Un breve saggio di Elvio Dal Bosco (economista ed ex dirigente del Centro Studi della Banca d’Italia) per Cambiailmondo,
che ripercorre con dovizia descrittiva e con molti significativi
esempi, le cause profonde della crisi economica, l’ideologia sistemica –
assurda – che la caratterizza e le possibili strade del suo
superamento, che non sono meramente congiunturali, ma che necessitano di
un mutamento radicale del paradigma culturale e dell’abbandono
definitivo dell’ideologia neoliberista. Di nuovo, come in ogni epoca di
grandi crisi, si ripropone il dilemma del senso del nostro modello di
vita, del significato di “crescita”, del nostro rapporto con la natura,
con il pianeta e con le sue risorse, e di come con tutto ciò, volenti o
nolenti, dovremo fare i conti, noi e le nuove generazioni. Questo tipo
di società è al capolinea. Di ciò, classi dirigenti e
cittadini-elettori dovrebbero essere edotti.
Premessa
La crisi finanziaria ed economica in atto rappresenta il fallimento
delle politiche economiche neoliberiste intraprese negli ultimi
trent’anni a livello mondiale, che si sono scaricate sulle condizioni di
lavoro e di vita di larghe masse di popolazione anche nei paesi
capitalistici sviluppati. In presenza di un enorme aumento della
disuguaglianza dei redditi e della ricchezza alimentato dall’espansione
delle attività finanziarie a spese dell’economia reale in questi paesi,
fa veramente impressione leggere quanto scrive uno dei portavoce del
fondamentalismo neo liberista: “Nonostante la crisi creditizia attuale,
questo decennio sarà visto come quello della più elevata crescita del
reddito pro-capite della storia” ( The Economist, editoriale del 18 ottobre del 2008, p. 14 ).
La crisi viene da lontano: già prima dell’utilizzo di strumenti
finanziari ad altissimi rischio e di scarsa trasparenza come i CDO e
CDS, la grande espansione della cosidetta finanziarizzazione aveva
comportato radicali mutamenti nella struttura della produzione,
distribuzione e impiego del reddito nei maggiori paesi capitalistici
svilupppati, da me analizzati in un libro pubblicato nel 2004 ( La leggenda della globalizzazione, Bollati Boringhieri, Torino ). Scrivevo allora nel capitolo intitolato significativamente L’economia reale preda della finanza:
il fatto che tendenzialmente la quota degli investimenti fissi lordi
scenda laddove la quota delle attività finanziarie cresce, mettendo in
evidenza una correlazione inversa, potrebbe indurre ad affermare che
l’enorme espansione registrata dalle attività finanziarie negli ultimi
vent’anni circa sia andata a scapito degli investimenti e a favore dei
consumi.
E’ opportuno sottolineare qui che, mentre i singoli attori o settori
dell’economia ( imprese, famiglie, pubblica amministrazione,
intermediari finanziari ed estero ) nelle loro scelte di spesa del
reddito possono decidere o di consumarlo o di investirlo in beni reali (
impianti e attrezzature, fabbricati non residenziali, abitazioni,
opere pubbliche e scorte ) o di impiegarlo in attività finanziarie,
sotto il profilo della contabilità nazionale, al netto del saldo con
l’estero ( X - M ) e del saldo della pubblica amministrazione ( G – T
), la domanda finale si ripartisce fra consumi delle famiglie e
investimenti in beni reali ( C + I ), restando le attività finanziarie
una transazione intermedia. Per un’impresa può essere equivalente sotto
il profilo dei profitti impiegare il capitale in investimenti tecnici
oppure in investimenti finanziari, ma se questi ultimi crescono a un
tasso molto più alto dei primi, come è avvenuto fra il 1979 e il 1999,
nell’ambito della spesa finale nella contabilità nazionale ciò si
riverbera in un calo relativo degli investimenti fissi lordi rispetto ai
consumi privati. La quota degli investimenti diminuisce di 1-1,5 punti
percentuali in Germania e Svezia, di oltre 2 negli Stati Uniti, di
circa 3,5 in Canada e Francia, di 5 e oltre in Italia e Giappone.
Siccome la quota degli investimenti sulla domanda interna diminuisce a
favore dei consumi delle famiglie e contemporaneamente cala la quota
dei redditi da lavoro dipendente, si può arguire che sono i detentori
di altri redditi a consumare di più e investire di meno. La quota dei
consumi privati cresce di 2 punti percentuali in Giappone, di circa 3 –
4 in Svezia, Francia, Germania, Italia e Stati Uniti, di oltre il 5 in
Canada, mentre la quota dei salari lordi diminuisce, anche
notevolmente in alcuni paesi ( da quasi 2 punti in Francia a oltre 3,5
negli Stati Uniti, Germania e Svezia e a 7,5 in Italia ).
Terminavo sostenendo che in presenza di un’ elevata espansione delle
attività finanziarie si ha una riduzione relativa della formazione di
capitale fisso potrebbe significare che il predominio della finanza
sull’economia reale è sfavorevole nel più lungo periodo
all’accumulazione del capitale, che è il paradigma costituente del
capitalismo.
Le dimensioni della crisi finanziaria
Secondo i dati elaborati dal WIFO (Istituto austriaco di ricerca
economica), il volume delle transazioni finanziarie è salito a livello
mondiale da 20 volte il PIL mondiale nel 1990 a 35 volte nel 2000 per
arrivare a oltre 70 volte a metà 2007 per scendere a 60 nel 2009 e
riprendersi a quasi 70 nel 2010, seguendo quasi parallelamente il corso
dei derivati, che ne costituiscono la parte di gran lunga prevalente. A
sua volta, la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea calcola
che fra la fine del giugno 1998 e la fine di giugno 2008 ( il dato più
elevato raggiunto dagli strumenti derivati ) il volume dei derivati è
balzato da 72 mila miliardi di dollari a 684 mila, aumentando quindi di
quasi 10 volte. Il Financial Stability Board con sede a Basilea dal
2009 si occupa del sistema finanziario internazionale ed è molto
critico sulle cosidette Banche ombra, ossia gli istituti finanziari
speculativi, che amministrano oggi fondi per ben 67 mila miliardi di
dollari.
Le politiche economiche neoliberiste avviate trent’anni fa dalla
Thatcher e da Reagan con privatizzazioni, liberalizzazioni e
deregolamentazioni (Marco d’Eramo su “il manifesto” traduce deregulation con sregolatezza)
hanno comportato una crescita abnorme delle attività finanziarie nei
paesi capitalistici sviluppati; nell’ultimo decennio particolarmente
attiva è stata la finanza “creativa”: sempre nuovi operatori e strumenti
ad alto rischio sono stati inventati per aumentare i profitti ricavati
non dalla famosa imprenditorialità ma dagli impieghi finanziari. Negli
Stati Uniti i profitti del settore finanziario, che rappresentavano
una quota del 10 per cento sul totale dei profitti delle imprese nei
primi anni ’80, sono arrivati al 40 per cento nel 2007. Le banche
britanniche ricavavano in media un profitto del 7 per cento sulle
azioni fra il 1921 e il 1971; da allora la media è salita al 20 per
cento. Ciò è dipeso dalla crescente complessità degli strumenti
finanziari che hanno consentito di lucrare rendite molto elevate; i
profitti che milioni di risparmiatori sperano di guadagnare finiscono
per essere pagati al settore finanziario come rendite.
