Prima
ha nominato Monti senatore a vita senza alcune motivazione di quelle
previste dalla Costituzione. Poi lo ha nominato capo del Governo, senza
andare alle elezioni. Oggi scioglie anticipatamente le Camere senza che
il Governo sia stato sfiduciato, come prevede la prassi costituzionale.
In poche parole – da parte di Napolitiano – abbiamo assistito ad una
violazione grave della Costituzione. Viceversa egli ha sua assunto un
ruolo eminentemente politico che la Costituzione stessa non prevede per
il Presidente della Repubblica.
La resa del Colle
Di fronte a una soluzione conveniente per tutti, il Quirinale non ha avuto la forza di difendere i principi. Ha dovuto dare dignità formale a dichiarazioni «irresponsabili» delle forze politiche
Il
Presidente della Repubblica ha dichiarato che lo scioglimento delle
Camere era «la strada segnata dai fatti». È sempre strano sentir
richiamati i «fatti» in cose politiche; perché la politica è agire
pubblico, scelta, deliberazione, con cui i fatti sono trasformati in
idee e comportamenti, dei quali qualcuno si dice autore e si prende la
responsabilità. È stranissimo sentire richiamata la forza normativa del
fatto da parte della istituzione di garanzia, posto che la Costituzione
sta lì apposta affinché non i fatti ma il diritto ci governino. Quando
poi, come nel caso di specie, i fatti contrastano con le scelte a
fondamento delle quali sono richiamati, si è davvero disorientati.
Leggendo le dichiarazioni rilasciate dagli esponenti dei maggiori partiti dopo le brevissime consultazioni che hanno preceduto il decreto di scioglimento, si registra che: il Pd, per non parlare dell’Udc, rivendicano la propria strenua fedeltà al governo Monti; il Pdl dichiara di avere solo «preso atto della volontà di Monti di dimettersi». Se i partiti che hanno sostenuto il Governo hanno confermato al Capo dello Stato di avere fiducia in esso, i fatti provano tutto meno che la necessità dello scioglimento. Semmai, essi denotano la possibilità e doverosità di rinviare il governo alle Camere, per quella «parlamentarizzazione» della crisi che, secondo una buona prassi costituzionale, serve a più scopi. È necessaria per rendere esplicite davanti all’elettorato le posizioni dei partiti nei confronti del governo, chiarendo le responsabilità e le cause di una crisi. Serve a verificare se il governo gode ancora della fiducia, il che, in caso affermativo, potrebbe portare a concludere che non può dimettersi, o comunque farebbe risalire in modo nitido ad esso la volontà della crisi, e, nel caso attuale, della anticipazione delle elezioni.
Consapevole forse che i fatti sono molto poco probanti, e tuttavia deciso a sottoscriverne la normatività, Napolitano ha voluto far risaltare che, sulla «strada segnata dai fatti» riluceva un elemento formale: cioè le famose dichiarazioni di Alfano per cui il Pdl non intendeva più sostenere il governo. Ma un conto è dichiarare che non si vuol più sostenere il governo, un conto è dire con precisione, per esempio, a partire da quale momento questa revoca di fiducia è destinata a tradursi in azione; e un conto, dato lo sfilacciamento del Pdl, è anche dimostrare, ai voti, che tutto il gruppo parlamentare segue le dichiarazioni di un giorno del suo presidente. A dichiarazioni del genere, rese al Capo dello Stato o ripetute in parlamento, si può quanto si vuole fare l’omaggio verbale di elevarle a «forme», cioè ad azioni ed atti dotati di doverose conseguenze: ma restano fatti, vale a dire comportamenti del cui significato e delle cui conseguenze nessuno si è assunto la responsabilità.
L’osservatore realista sa che i fatti che hanno imposto a Napolitano di non difendere le ragioni delle istituzioni – le quali, nel caso di crisi di governo, vogliono la massima trasparenza e la presa di responsabilità di tutti gli attori, reciproca e verso l’elettorato – sono verosimilmente l’interesse del Pdl a non prendere una posizione chiara sul governo, cosa cui la «parlamentarizzazione» della crisi lo avrebbe costretto. E poi l’interesse di Monti a sentirsi un po’ più libero (sebbene sia sempre il presidente del Consiglio in carica, ancorché dimissionario) nel giocare un ruolo pesante in campagna elettorale. E infinte l’interesse di tutti i partiti (eccettuata IdV, che, sola tra i partiti rappresentati alle Camere, ha opportunamente chiesto la parlamentarizzazione della crisi), a non dispiacere troppo o a Monti o a Napolitano o a entrambi. Ecco perché i partiti hanno confermato la fiducia al governo ma non hanno chiesto la parlamentarizzazione della crisi, preferendo appartarsi nel comodo cono di una pigra ambiguità.
