interesse nel far continuare l’avventura, è penosamente naufragato per motivi sconosciuti. Ci sono stati diversi tentativi di sospendere immediatamente le pubblicazioni, scongiurati ogni volta dalla redazione all’ultimo tuffo. Finché è stato possibile. Ma fra poche ore Pubblico sparirà dalle edicole. Fine del giornale degli ultimi e dei primi. Fine del giornale di Luca Telese.
Fine, anzi e, sopratutto del nostro e vostro giornale, che tutti i giorni queste pagine le abbiamo scritte e lette. Dobbiamo dircelo in faccia, almeno noi. Ci stanno chiudendo. Anche se speriamo ancora che qualcosa possa salvare il destino di queste pagine e il nostro. E continueremo ragionevolmente a sperarlo. La tentazione più forte in queste ore, ve lo diciamo chiaramente, è stata gettare la spugna, andarsene. Che fare d’altra parte quando quelli che ti hanno chiamato ad un’impresa dopo tre mesi, alla prima difficoltà, ti vengono a dire: è finita? Senza neppure aggiungere: scusate, abbiamo sbagliato. Nelle stesse ore in cui tu provi a dare fondo alla tua agenda loro ti dicono: purtroppo non conosco imprenditore che possa investire in questa impresa.
Loro d’altra parte sono stati i primi a decidere di non ricapitalizzare. Ce lo hanno detto in modo molto brutale: prima l’amministratore delegato Tommaso Tessarolo e poi il direttore-editore Luca Telese. E così abbiamo cominciato a capire che alle spalle non avevamo né azienda né direzione fino in fondo al nostro fianco. «Sapevamo che era un’operazione a rischio» ribadiscono gli editori. Sì, un’operazione a rischio affrontata con lo spirito o la va o la spacca. Ed è spaccata. Noi, i giornalisti di Pubblico, ci siamo sentiti dire «non eravamo del ramo, non abbiamo contatti», quando abbiamo chiesto se siamo stati cercati possibili nuovi soci che potessero rafforzare la compagine azionaria. Anche perché degli interessi, in effetti, si sono manifestati: il fatto è che Pubblico è ancora un prodotto attraente, che costa poco, con un suo posto sul mercato e con le potenzialità per tornare a crescere.
Intanto però dal primo gennaio Pubblico sparirà dalla edicole. Ed è quantomeno kafkiano che un giornale politico abbassi le saracinesche proprio alla vigilia di una nuova, cruciale, contesa elettorale. Da cronisti appassionati di quello che succede nel nostro Paese e nel mondo, siamo furiosi. Da lavoratori, che per mestiere e per passione su questo giornale hanno provato a raccontare ogni giorno la solitudine degli altri lavoratori, siamo indignati.
Stavolta la lotta per i diritti minimi passa direttamente per le nostre vite e vede come controparte chi ha messo in piedi questo giornale. Perciò abbiamo deciso di non gettare la spugna e fare ancora una volta i giornalisti. La nostra vicenda, la vicenda diPubblico crediamo che racconti molto di questo Paese. C’è di tutto, in questo racconto, dall’approssimazione alla fuga di fronte alla responsabilità, dalla resa davanti alle prime difficoltà fino all’ipocrisia squadernata ai precari che prima sono il sale dell’impresa e poi diventano un problema, perché per loro non scattano neppure gli ammortizzatori sociali.
Ancora adesso, a poche ore dalla sospensione delle pubblicazioni, pensiamo che un editore interessato ad un giornale che sappia raccontare l’alto e il basso, il volto politico e quello sociale della prossima campagna elettorale, ci possa essere. Non siamo un giornale indebitato fino al collo. Non siamo una macchina succhia-soldi. Ci siamo gettati con slancio in questa impresa e riprenderemmo a farlo se ci fossero le condizioni. Perché noi, i giornalisti di Pubblico, la nostra parte l’abbiamo fatta. Nonostante chi oggi ha deciso di chiuderci.
L’assemblea dei redattori di Pubblico
L’estremismo, malattia infantile della nuova (vecchia) sinistra di Matteo Pucciarelli, Micromega
Alle prossime elezioni sarà presente una lista di sinistra alternativa
sia al centrosinistra – il quale non metterà in discussione i vincoli di
stampo neoliberista imposti da Bce e Fmi – che al Movimento Cinque
Stelle – il quale nega l’esistenza di un processo globale di
trasferimento delle risorse, dal basso verso l’alto. Candidato premier
Antonio Ingroia.