Joseph Vogl, storico tedesco, nel suo libro Das Gespenst des Kapitals ( Lo spettro del capitale )
descrive la prevalenza della “finanziarizzazione” con opportuni
riferimenti alle fonti degli ideologi neoliberisti. La teoria della Ipotesi del mercato efficiente elaborata fra gli altri da Eugene Fama (e Merton H. Miller) in The Theory of Finance del
1972, ha sostenuto ancora nel 2007 che il concetto di “bolla” nei
mercati finanziari era insostenibile e insensata, perché dal suddetto
principio si ricavava che sono proprio i mercati finanziari a
rappresentarlo al meglio; infatti, essi non sopportano costi di
transizione, di trasporto e pesantezze di produzione, sono i luoghi
ideali e senza attriti per il meccanismo della formazione dei prezzi e
per la concorrenza perfetta, in cui agiscono attori razionali orientati
al profitto e quindi economicamente attendibili. Di conseguenza i
prezzi e i movimenti dei prezzi su questi mercati riflettono anche in
maniera diretta e conclusiva tutte le informazioni ottenibili. I valori
patrimoniali corrispondenti non sono mai sotto- o sopravvalutati (!)
L’autore punta l’indice su due nuovi strumenti finanziari: la
cartolarizzazione dei mutui ipotecari che diventano obbligazioni
piazzate nel mercato secondario come asset- based securities (obbligazioni
basate sugli attivi delle banche ); la creazione di derivati da vari
tipi di crediti venduti dalle banche e tolti dai propri bilanci per
accollare i rischi ai compratori di tali collateral debt obligations.
Questi due strumenti sono stati giudicati molto positivamente dal
Fondo monetario internazionale nell’aprile del 2006 (un anno prima
dello scoppio della nota bolla!) nel Global Stability Report:
“Grazie alle differenziate gestioni del rischio e prospettive di
investimento questi nuovi attori contribuiscono ad attenuare e
assorbire gli ‘shocks’, che in passato hanno colpito le poche, ma
importanti, agenzie di intermediazione.” Per non parlare dei credit default swaps,
con cui le banche toglievano l’assicurazione di insolvenza del credito
dai propri bilanci scaricandola su investitori particolarmente
disposti al rischio.
Le novità principali sono i hedge funds, fondi ad alto rischio, i collateral debt obligations (CDO), obbligazioni emesse dalle banche impacchettando i mutui ipotecari spazzatura, i credit default swaps (CDS), strumenti derivati concepiti per assicurarsi dai rischi connessi ai mutui, le private equity,
che nella traduzione italiana vengono definite “acquisizione di
società mediante l’acquisto di azioni finanziato per mezzo di emissione
di debito garantito dalle azioni comperate”.
Gli hedge funds crescono da meno di 1.000 nel 1990 con capitali
raccolti per circa 40 miliardi a oltre 7.000 per 2.000 miliardi raccolti
nel 2007; essi si sono fortemente indebitati con le banche nel periodo
in cui con tassi di interesse delle banche molto bassi era conveniente
farlo prevedendo di ricavare profitti del 20 per cento almeno. Negli
Stati Uniti la legge Glass- Steagall del 1933 divideva le banche in
commerciali e di investimento, laddove le prime erano protette sui
depositi , ma non dovevano investire in titoli; tale legge è
sopravvissuta fino al 1980, ma le liberalizzazioni dei movimenti di
capitali hanno fatto crescere enormemente i flussi internazionali e la
separazione rimaneva solo sulla carta per essere abolita nel 1999.
Perfino uno dei portavoce più ascoltati del neoliberismo, The Economist, nell’edizione del 2 febbraio 2008 scriveva che “se le banche vogliono vivere come gli hedge funds devono imparare a morire come succede a questi”.
Andreas Schmitz, il presidente dell’Associazione bancaria tedesca, parla molto chiaro in un’intervista a Die Zeit del 29 ottobre 2009:
“Le banche devono concentrare la loro
attività nel fornire il denaro a imprese e famiglie. A un certo punto
esse hanno scoperto se stesse come clienti e hanno incominciato a fare
affari fra di loro. Qui deve intervenire lo Stato e ricondurre questo
tipo di operazioni finanziarie a dimensioni ragionevoli…Inoltre, le
banche dovrebbero detenere una quota maggiore di capitale proprio. Qui
siamo già sulla buona strada, perché riducendo i rendimenti, si rende
il settore finanziario più sicuro, in quanto possono operare meno con
denaro in prestito, facendo anche diminuire il pagamento di bonus”.
Concetti simili si ritrovano anche in un’intervista di Mario Sarcinelli a La Stampa del
28 febbraio 2010: “Occorre tornare a una separazione fra diversi tipi
di attività finanziaria. Da una parte le banche che raccolgono i soldi
della gente e li prestano alle imprese, con una garanzia a tutela dei
depositi; dall’altra parte chi svolge altre attività a carattere
finanziario, esposto al rischio di fallimento.”
Dalla loro prima registrazione i pochi Hedge funds nel 1990, che
amministravano 39 miliardi di dollari, per passare a 400 miliardi nel
2000 gestiti da 3.900 fondi, sono diventati 10.000 nel 2007 per quasi
2.000 miliardi di dollari amministrati. Agli investitori erano stati
asssicurati rendimenti molto alti e non correlati con il mercato
azionario; in effetti nel 2008 i fondi hanno perso un quinto del loro
valore, soffrendo della caduta dei corsi azionari ( The Economist del 14 febbraio 2009, p.106 ).
Una serie di dati e rifflesioni sulla finanza si trovano in un rapporto speciale sui rischi finanziari pubblicato su The Economist del
13 febbraio 2010, in cui si scrive che: “In assenza di stretti limiti,
una più elevata leva finanziaria è il risultato naturale di bassi
saggi di interessi internazionali. Il debito delle imprese finanziarie
USA è esploso in rapporto all’economia generale. Al culmine della
follia, una grande banca si era indebitata in media 37 volte il suo
capitale azionario, il che significava che poteva sparire a causa di
una perdita di appena il 2-3 per cento dei mezzi propri. Il rapporto
fra il debito delle imprese finanziarie e il PIL era salito da meno del
20 per cento nel 1978, al 40 nel 1988, al 75 nel 1998, per arrivare al
120 per cento nel 2008 .