Di certo, rimandare il governo alle Camere avrebbe creato scompiglio. Che cosa sarebbe successo, non si sa. Quale maggiore prova, sia detto per inciso, che la forza schiacciante dei fatti non esiste come tale, ma è solo una comoda scorciatoia lessicale e simbolica per permettere che ad agire siano, come è inevitabile, valutazioni di opportunità, ossia modi in cui i fatti vengono letti, lasciati però adespoti, senza autori, senza responsabili? Probabilmente, a trovarsi davanti alla forza schiacciante del fatto, è stato proprio il Capo dello Stato, il quale ha sentito che tutti volevano lo scioglimento, e non è riuscito né a evitarlo, né a far sì che qualcuno se ne assumesse la responsabilità.
Troppo onore, allora, è stato offerto in questa occasione ai «fatti»: considerati così eccezionali da dettar legge, e invece equivalenti a soliti vecchi, cari, meri contingenti interessi di partito e di schieramento, come tanti che li hanno preceduti, e tanti che li seguiranno; nessun fatto straordinario, ma solo le solite cose, le piccole, opportunistiche, ringhianti cabale del potere. Proprio quel genere di cose davanti alle quali, in considerazione della loro naturale indisciplinatezza, della loro tendenza a subordinare a sé le regole e i principi che vogliono la politica responsabile e trasparente, è stata posta una istituzione di garanzia che quelle regole e quei principi faccia funzionare comunque, perché servono a raccordare i «fatti» a un più ampio orizzonte di senso. Nel quale, oltre che la convenienza di chi è al potere, o vuole andarci, deve pesare il sovrano giudizio di chi è governato.
Il richiamo ai fatti nel discorso sullo scioglimento è allora una dichiarazione di sconfitta, e suona tristemente per tutti. Sconfitta dei principi costituzionali che impongono trasparenza e responsabilità alla politica. Sconfitta della politica, che nascondendosi dietro ai «fatti» e non sapendo più rivendicare il proprio potere e dovere di esprimere scelte e valutazioni, si dichiara inutile e superflua.
Tutte le forze politiche che hanno chinato il capo davanti alla invocazione dei «fatti» come motivo inappellabile dello scioglimento anticipato delle Camere, che non hanno preteso di parlare con chiarezza, di agire pubblicamente, di rispondere al corpo elettorale hanno dichiarato, con ciò stesso, di servire a niente. E con questo hanno sottoscritto la dichiarazione che l’istituzione nella quale siedono, il parlamento, è inutile e merita di stare ai margini della decisione politica.
Solo che né i principi costituzionali, né il parlamento, né quella funzione, di trasformazione della realtà, che è della politica, sono cosa propria dei partiti; sono tutte cose che appartengono alla Nazione. Volente o nolente, il Capo dello Stato non è riuscito a ricordare ai nostri uomini di potere che essi sono tutti lì per esercitare dei doveri, non per fare quel che vogliono. Non li ha spronati all’orgoglio del loro ruolo, non li ha incitati ad essere migliori di quelli che sono. Ma del resto non è mai accaduto che inchinarsi alla forza dei fatti facesse risaltare la libertà e la grandezza dell’essere umano.
Silvia Niccolai - il manifesto
Leggendo le dichiarazioni rilasciate dagli esponenti dei maggiori partiti dopo le brevissime consultazioni che hanno preceduto il decreto di scioglimento, si registra che: il Pd, per non parlare dell’Udc, rivendicano la propria strenua fedeltà al governo Monti; il Pdl dichiara di avere solo «preso atto della volontà di Monti di dimettersi». Se i partiti che hanno sostenuto il Governo hanno confermato al Capo dello Stato di avere fiducia in esso, i fatti provano tutto meno che la necessità dello scioglimento. Semmai, essi denotano la possibilità e doverosità di rinviare il governo alle Camere, per quella «parlamentarizzazione» della crisi che, secondo una buona prassi costituzionale, serve a più scopi. È necessaria per rendere esplicite davanti all’elettorato le posizioni dei partiti nei confronti del governo, chiarendo le responsabilità e le cause di una crisi. Serve a verificare se il governo gode ancora della fiducia, il che, in caso affermativo, potrebbe portare a concludere che non può dimettersi, o comunque farebbe risalire in modo nitido ad esso la volontà della crisi, e, nel caso attuale, della anticipazione delle elezioni.