Ma mentre fuori il mondo fa la guerra a una lista del genere (basti
vedere il tam tam mediatico basato sul nulla: Piero Grasso il magistrato
buono, l’ex pm di Palermo il magistrato cattivo), dentro la stessa
sinistra si riproduce, come un batterio autodistruttivo, la dinamica dei
fratelli-coltelli. Proprio nel momento in cui servirebbe fare quadrato
per raggiungere l’obiettivo, mettendo da parte i personali desiderata e
le antipatie.
Il cliché, quello di sempre, viene puntualmente confermato: gruppi
litigiosi tra loro, propensi a fare la guerra al vicino di banco
dimenticando cosa succede all’esterno. Chi propende per i partiti, chi
per la società civile, ognuno con le proprie ragioni irrinunciabili e
con i propri paletti. Com’è facile far saltare il banco, ogni volta.
L’estremismo, «malattia infantile del comunismo», non è più tanto
nelle idee quanto negli atteggiamenti. Nella incapacità di trovare una
forma di mediazione, di considerare i rapporti di forza in campo e
accettarli serenamente, di uscire da una visione del mondo idilliaca e
di tornare con i piedi per terra considerando l’opportunità di cedere
qualcosa a beneficio di un obiettivo che comunque migliorerebbe
l’esistente.
È evidente come in una parte della sinistra sia ancora presente, più
che forte che mai, la cultura dell’onorevole sconfitta, del massimalismo
fine a sé stesso e della presunzione di possedere la pozione magica per
risolvere i problemi del mondo.
La cultura dello spaccamento del capello in quattro, della bella
testimonianza, è utile a chi non ha particolari bisogni di
trasformazione della società. Come in passato: c’era chi giocava alla
rivoluzione, c’era chi sperava davvero nella rivoluzione.
Alfonso Gianni su Rivoluzione Civile e i quattro segretari
Nella consultazione di “cambiare si può” che interroga se continuare l’iter che porta alla formazione della lista Ingroia (così viene chiamata, anche in ragione di un rilievo esagerato al nome sul simbolo) risponderò NO.
Almeno sic stantibus rebus. Le ragioni, se interessano, sono semplici. Sono partito, anche quando ero militante di Sel, da un doppio presupposto: che si dovesse costruire una forza di sinistra, moderna, inclusiva e autonoma. Mi pare che la profondità della crisi economica, sociale, istituzionale e democratica che sconvolge l’Europa lo richieda. Nello stesso tempo altre esperienze, tutte difficili e certamente non lineari, in atto in Europa dimostrano che non si tratta di un progetto irrealizzabile nella pratica. Il secondo punto è che bisognava affrontare l’imminente scadenza elettorale costruendo uno spazio e un’offerta elettorale certamente aperta, ma tale da non contraddire, nei contenuti e nei modi, il percorso di costruzione di una simile sinistra. Sapevo che, visti i tempi ristretti e l’etrogeneità delle forze in campo, questa partecipazione alle elezioni era un tentativo da fare, ma non un imperativo cui subordinare ogni altra cosa. Le cose non sono andate nel modo dovuto.
Almeno sic stantibus rebus. Le ragioni, se interessano, sono semplici. Sono partito, anche quando ero militante di Sel, da un doppio presupposto: che si dovesse costruire una forza di sinistra, moderna, inclusiva e autonoma. Mi pare che la profondità della crisi economica, sociale, istituzionale e democratica che sconvolge l’Europa lo richieda. Nello stesso tempo altre esperienze, tutte difficili e certamente non lineari, in atto in Europa dimostrano che non si tratta di un progetto irrealizzabile nella pratica. Il secondo punto è che bisognava affrontare l’imminente scadenza elettorale costruendo uno spazio e un’offerta elettorale certamente aperta, ma tale da non contraddire, nei contenuti e nei modi, il percorso di costruzione di una simile sinistra. Sapevo che, visti i tempi ristretti e l’etrogeneità delle forze in campo, questa partecipazione alle elezioni era un tentativo da fare, ma non un imperativo cui subordinare ogni altra cosa. Le cose non sono andate nel modo dovuto.