Nel 2008 un cosiddetto Risk Manager ha fatto le sue confessioni,
scrivendo che in una riunione di suoi colleghi “nel gennaio del 2007 il
mondo sembrava scevro di rischi…La possibilità che la liquidità potesse
improvvisamente venir asciugata stava come sempre nella nostra lista
dei rischi, ma noi vedevamo ancora più liquidità affluire sui mercati, e
non defluire. Investitori istituzionali, quali gli Hedge Funds, le
Private Equities e i fondi sovrani erano intenti tutti a investire.
Questo dipendeva dal fatto che il differenziale dei tassi si stava
restringendo e il rapporto fra debiti e profitti nel finanziamento delle
pe stava aumentando. Alla domanda ‘Da dove potrebbe arrivare una crisi
di liquidità?’ nessuno fu in grado di dare una buona risposta”. E più
avanti concludeva: “Che cosa dobbiamo imparare dalle crisi, sia noi che
il settore finanziario? Tanto ma soprattutto due cose: la prima è
guardare ai fondamentali, analizzando le posizioni di bilancio per tipo,
dimensioni e complessità prima e dopo di intervenire negli arbitraggi;
la seconda di non presupporre che i giudizi delle agenzie di ‘rating’
siano sempre corretti e se lo sono di ricordarsi che possono cambiare
d’improvviso.”
E’ opportuno allora ricordare i dati significativi delle tre agenzie
di rating nel 2011: la Standard & Poor’s Ratings Services, che
raggiunge un fatturato di 1.767 milioni di dollari con profitti per 719
milioni, impiegando 1.345 analisti e fornendo 1.190.500 ratings (
proprietà della casa editrice McGraw-Hill ); la Moody’s Investors
Service: a seguire 1.569 – 690 – 1.204 – 1.039.187 ( entrambe di
proprietà della McGraw Hill ); la Fitch Ratings: a seguire 733 – 227 –
1.049– 505.024 ( gruppo editoriale Hearst per il 50 per cento e l’altra
metà è francese ).
I cosidetti CDO servono per convertire cartelle fondiarie e
obbligazioni societarie detenute come fondi illiquidi da investitori
locali in strumenti finanziari liquidi in giro per il mondo ( si calcola
che il loro volume sia attualmente pari a 500 miliardi di dollari,
mentre i CDS sono ormai arrivati a superare a metà 2008 i 62.000
miliardi in valore nozionale a livello mondiale, contro 10.000 a fine
2005.
Altra finanza “creativa” sono le cosidette private equity, che la Banca centrale europea nel suo Bollettino mensile del giugno 2007 magnificava scrivendo “l’attività dei fondi di private equity può
spesso aumentare l’efficienza e la crescita a lungo termine delle
società che sono coinvolte nelle operazioni, sebbene nel breve termine
si possano osservare costi in termini di occupazione”. Nello stesso
Bollettino si legge che la raccolta di fondi per tale attività sul
mercato europeo è balzata dal 1996 al 2006 da meno di 10 miliardi di
euro a 90 miliardi , di cui la fonte principale sono i fondi pensione
con il 22 per cento; il mercato europeo equivale ormai a quello degli
Stati Uniti e l’acquisizione delle società avviene in larga parte senza
dover impegnare capitale proprio ma con credito offerto di solito
dalle banche. Nel 2009 si calcola che circa 400 miliardi di dollari del
debito assunto dalle Private Equities dovrà essere rifinanziato nei
prossimi 4 anni. Oltre alle banche, i più penalizzati dalla crisi
sono ora i fondi pensione che devono uscire dai hedge funds, perché devono saldare gli obblighi derivanti dagli acquisti di private equity.
Un caso esemplare di mutui subprime è riportato da “Die Zeit” del 14
febbraio 2007: negli USA un’infermiera ausiliaria di 28 anni siede su
debiti ipotecari per quasi un milione di dollari. Tre anni prima un
agente immobiliare l’aveva convinta a lasciare la casa popolare in
affitto per comprarsi la casa col mutuo ipotecario; egli la spinse a
comprare più appartamenti e lui avrebbe trovato gli inquilini; lei
avrebbe pagato le rate del mutuo con gli affitti ricevuti e in poche
anni sarebbe diventata ricca. Nell’arco di tre mesi l’infermiera era
diventata proprietaria di 8 appartamenti e 8 ipoteche. Già dopo pochi
mesi, gli inquilini hanno fatto notare che lei doveva pagare una serie
di riparazioni, mentre l’agente immobiliare le aveva garantito che gli
appartamenti erano in ottimo stato; poi sono arrivate le cartelle
dell’imposta sugli immobili e le polizze assicurative così che nel
dicembre del 2007 lei ha perso tutti gli appartamenti.
In questo contesto, c’è da sperare che non si avveri quanto sostenuto all’alba del 2000 da The Economist che
prevedeva per i prossimi 25 anni una quadruplicazione del denaro
gestito dai fondi pensioni privati in Europa pari a 8.000 miliardi di
dollari. Anni fa uno dei maggiori studiosi dell’instabilità finanziaria,
Hyman Minski, si chiedeva se la crisi economica del 1929 si potesse
ripetere e rispondeva che ciò era difficile perché oggi la quota dello
Stato sul PIL corrisponde in media nei paesi capitalistici sviluppati al
40 per cento, contro il 10 circa di allora. Teniamoci quindi ben
strette previdenza e sanità pubbliche.
In un’intervista a Die Zeit del 24 giugno 2010 il noto speculatore Soros era piuttosto pessimista:
Domanda: “ Non dobbiamo intervenire sui
mercati finanziari?”; Risposta: “Dobbiamo sì, perché è falso il
presupposto che i mercati sono efficienti e riflettono semplicemente la
realtà. I prezzi di mercato possono a un certo punto a loro volta
influenzare la realtà. Perciò la speculazione può diventare una
previsione che si realizza. Quando ad esempio si specula contro una
banca o uno Stato molte persone si allarmano, per cui clienti e
investitori disinvestono.” D: “Quali conclusioni ne trae?” R: “Le banche
centrali e gli istituti di vigilanza devono combattere le bolle
finanziarie. Finora non l’hanno fatto, perché credevano a torto
all’efficienza dei mercati.” D: Che cosa dovrebbero fare in futuro?” R:
“Si dovrebbe nei periodi di boom costringere le banche a depositare più
riserve presso la banca centrale, riducendo così l’offerta di
crediti.” D: “Che ne pensa di un’imposta sulle transazioni
finanziarie?” R : “Si dovrebbe provare seriamente; non sarebbe male se
si riducesse la liquidità sui mercati. E perché lo Stato non dovrebbe
con questa imposta trovare una nuova fonte finanziaria, visto che
riscuote già un’imposta sul valore aggiunto.” The Economist del
7 gennaio del 2012 scrive che gli hedge funds hanno fatto ricchi i
loro proprietari e/o manager, ma certo non i loro clienti, che negli
Stati Uniti dal 1998 hanno guadagnato in media circa il 2 per cento
all’anno, cioè la metà di quanto avrebbero ricavato dai buoni del
tesoro. In sintesi: “ L’investimento nei hedge funds consentirà ad
alcuni fortunati manager di godersi anticipatamente la pensione sui
loro yachts, ma non permetterà ai fondi pensionistici di saldare i loro
deficit.”