Consapevole forse che i fatti sono molto poco probanti, e tuttavia deciso a sottoscriverne la normatività, Napolitano ha voluto far risaltare che, sulla «strada segnata dai fatti» riluceva un elemento formale: cioè le famose dichiarazioni di Alfano per cui il Pdl non intendeva più sostenere il governo. Ma un conto è dichiarare che non si vuol più sostenere il governo, un conto è dire con precisione, per esempio, a partire da quale momento questa revoca di fiducia è destinata a tradursi in azione; e un conto, dato lo sfilacciamento del Pdl, è anche dimostrare, ai voti, che tutto il gruppo parlamentare segue le dichiarazioni di un giorno del suo presidente. A dichiarazioni del genere, rese al Capo dello Stato o ripetute in parlamento, si può quanto si vuole fare l’omaggio verbale di elevarle a «forme», cioè ad azioni ed atti dotati di doverose conseguenze: ma restano fatti, vale a dire comportamenti del cui significato e delle cui conseguenze nessuno si è assunto la responsabilità.
L’osservatore realista sa che i fatti che hanno imposto a Napolitano di non difendere le ragioni delle istituzioni – le quali, nel caso di crisi di governo, vogliono la massima trasparenza e la presa di responsabilità di tutti gli attori, reciproca e verso l’elettorato – sono verosimilmente l’interesse del Pdl a non prendere una posizione chiara sul governo, cosa cui la «parlamentarizzazione» della crisi lo avrebbe costretto. E poi l’interesse di Monti a sentirsi un po’ più libero (sebbene sia sempre il presidente del Consiglio in carica, ancorché dimissionario) nel giocare un ruolo pesante in campagna elettorale. E infinte l’interesse di tutti i partiti (eccettuata IdV, che, sola tra i partiti rappresentati alle Camere, ha opportunamente chiesto la parlamentarizzazione della crisi), a non dispiacere troppo o a Monti o a Napolitano o a entrambi. Ecco perché i partiti hanno confermato la fiducia al governo ma non hanno chiesto la parlamentarizzazione della crisi, preferendo appartarsi nel comodo cono di una pigra ambiguità.
Di certo, rimandare il governo alle Camere avrebbe creato scompiglio. Che cosa sarebbe successo, non si sa. Quale maggiore prova, sia detto per inciso, che la forza schiacciante dei fatti non esiste come tale, ma è solo una comoda scorciatoia lessicale e simbolica per permettere che ad agire siano, come è inevitabile, valutazioni di opportunità, ossia modi in cui i fatti vengono letti, lasciati però adespoti, senza autori, senza responsabili? Probabilmente, a trovarsi davanti alla forza schiacciante del fatto, è stato proprio il Capo dello Stato, il quale ha sentito che tutti volevano lo scioglimento, e non è riuscito né a evitarlo, né a far sì che qualcuno se ne assumesse la responsabilità.
Troppo onore, allora, è stato offerto in questa occasione ai «fatti»: considerati così eccezionali da dettar legge, e invece equivalenti a soliti vecchi, cari, meri contingenti interessi di partito e di schieramento, come tanti che li hanno preceduti, e tanti che li seguiranno; nessun fatto straordinario, ma solo le solite cose, le piccole, opportunistiche, ringhianti cabale del potere. Proprio quel genere di cose davanti alle quali, in considerazione della loro naturale indisciplinatezza, della loro tendenza a subordinare a sé le regole e i principi che vogliono la politica responsabile e trasparente, è stata posta una istituzione di garanzia che quelle regole e quei principi faccia funzionare comunque, perché servono a raccordare i «fatti» a un più ampio orizzonte di senso. Nel quale, oltre che la convenienza di chi è al potere, o vuole andarci, deve pesare il sovrano giudizio di chi è governato.
Il richiamo ai fatti nel discorso sullo scioglimento è allora una dichiarazione di sconfitta, e suona tristemente per tutti. Sconfitta dei principi costituzionali che impongono trasparenza e responsabilità alla politica. Sconfitta della politica, che nascondendosi dietro ai «fatti» e non sapendo più rivendicare il proprio potere e dovere di esprimere scelte e valutazioni, si dichiara inutile e superflua.
Tutte le forze politiche che hanno chinato il capo davanti alla invocazione dei «fatti» come motivo inappellabile dello scioglimento anticipato delle Camere, che non hanno preteso di parlare con chiarezza, di agire pubblicamente, di rispondere al corpo elettorale hanno dichiarato, con ciò stesso, di servire a niente. E con questo hanno sottoscritto la dichiarazione che l’istituzione nella quale siedono, il parlamento, è inutile e merita di stare ai margini della decisione politica.
Solo che né i principi costituzionali, né il parlamento, né quella funzione, di trasformazione della realtà, che è della politica, sono cosa propria dei partiti; sono tutte cose che appartengono alla Nazione. Volente o nolente, il Capo dello Stato non è riuscito a ricordare ai nostri uomini di potere che essi sono tutti lì per esercitare dei doveri, non per fare quel che vogliono. Non li ha spronati all’orgoglio del loro ruolo, non li ha incitati ad essere migliori di quelli che sono. Ma del resto non è mai accaduto che inchinarsi alla forza dei fatti facesse risaltare la libertà e la grandezza dell’essere umano.
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