Il programma di Ingroia è del tutto insufficiente a reggere la sfida. Pare che lo voglia integrare con i punti di “cambiare si può” e questo mi fa comunque piacere: Intanto però la sua conferenza stampa era tutta prigioniera della dimensione lotta alla Mafia, tema nobilissimo, ma certamente non esaustivo per chi si pone il compito di costruire un’uscita dalla crisi. Infine la questione dei segretari di partito in lista. Lo dico con molta tranquillità anche perchè è davvero difficile, data la mia non breve storia politica, che qualcuno mi possa accusare di movimentismo. La parata dei quattro segretari non va bene. So peraltro che Ferrero era disponibile alla rinuncia. ma gli altri? Lo capisce anche un bambino che una cosa è mettere il lista un punto di riferimento per dare un segnale al proprio micropartito che c’è un impegno diretto nella lista e un altro è porre i segretari in posizione eleggibile (se si farà il quorum naturalmente). Questo significa dare un’impronta alla lista di somma di organizzazioni, esattamente il contrario di quello che si voleva fare, pur senza privarsi dell’apporto delle forze organizzate. Peggio, vista la tendenza marcata di alcuni di questi leader a riproporre in continuazione una convergenza con il cd centrosinistra, significa rendere indeterminata fin dall’inizio la natura e la collocazione della lista, annacquandone il suo carattere alternativo. Essendo la cosa evidente e facendo sempre fede, se non altro per stile, sull’intelligenza altrui, mi rifiuto di pensare che non lo capiscono. Se non vogliono fare il passo indietro è proprio perchè vogliono praticare una scelta politica diversa da quella che volevamo dare a questa lista. Una scelta che
oltre che fare scemare ogni entusiamo ai fini del successo elettorale della medesima inibisce la prosecuzione dell’aspetto più importante del nostro progetto: quello della ricostruzione di una sinistra autonoma. Quindi ognuno si assuma le proprie responsabilità. Se non c’è un ripensamento radicale sarà un’altra occasione persa. E non ne abbiamo molte avanti a noi.
Auguri!
oltre che fare scemare ogni entusiamo ai fini del successo elettorale della medesima inibisce la prosecuzione dell’aspetto più importante del nostro progetto: quello della ricostruzione di una sinistra autonoma. Quindi ognuno si assuma le proprie responsabilità. Se non c’è un ripensamento radicale sarà un’altra occasione persa. E non ne abbiamo molte avanti a noi.
Auguri!
Rivoluzione civile siamo noi di Luigi de Magistris
La
candidatura di Ingroia alla presidenza del Consiglio, come leader di
uno schieramento alternativo a Monti-Berlusconi-Pd, per la realizzazione
di una Rivoluzione Civile, come si chiama la lista stessa, rappresenta
una speranza per il Paese. Ogni speranza, però, racchiude sempre anche
una sfida che, nel caso specifico, è quella di favorire il protagonismo
di un solo fondamentale soggetto: la società civile. Sono fiducioso che
Antonio saprà farsi garante di questo protagonismo: la sua decisione di
mettersi al servizio del Paese nasce infatti dalla coscienza che, oggi,
“quel libro dei sogni da aprire”, per citare una sua espressione, potrà
essere dischiuso solo dalle cittadine e dai cittadini.
Quelle cittadine e quei cittadini che, forti delle battaglie condotte quotidianamente nei loro territori durante la loro vita coraggiosa, possono e devono aprire quel libro, da troppo tempo dimenticato, impegnandosi direttamente nell’azione politica. Una politica concepita come impegno del singolo per il bene collettivo, che risponda alla crisi dei partiti e offra prospettive di novità e discontinuità rispetto ad un sistema tradizionale ormai inceneritosi, che veda al centro della sua azione il ruolo delle associazioni, dei movimenti, dei militanti dei partiti che hanno condotto le battaglia a difesa dei diritti e della democrazia, delle donne e degli uomini onesti, anche sconosciuti all’opinione pubblica nazionale, che però nei loro territori si sono spesi e impegnati per il cambiamento. Questa esperienza, di cui Antonio sarà riferimento e garante, vedrà il sostegno del Movimento Arancione e il mio stesso appoggio, nei limiti del mio impegno primario che è quello di sindaco di Napoli.