Lo stesso settimanale qualche settimana dopo registra un andamento
analogo per le private equity che fra il 2000 e il 2008 hanno visto
salire gli investimenti dei clienti ( anche in questo caso i fondi
pensionistici hanno fatto la parte del leone ) da 75 miliardi a 190,
mentre le rendite sono calate dal 15 al 2 per cento – da ricordare che
le Private Equities avevano fatto largo ricorso ai debiti invece che al
capitale proprio, perché gli interessi pagati alle banche sono portati
in detrazione fiscale (!), ma ora questo grande debito pregresso da
ammortizzare pesa fortemente sui loro bilanci.
Die Zeit del 12 aprile 2012 riporta un’intervista con Robert
Johnson, un ex-manager dei Hedge Funds: “Gli economisti neoliberisti
fanno sempre finta di essere osservatori obiettivi, come una specie di
marziani che guardano gli uomini dall’alto in basso e li descrivono come
esseri egoisti e avidi, mentre essi non sono marziani, ma uomini
normali a cui interessa il potere, il prestigio e il denaro. Essi
servono alcuni interessi e non altri e si fanno strumentalizzare. Basta
guardare ai mercati finanziari, dove gli errori intellettuali degli
economisti hanno condotto a una errata liberalizzazione dei mercati
finanziari e alla nascita dei derivati. Sono stati i loro consigli a far
sì che i politici abbiano stimolati questi mercati, invece di
regolarli.” Nel frattempo egli ha creato l’INET, Istituto per il nuovo
pensiero economico, che sovvenziona giovani economisti che cercano nuove
idee, visto che “a livello mondiale crescono le disuguaglianze e la
crisi ecologica mostra che non possiamo più continuare a produrre come
abbiamo fatto finora.”
Enorme aumento delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza
Dati importanti sull’incremento delle disuguaglianze di reddito e di
ricchezza all’interno dei singoli paesi o aree si trovano nel libro di
Glenn Firebaugh, The New Geography of Global Income, Harvard
University Press, Cambridge ( Mass. ), 2003. Fra il 1980 e il 1995 le
disuguaglianze di reddito sono aumentate del 10 per cento nell’Europa
occidentale, del 18 nel Nordamerica, Australia e Nuova Zelanda, del 23
per cento in Asia (ma di oltre la metà in Cina) e sono più che
raddoppiate nell’Europa orientale (compresa la Russia), area che nel
1989 mostrava la minore disuguaglianza di reddito. La crescita della
finanza è fortemente responsabile dell’aumento della disuguaglianza di
reddito in Italia fra il 1989 e il 2009: il 40 per cento inferiore nella
scala della ricchezza delle famiglie si aggiudicava l’8,3 per cento
della ricchezza nel 1989 e il 7 nel 2000, per il successivo 40 per
cento la quota scendeva dal 33,8 al 29,2 , mentre per il 20 per cento
superiore la quota saliva dal 57,9 al 63,8 ; se si scompone
quest’ultima quota la disuguaglianza aumenta dal 40,2 al 48,5 per cento
per il 10 per cento superiore delle famiglie, dal 27,3 al 36,4 per il 5
per cento e dal 10,6 al 17,2 per l’1 per cento, che è moltissimo in
termini relativi. L’indice di Gini complessivo sale dallo 0,533 nel 1989
allo 0,613 nel 2000, ma quello dei beni reali (soprattutto abitazioni)
passa solo dallo 0,575 allo 0,596, laddove quello delle attività
finanziarie balza dallo 0,677 allo 0,806. (A. Brandolini, L. Cannari, G.
D’Alessio e I.Faiella, Household wealth distribution in Italy in the 1990s, Banca d’Italia, “Temi di discussione”, n.530, dicembre 2004).
The Economist del 17.06.2006 forniva per il 2000 la classifica
di Gini, che va da 0 = perfetta uguaglianza a 1= disuguaglianza
massima, i seguentidat: Stati Uniti 0,41 ; Italia 0,34; Gran Bretagna
0,33; Giappone 0,32; Germania 0,28; Francia 0,28; Svezia 0,24, Danimarca
0,23; Brasile 0,59! Negli Stati Uniti lo 0,1 per cento dei più
ricchi aveva una quota sul totale del reddito nel 1929 dell’8 per cento,
scesa nel 1979 al 2 nel periodo del capitalismo regolato, per risalire
nel 2000 al 6,3 per cento.
Le riduzioni fiscali decise da Bush si sono così ripartite sommandole
tutte dal 2001 al 2010 per quintile delle classi di reddito: 3
miliardi di dollari al quintile inferiore, 15 a quello successivo, 23
al terzo, 31 al quarto e 163 al quintile superiore . In un paese in
cui già nel 2001 la ricchezza era così ripartita : in debito il
quintile inferiore, in pareggio praticamente quello successivo (0,3 per
cento), 4 per cento il terzo e 11 il quarto, 85 il quintile superiore
(coll’ 81 per cento il decile più ricco e con il 33 l’1 per cento più
ricco).
In Germania il 26 per cento dei bambini con età inferiore ai 15 anni
vivono in famiglie sostenute dall’assistenza sociale nel 2007.
Comunque, la povertà che è salita dal 12 per cento nel 1999 al 20 nel
2009 non colpisce quasi gli anziani perché prevale ancora il sistema
pensionistico pubblico a ripartizione, come scrive l’autorevole
settimanale liberale “Die Zeit” del 31 dicembre: “Quando i mercati
finanziari si trasformano in casinò, i buoni consigli non servono più a
niente. In questa situazione si rivela una fortuna il fatto che in
Germania l’assicurazione pensionistica non dipenda dall’altalena dei
prezzi delle azioni e dei tassi di interesse. Il crollo dei corsi
azionari, la crisi bancaria, l’ondata di vendite dei hedge funds non
hanno nemmeno sfiorato le casse della previdenza. Al contrario, il
sistema pensionistico basato sul sistema a ripartizione, tanto criticato
in passato e spesso dichiarato inaffidabile per il futuro, si è
dimostrato una volta di più una colonna portante della stabilità
sociale…Uno dei vantaggi poco rilevato ma importante del sistema
pensionistico pubblico risiede nel fatto che nessuno ci guadagna del
denaro. Non c’è posto per mediatori, consulenti e venditori del settore
finanziario di prendere soldi dalla cassa comune. Non ci sono
provvigioni, commissioni, costi pubblicitari. L’assicurazione
pensionistica pubblica lavora in modo molto efficiente: i costi
amministrativi costituiscono l’1,1 per cento dei pagamenti.”
L’articolista fa ancora notare che col sistema a ripartizione gli
anziani percepiscono una pensione che si basa tanto sul reddito di
lavoro di quando erano attivi quanto sull’evoluzione dei salari negli
anni in cui godono della pensione; la pensione pubblica a differenza di
altre forme di assicurazione contro la vecchiaia è inoltre protetta
dall’inflazione.
La crescita forte delle disuguaglianze sociali negli USA si riverbera
anche nei tanto decantati consumi privati che dovrebbero sostenere il
modello neoliberista in crisi: il quintile superiore nella scala della
ricchezza contribuiva per il 60 per cento ai consumi privati, il
quintile inferiore per il 3 e i tre quintili che formano il cosidetto
ceto medio per il 37 per cento.
Ancora più significativi delle disuguaglianze all’interno degli Stati
sono i dati seguenti: negli USA fra il 1952 e il 1986 in nessun anno
l’1 per cento dei più ricchi ha guadagnato una quota superiore al 10 per
cento del PIL; nel 2007, prima della crisi, tale quota è arrivata al
18,3, praticamente uguale a quella del 18,4 registrata nel 1929, inizio
della Grande Crisi. Fra il 1986 e il 2006 l’indice di Gini è salito da
0,34 a 0,38 in USA, da 0,28 a 0,41 in Cina, da 0,32 a 0,37 in India, da
0,30 a 0,33 in Giappone, da 0,26 a 0,30 in Germania, da 0,20 a 0,23 in
Svezia.
L’aumento delle disuguaglianze è stato alimentato dalla politica
fiscale a favore delle imprese e dei redditi alti a scapito dei
lavoratori: fra la metà degli anni Novanta e oggi la Germania ha
diminuito l’aliquota di imposte sulle società di 27 punti percentuali e
quella sui redditi personali più alti di 9,5 punti; Spagna e Francia
hanno ridotto le aliquote sui redditi più alti di 13 punti, l’Italia di
6 punti, abbassando quella delle società addirittura di 27 punti.
Cambiamento climatico e gestione ottimale delle risorse
Da quanto appena detto, dovrebbe emergere l’esigenza di un nuovo
modello economico che concili la salvezza del pianeta con una vita
dignitosa di tutti gli abitanti della Terra. Una serie di associazioni
italiane, dalla CGIL alla Coldiretti, da Legambiente al WWF, dal Terzo
settore al volontariato laico e cattolico, tutte aderenti alla
“Coalizione in marcia per il clima” hanno sottoscritto un documento in
cui si sostiene:
“Per rispondere in modo efficace alla sfida
dei cambiamenti climatici e approdare a un sistema economico a basse
emissioni, saranno necessari entro il 2030 investimenti aggiuntivi a
livello globale pari a 200-210 miliardi di dollari all’anno, mentre
23-54 miliardi di dollari saranno annualmente indispensabili per
prevenire e porre rimedio agli impatti dei cambiamenti climatici.
Investimenti necessari ma anche utili a rilanciare l’economia in una
fase di crisi globale.” (“il manifesto”, 23 aprile 2009)
Si tratta quindi di enunciare i principali problemi di una
riconversione ecologica dell’economia e della società e delle politiche
necessarie per salvare il pianeta. Puntare l’attenzione solo sulla
crescita del PIL è fuorviante anche perché nei calcoli del PIL non
viene portato in detrazione la perdita secca della ricchezza nazionale
dovuta alle catastrofi naturali (anche quelle indotte dall’uomo), mentre
vengono computati in addizione le risorse spese per eliminare i danni
provocati.
“Senza profonde riforme economiche non
cambierà niente. Sia la crisi ambientale che quella finanziaria sono i
due lati della medaglia della guerra al futuro, condotta dall’avidità
finanziaria del mercato dei capitali e dal saccheggio dei fondamenti
naturali della vita. Questa guerra non può essere vinta con gli stessi
strumenti con cui essa è condotta. Si tratta invece di capire quali
siano cause, forze motrici e interessi che ne stanno dietro. Allora
forse cambierà qualcosa. Ne vanno di mezzo democrazia, giustizia e
libertà. Senza una cultura sostenibile nel vero senso della parola che
conosca l’autolimitazione e l’austerità non è possibile difendere o
conseguire tali valori.” (articolo scritto da due noti studiosi
dell’ambiente tedeschi per il settimanale liberale “Die Zeit” del 7
gennaio 2010)
I temi in discussione sono vari: energie alternative, sovranità
alimentare, riduzione dei rifiuti e degli sprechi anche attraverso il
riciclaggio, beni comuni; su quest’ultimo problema non si può che
sottoscrivere quanto sostiene il presidente dell’Istituto europeo di
ricerche sulle politiche dell’acqua, Riccardo Petrella: “La Sinistra
storica anticapitalista deve affermare che il primato dell’umanità, in
quanto portatrice di diritti e bisogni primari, deve rappresentare il
paradigma assunto da un’autorità politica mondiale di regolazione
dell’acqua e del clima: E cioè che l’aria, l’acqua, la terra, le
foreste, devono essere considerati beni comuni mondiali. Dunque bisogna
andare ben oltre il mercato delle emissioni, il mercato dei rifiuti, il
mercato dei derivati. Loro sono stati capaci di mercificare ogni cosa,
noi dobbiamo essere capaci di trasformare quei ‘beni alienati’ in
‘beni comuni del’umanità’.” (Liberazione dell’11 luglio 2009)
La crisi provocata dal neoliberismo deve essere superata con
interventi dello stato che non siano semplici salvataggi ma promuovano
un tipo diverso di economia e società. Come scrive Marco d’Eramo in un
editoriale de “il manifesto” del 29 aprile 2009:
“Non è vero che di notte tutti i gatti
sono neri. C’è capitalismo e capitalismo. Laburismo, socialdemocrazia e
New Deal erano lontani anni luce dal nazismo e dal fascismo che pure
furono appoggiati dal gran capitale. Proprio come il capitalismo e
l’imperialismo dell’amministrazione Bush ci hanno precipitato in una
barbarie giuridica e in una ferocia sociale, hanno fatto terra bruciata
dei diritti civili, carta straccia dell’habeas corpus e delle
garanzie costituzionali, hanno ridotto la politica alla guerra e la
guerra alle polizie segrete… Così, almeno per il momento, è finita in
soffitta la vecchia ortodossia monetarista friedmaniana, il cui dogma
assoluto è che la sola razionalità risiede nel libero mercato, la sola
efficienza nel privato, e che tutto ciò che è pubblico va
smantellato.”