Crediamo infatti nella possibilità di costruire un’alternativa alle masso-mafie e alle cricche che hanno inquinato la democrazia, al capitalismo senile che ha soffocato la giustizia sociale, al montismo e al berlusconismo e al continuismo di Bersani. Per farlo, ovviamente, c’è bisogno di politica e di partecipazione, certo non della riproposizione di amalgami non riusciti, come un Arcobaleno bis, oppure di nuove soggettività solo apparenti, perchè piegate al trasformismo di una classe partitica che, invece, deve compiere un passo indietro. Un passo indietro per consentire non solo il legittimo protagonismo delle cittadini e dei cittadini, perché è giunto il loro momento, ma anche per ritrovare essa stessa linfa e vitalità.
Quelle cittadine e quei cittadini che, forti delle battaglie condotte quotidianamente nei loro territori durante la loro vita coraggiosa, possono e devono aprire quel libro, da troppo tempo dimenticato, impegnandosi direttamente nell’azione politica. Una politica concepita come impegno del singolo per il bene collettivo, che risponda alla crisi dei partiti e offra prospettive di novità e discontinuità rispetto ad un sistema tradizionale ormai inceneritosi, che veda al centro della sua azione il ruolo delle associazioni, dei movimenti, dei militanti dei partiti che hanno condotto le battaglia a difesa dei diritti e della democrazia, delle donne e degli uomini onesti, anche sconosciuti all’opinione pubblica nazionale, che però nei loro territori si sono spesi e impegnati per il cambiamento. Questa esperienza, di cui Antonio sarà riferimento e garante, vedrà il sostegno del Movimento Arancione e il mio stesso appoggio, nei limiti del mio impegno primario che è quello di sindaco di Napoli.
Crediamo infatti nella possibilità di costruire un’alternativa alle masso-mafie e alle cricche che hanno inquinato la democrazia, al capitalismo senile che ha soffocato la giustizia sociale, al montismo e al berlusconismo e al continuismo di Bersani. Per farlo, ovviamente, c’è bisogno di politica e di partecipazione, certo non della riproposizione di amalgami non riusciti, come un Arcobaleno bis, oppure di nuove soggettività solo apparenti, perchè piegate al trasformismo di una classe partitica che, invece, deve compiere un passo indietro. Un passo indietro per consentire non solo il legittimo protagonismo delle cittadini e dei cittadini, perché è giunto il loro momento, ma anche per ritrovare essa stessa linfa e vitalità.
Ingroia, Gino Strada: "Una persona onesta e degna della massima fiducia"
"Non voto da trent’anni. Mi piacerebbe tornare a farlo, questa volta. Ma devo ancora decidere". Gino Strada, il fondatore di Emergency, in questi giorni è a Khartum, la capitale del Sudan, dove segue il centro di cardiochirurgia. Il suo nome è stato fatto da Antonio Ingroia, tra i possibili candidati della lista per il “Quarto Polo”. E lui non sembra voler rispedire al mittente la proposta. Alessandro Gilioli ha ospitato una sua intervista sul suo blog.
“Per quello che lo conosco, Ingroia mi sembra una persona onesta e degna della massima fiducia – dice Strada -. Sto seguendo questo movimento arancione con interesse. Mi interessa soprattutto che ci sia una forza politica che metta al centro del suo programma e delle sue pratiche concrete la pace e i diritti del cittadino. Comunque, vedremo”. Parole confortanti che non mancano però di mettere l’accento su una delle questioni più delicate, quella della formazione delle liste. “Se vedessi che questo movimento arancione diventa un centro di raccolta differenziata dei trombati delle ultime elezioni e dei loro apparati, diciamo che smetterebbe di interessarmi”. Il ragionamento è sulla ferita che nel governo Prodi/2006 ha prodotto la vicenda della partecipazione italiana alla guerra in Afghanistan. “All’indomani della grande manifestazione di Roma per la pace – dice nell’intervista a Gilioli - nel 2006, il centrosinistra è andato al governo e ha confermato la scelta della guerra. Inclusi alcuni dei politici che erano con noi a quel corteo”. “L’Italia è in guerra da più di dieci anni – aggiunge Strada - e nessuno dice niente. Una cosa inimmaginabile in nessun Paese civile. Ma lo sa lei che ogni anno spendiamo un miliardo di euro per tenere quattromila soldati in Afghanistan? Un miliardo di euro! Io non so come possano accettare questa cosa le persone che non hanno un lavoro o una casa, che non arrivano alla fine del mese”.
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