A proposito cosa vogliamo rispondere a un appello come quello
lanciato da ricchi tedeschi dal titolo “ Introdurre un’imposta sui
patrimoni!” nel maggio del 2009, in cui si scrive: “L’attuale crisi
finanziaria ed economica aumenterà la disoccupazione, la povertà e la
disuguaglianza sociale. Essa è in primo luogo il risultato delle
politiche neoliberiste, che hanno imposto la deregolazione dei mercati,
senza fissare alcun limite sociale e ambientale al capitalismo
globalizzato. Con la crisi si apre una prospettiva di svolta verso una
diversa politica economica e sociale; il superamento della crisi va
fatto con massicci investimenti per il futuro in ecologia, istruzione e
giustizia sociale. Coloro che hanno un patrimonio superiore ai 500.000
euro devono contribuirvi con una tassa una tantum del 5 per cento
annuale per due anni, che poi diventerà successivamente un’imposta
patrimoniale duratura di almeno l’1 per cento.” E pensare che il
sindacato di categoria più radicale da decenni nella RFT, l’IG Metall,
aveva chiesto in un suo documento del marzo scorso di imporre un
prestito forzoso del 2 per cento sui patrimoni privati superiori a
750.000 euro; qui abbiamo invece dei ricchi che chiedono di pagare
un’imposta secca del 5 per cento, anziché concedere un prestito del 2
per cento!
Del resto, un altro tipo di capitalismo è stato sperimentato in
Europa occidentale fra il 1960 e il 1980. La guerra fredda tra Est e
Ovest inaugurata dal discorso di Churchill a Fulton nel 1947 ha avuto
paradossalmente effetti largamente positivi sul piano economico e
sociale nell’Europa occidentale. Essa denunciava la chiusura dell’Unione
sovietica di Stalin e la progressiva dominazione dell’Europa
orientale, ma contemporaneamente apriva una forte competizione fra i
due massimi sistemi in Europa, capitalismo contro comunismo, e per
essere convincente doveva sottrarre dal bagaglio propagandistico
comunista gli aspetti macroscopicamente negativi del sistema
capitalistico.
A differenza del primo dopoguerra quando la politica di pesanti
riparazioni di guerra imposta alla Germania fu tra le cause dell’avvento
del nazismo, era quindi necessario puntare a un rapido ricupero delle
economie disastrate dalla guerra nell’Europa occidentale, realizzato
anche grazie agli aiuti previsti dal Piano Marshall, contrastando così
il prestigio guadagnato dall’Unione sovietica a Est e a Ovest con il
grande contributo offerto dall’Armata rossa alla vittoria sul nazi-
fascismo. Sul piano ideologico, bisognava dimostrare che il capitalismo
non era un sistema di mero sfruttamento dei lavoratori da parte dei
detentori del capitale e la cui inefficienza economica sarebbe stata
testimoniata dalla Grande Crisi del 1929; entrambi argomenti principali
della battaglia ideologica comunista contro il sistema borghese. In
effetti, la ricostruzione economica procedette rapidamente, tanto che
essa poté considerarsi conclusa nel 1960 circa per l’insieme dell’Europa
occidentale.
Le aperture sul piano sociale verso i lavoratori dovevano dimostrare
che le economie di mercato erano società senza classi basate sul ceto
medio, sempre più ampio e ricco. Da qui una politica economica che
puntava sulla piena occupazione, sulla crescita del reddito nazionale,
in cui i salari aumentavano in linea col progresso della produttività, e
sulla formazione dello stato sociale, tale da garantire a tutti il
diritto all’istruzione, alla salute e alla previdenza pensionistica.
L’economia di mercato non era lasciata al libero gioco delle forze di
mercato, ma era guidata da uno Stato regolatore, che in alcuni paesi e
segnatamente in Italia era anche imprenditore. Questo tipo di
capitalismo fu chiamato economia mista per sottolineare il crescente
peso dello stato, neocapitalismo in Italia, economia sociale di mercato
ufficialmente nella Repubblica federale tedesca, tardo capitalismo
negli ambienti di sinistra di quel paese e successivamente capitalismo
corporatista per sottolineare un sistema basato sull’accordo fra stato,
imprese e sindacati. Va, peraltro, notato che non in tutti i paesi
dell’Europa occidentale questo accordo funzionò sin dall’inizio senza
quasi conflitti: esso ebbe vita facile nei paesi nordici, dove il
partito socialdemocratico e i sindacati avevano conquistato un ruolo
preminente già negli anni ’30, e nella Germania federale, dove più forte
era la competizione ideologica fra Est e Ovest e si riteneva che la
pace sociale valeva bene una messa. Le condizioni di vita e di lavoro
dignitose per i lavoratori furono conquistate con la rivolta del maggio
1968 in Francia, con gli scioperi selvaggi in Gran Bretagna e con i
forti scioperi unitari delle tre grandi centrali sindacali in Italia a
cavallo fra gli anni ’60 e ’70. Si ebbe, infatti, fra il 1960 e il 1980
quasi una triplicazione dei salari reali nell’Europa occidentale, e la
spesa sociale sul PIL salì dal 14 al 24 per cento.
Il predominio del neoliberismo iniziato coi governi Thatcher in Gran
Bretagna e Reagan negli Stati Uniti ha ridotto fortemente la quota dei
salari sul PIL e la spesa sociale, favorendo i profitti e soprattutto
le rendite,e alla fine ha aperto la crisi finanziaria ed economica
attuale. Di fronte all’ampiezza di questa lo stesso The Economist, la bibbia dell’ideologia neoliberista, aveva scritto nell’ottobre del 2008 in un editoriale dal titolo significativo Salva il sistema :
“L’economia mondiale si trova in una brutta
situazione, ma potrebbe andar peggio. Questo è il momento di mettere
da parte i dogmi e la politica e concentrarsi su risposte pragmatiche.
Ciò significa nel breve termine interventi dello Stato e cooperazione
più di quanto contribuenti, politici o giornali del libero mercato
amerebbero in casi normali… Lo Stato dovrebbe intervenire su tre
piani: sbloccare i mercati del credito, accrescere il capitale delle
banche, ridurre i tassi di interesse e concedere agevolazioni fiscali.”
Puntualmente, i paesi capitalistici sviluppati hanno seguito questa
raccomandazione, inondando di soldi le banche di investimento:
soltanto negli Stati Uniti sono stati stanziati 1.740 miliardi di
dollari. Ovviamente, questi aiuti finanziari hanno peggiorato i conti
pubblici e subito l’ineffabile settimanale inglese il 23 gennaio 2010
con il titolo programmatico STOP! Le dimensioni e il potere dello Stato sta crescendo, ma sale anche l’opposizione a ciò
ha ripreso la crociata neoliberista, prendendo spunto dalla perdita
del seggio del Partito democratico al Senato degli USA, che fu di Ted
Kennedy, in Massachusetts all’inizio dell’anno scorso per chiedere la
riduzione del peso dello Stato. E scrive testualmente in questo
editoriale:
“Si possono ridurre le retribuzioni del
settore pubblico, visto che tali posti di lavoro sono sicuri: sia negli
Stati Uniti che in Gran Bretagna i dipendenti pubblici sono pagati
meglio che quelli privati; le pensioni pubbliche sono troppo generose
in confronto a quelle del settore privato che si riducono, per cui si
possono tagliare i diritti ma aumentando l’età pensionabile. E il mondo
diventerà un luogo più verde e prospero se scompariranno i vari
ministeri dell’agricoltura in Occidente… Una grande battaglia sullo
Stato sta emergendo ovunque e come nel caso di un’altra storica
rivoluzione il primo sparo si è fatto sentire nel Massachusetts.”
Invece di perderci in battaglie ideologiche di retroguardia sulla
purezza anticapitalistica, dovremmo cercare di mettere in cantiere
politiche di superamento del neoliberismo concreto che ci ha portato
alla drammatica situazione del presente e del futuro prossimo, anche sul
piano della battaglia ambientale, come afferma uno dei massimi
studiosi della crisi climatica. In un’intervista su “Die Zeit” del 26
marzo del 2009 J. Schellnhuber, direttore del Postdamer Institut fuer
Klimafolgenforschung e membro del Consiglio mondiale del clima, dal
titolo Talvolta potrei urlare! sostiene: “La crisi economica è
drammatica e brutale, ma se ciò dovesse condurre a trascurare la difesa
del clima sarebbe un disastro, secondo lo slogan prima facciamo
ripartire l’economia e poi ci preoccuperemo di nuovo del clima. Che
incredibile cinismo: noi riteniamo più importante la conservazione di un
benessere spropositato di una ristretta elite economica che non il
futuro di intere generazioni.” Avrei qualche difficoltà ad accettare il
termine “elite” per banditi che per conservare alte rendite stanno
tranquillamente distruggendo il futuro perfino per i loro figli e
nipoti…
Sul ruolo dello Stato è molto interessante il dibattito ospitato da Die Zeit .
Nel dicembre del 2009 lo scienziato tedesco Ernst Ulrich von
Weizsaecker è molto chiaro nel descrivere il rapporto fra Stato e
imprese. Egli registra infatti:
“Nel cosiddetto triangolo della
sostenibilità ci sono un fattore forte e due deboli: quello forte è
l’influenza economica, i deboli sono l’influenza sociale e quella
ecologica. Credere che si possa avere la sostenibilità senza uno stato
forte è pura illusione… La politica è diventata inefficace, perché il
mercato attraverso il diktat del massimo profitto impedisce allo Stato
di porre delle regole. Se un governo si immischia, il capitale farà di
sicuro in modo che si fugga da tale paese. Il coordinamento
internazionale sarebbe l’unica soluzione.”
Sullo stesso settimanale in data 7 gennaio 2010 interviene lo storico USA, Tony Judt, che incalza la Sinistra:
“ La sinistra politica ha qualcosa da
conservare: i diritti politici; essa ha ereditato la moderna spinta
ambiziosa da esercitare in nome di un progetto universale di istruzione
e innovazione. La socialdemocrazia deve sostenere le conquiste del
passato con decisione. Lo sviluppo di uno stato delle prestazioni
sociali che nell’ edificazione lunga un secolo del settore pubblico ha
impregnato la nostra identità collettiva e i nostri comuni obiettivi
con la conquista dello stato sociale come un diritto e la sua garanzia
un dovere sociale… Altri hanno utilizzato gli ultimi tre decenni per
destabilizzare e respingere indietro sistematicamente questi
miglioramenti: dovremmo essere molto più arrabbiati di quanto non lo
siamo. Ci dovrebbe anche preoccupare : perché siamo stati tanto rapidi
nel distruggere la diga che i nostri predecessori avevano costruito con
tanta fatica? Siamo tanto sicuri che non arriveranno nuove ondate? “
Per la serie Lotta di classe dall’alto (titolo significativo
usato da un settimanale liberale!) un altro autore, Boris Groys,
filosofo e matematico dell’Università di New York, ricorda al cosiddetto
ceto medio quale dovrebbe essere la sua funzione:
“E’ il ceto medio che supporta e cura lo
stato sociale e occupa i suoi gradini gerarchici. Il ceto medio
amministrativo addirittura lo rappresenta, pur essendo quello che ne
approfitta di meno. Per cui c’è da attendersi che prima o poi questo
ceto medio se ne accorgerà che è insensato reggere una struttura
sociale di cui ne approfittano solo altri…Solo quando il ceto medio
prenderà coscienza di questo fatto, potrà emergere una nuova battaglia
politica, una nuova rivoluzione delle virtù, che sarà nel solco della
tradizione della Rivoluzione francese e della Rivoluzione d’ottobre
russa..” ( Die Zeit del 17 dicembre 2009)
Lo scontro non è più fra le classi secondo gli apologeti
neoliberisti, ma fra le generazioni: in base alla ricchezza per classi
di età, in Gran Bretagna la popolazione inferiore ai 40 anni costituisce
la metà del totale ma possiede solo il 15 per cento delle attività
finanziarie; fra il 1995 e il 2005 la quota di ricchezza detenuta dalle
persone comprese fra 25 e 34 anni è calata, mentre sarebbe triplicata
secondo la Banca d’Inghilterra quella della classe fra 55 e 64 anni (The Economist del
13 febbraio 2010). Questa è una conseguenza della precarizzazione del
lavoro voluta dalle politiche neoliberiste; altro che attaccare i
pensionati perché troppo ricchi e vedere come una iattura l’aumento
della speranza di vita! Ben altri giudizi arrivano dal filosofo
francese, Lucien Séve in Le Monde diplomatique del gennaio 2010 che rivendica l’effettiva emancipazione delle età sociali.
“Si tratta di offrire a ognuno una
formazione iniziale di alto livello, eliminare la disoccupazione
giovanile, sradicare in profondità l’alienazione del lavoro, garantire
una sicurezza continua del lavoro e/o della formazione, passare da un
tempo libero miseramente compensatorio a una vita fuori del lavoro
riccamente formativa, favorire al massimo la formazione dei
cinquantenni alla vita post-professionale – offrendo così la
prospettiva di un lungo tempo diversamente attivo, fuori dalle logiche
sfruttatrici in un sistema consolidato di pensioni per ripartizione,
rivalorizzate sulla base di una più equa distribuzione delle ricchezze e
indicizzate sui salari. Ecco ciò che farebbe della Francia del 2040 il
contrario di un paese invecchiato.”
Del resto, Fred Pearce, studioso di questioni ambientali di fama mondiale, ha relativizzato il problema demografico in Tutto scienze, supplemento settimanale de La Stampa ( 12 maggio 2010 ), scrivendo:
“ Non possiamo risolvere il problema del
cibo o dell’energia o dei cambiamenti climatici e tutto a causa della
sovrappopolazione – dicono gli ambientalisti. E’ sbagliato: l’impatto
decisivo sulla Terra non è quello dei popoli poveri, ma delle nazioni
ricche. E infatti, anche se oggi l’umanità si bloccasse a 7 miliardi,
l’ambiente continuerebbe a deteriorarsi a causa delle nostre cattive
abitudini, come quella di bruciare combustibili fossili. Ecco perché,
invece della Bomba della Popolazione, ci si deve preoccupare della Bomba
dei Consumi: è questa, mentre si diffonde in Paesi un tempo
sottosviluppati, che rischia di distruggerci.”
Tornando al dibattito sul cambiamento climatico, tre noti studiosi tedeschi hanno scritto su Die Zeit del 15 aprile 2010 quanto segue:
“Liberare la società mondiale rapidamente,
cioè entro la metà del nostro secolo, dalla dipendenza dalle energie
fossili, avrebbe tre vantaggi: In primo luogo, si stabilizzerebbe il
clima; inoltre, con ciò si passerebbe a una fonte di energia ad alta
efficienza e sostenibilità proveniente dal sole, dal vento e dalle onde
marine; infine, molti paesi in via di sviluppo potrebbero saltare le
fasi di industrializzazione ‘sporche’. La direzione di marcia di una
strategia del clima razionale è per noi chiara: L’obiettivo di ridurre
di due gradi il riscaldamento del clima stimola innovazioni tecniche e
investimenti nei sistemi di energie rinnovabili e nell’efficienza delle
risorse, promuove intelligenti sistemi di mobilità spaziale e offre a
imprese e consumatori aspettative di sicurezza a livello mondiale.”
Come si possa passare a un altro modello di vita lo spiega bene un assessore regionale di Brema:
“Nel porto della città c’erano molti
vecchi capannoni in degrado, che ora vengono risistemati da giovani
architetti, che riutilizzano tutto ciò che resta per il rinnovo degli
ambienti: porte, finestre, ecc. e non solo parti di antiquariato,
rifacendosi a un esempio della Svizzera, che per legge impone di
riutilizzare tutto ciò che si ottiene dall’abbattimento di un edificio.
Anche imprenditori sono conquistati dal rifiuto di continuare col
modello ‘sempre di più, sempre più velocemente, sempre avanti così’.
Nel mercato del pesce a Brema, un imprenditore ha aperto dopo 20 anni un
nuovo capannone, in cui l’energia è prodotta in proprio per il 60 per
cento, e ha deciso di non aumentare oltre 50 il numero dei suoi operai,
perché la ditta perderebbe il carattere familiare e a lui passerebbe
il piacere di lavorare.” (Die Zeit, 30 dicembre 2010)
Andando alla radice del mito della crescita economica, su Blaetter fuer deutsche und internationale Politik
del dicembre 2011 è apparso un saggio molto interessante di Harald
Welzer (direttore del “Klimawandelinstitut”- Istituto di ricerca sul
cambiamento climatico) dal titolo Aus Fremdzwang wird Selbstzwang (Da una costrizione esterna si passa a un’autocostrizione – Come l’idea di “crescita” è entrata nelle menti). L’autore
inizia il discorso partendo dal fatto che l’idea della crescita
presuppone quella del futuro, che è una categoria di pensiero
inesistente fino al 1600; quando si parlava del futuro si faceva
riferimento all’Avvento, ossia al ritorno di Cristo alla fine dei tempi,
e non al raggiungimento di una situazione diversa nell’esistenza
terrena. In altri termini, l’idea dell’espansione di un qualsiasi
aspetto della vita è storicamente recente; lo stesso dicasi per il suo
correlato, cioè il futuro riferito al corso della vita, l’autobiografia.
Nelle condizioni sociali dipendenti da una struttura del potere
statica in un ordine precostituito è praticamente inesistente il
concetto di autobiografia o di individualità; il posto di ognuno nella
società è fissato dalla nascita. Welzer ricorda che è Marx a sostenere
che lo sconvolgimento sociale provocato dal capitalismo con la prima
rivoluzione industriale apre il discorso della responsabilità del
singolo per la sua biografia. Nella produzione industriale si lavora per
ottenere una serie infinita di prodotti al fine di conseguire il
plusvalore; qui sono le radici non solo dell’idea della crescita
illimitata, ma anche della mentalità dell’uomo che cresce sempre, cioè
dell’uomo economico. Per concludere:
“Il problema è che questa cultura della
crescita non arriva con l’esaurimento delle risorse al temuto punto
della finitezza, dove essa non funziona più, ma già prima in
conseguenza dei danni da essa provocata che ne minano le stesse
condizioni di sopravvivenza; la categoria della finitezza è per questa
cultura insopportabile come la morte per l’individuo… L’edificazione
delle infrastrutture materiali e istituzionali della modernità ha
modificato anche le infrastrutture mentali dei suoi abitanti, nel senso
che la costrizione alla crescita permanente è da tempo diventata
un’autocostrizione, tanto che nessuno si chiede a che serva tutto
questo.”
Infine, su Le Monde diplomatique, edizione italiana, del novembre 2011 Lucien Séve sostiene una tesi ancora più radicale come si evince dal titolo Salvare il genere umano non solo il pianeta.
Secondo l’autore siamo ormai alla mercificazione generalizzata
dell’umano, proprio perché “non c’è più nulla di umano che possa
sfuggire al diktat della finanza: tutto deve produrre spietatamente un
profitto a due cifre… il che significa anche finanziarizzazione
generalizzata dei servizi tesi a formare e sviluppare le persone –
salute, sport, insegnamento, ricerca, creazione, tempo libero,
informazione, comunicazione; di colpo le finalità proprie di queste
attività tendono a essere scalzate dalla legge del denaro”. A questa
mercificazione si accompagnano la tendenza allo svuotamento di tutti i
valori, la perdita incontrollabile di senso, la decivilizzazione senza
argini, ma soprattutto la proscrizione sistemica delle alternative: “la
frenesia del profitto tende a persuaderci della fatalità del peggio; il
sistema stesso, la cui parola d’ordine è libertà, ha assunto come motto non ci sono alternative
della Thatcher – e infatti come possiamo liberarci dell’onnipotenza
dei mercati finanziari e delle agenzie di rating se la gigantesca crisi
del 2008 non ha cambiato niente di significativo all’interno del
sistema?”. E termina sostenendo che la carica etica dell’indignazione
riavvicina alla politica e “deve portare a un nuovo tipo di azione, non
nel senso della rivoluzione all’antica attraverso delle trasformazioni
dall’alto, il cui fallimento è garantito, ma di impegno a tutti i livelli
per l’ appropriazione comune in forme innovative di iniziativa e di
organizzazione; a questo prezzo si potrà far deragliare la fatalità del
peggio.”
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