La
decisione dell’Ilva di chiudere l’impianto di Taranto non può
sorprendere alcun serio osservatore delle tendenze attuali del
capitalismo, soprattutto di quello italiano, ma non solo. Un capitalismo
che negli ultimi 20 anni si è liberato dei cosiddetti lacci e laccioli
dello Stato, della società in cui lavora, per dirla all’inglese è ormai disembedded, slegato dal territorio e dalla sue responsabilità sociali.
E’ il trionfo del libero mercato, un modello economico secondo cui le imprese devono essere lasciate libere di agire e soprattutto di fare profitti, che è e deve essere l’unico obiettivo del capitalista. Il resto verrà da sé, ci penserà poi la cosiddetta mano invisibile a distribuire i frutti della ricchezza in un mondo privo di conflitto in cui gli interessi del padrone, del lavoro e della società tutta sono fondamentalmente indistinguibili tra loro.
La realtà è invece assai diversa e racconta di una società distrutta dall’avidità e dalla ferocia del capitalismo, che nulla ha a che fare col capitalismo morale invocato da Adam Smith – e sarebbe curioso vedere come questa morale si potrebbe conciliare con lo spettacolo che ci viene proposto ogni giorno a Taranto (ed in molte altre parti del mondo). Ma soprattutto, anche se non lo dice più nessuno, il capitalismo è ora come sempre sfruttamento. Sfruttamento delle risorse, sia umane che naturali, perché è proprio attraverso questo sfruttamento che si ottengono quei famosi profitti. E le ragioni del profitto sono superiori a tutto, anche alla vita umana.
Di profitti l’Ilva ne ha fatti a non finire, pensando bene di scaricare i suoi costi sulla società. Una mano ben visibile, quella del padrone, che inquinava a destra e manca, in nome dei profitti ed in nome del “progresso”. La storia recente dell’Ilva è la storia di una stagione fallimentare in cui si credeva che il mercato avrebbe salvato il mondo. L’Ilva fu privatizzata nei ruggenti anni Novanta quando il dogma era più mercato e meno Stato. Peccato che la classe dirigente italiana fosse assolutamente incapace di capire come funzionasse veramente il mercato – la famosa ubriacatura neo-liberista di dalemiana memoria. Il risultato fu che l’Ilva fu privatizzata nonostante si trovasse (e tuttora si trovi) a monte della catena produttiva, in posizione da strangolare una intera filiera, godendo sostanzialmente di un ruolo di quasi monopolista che ricorda da vicino quella delle banche americane too big to fail – troppo grandi perché si possa veramente fare qualcosa quando le cose cominciano ad andar male. Di conseguenza il potere contrattuale dei Riva in qualsiasi tavolo di trattative è davvero smisurato: una chiusura dell’Ilva si tradurrebbe in disoccupazione di massa a Taranto ma anche e soprattutto nel blocco della produzione in tante industrie del Nord-Ovest, dipendenti dall’acciaio Ilva per essere operative.
A questo si è aggiunto il solito teatrino italiano, con regolamenti fatti su misura, finanziamento ai partiti da parte dei Riva, mancette usate per favori politici (Alitalia, tra le altre) in cambio di un sostanziale assenso a tutte le porcherie fatte a Taranto. Un do ut des fatto sulla testa dei lavoratori e dei cittadini di Taranto.
E pensare che questi sarebbero dovuti essere i capitalisti moderni che avrebbero guidato l’Italia nel nuovo millennio. I Riva, in realtà, ricordano da vicino i padroni delle ferriere del secolo scorso, a proposito di tendenze innovatrici del capitalismo. Profitti a palate, capacità di ricatto della politica sia locale che nazionale, inquinamento delle relazioni sindacali. Ed una visione chiarissima della maniera migliore di fare soldi. In un’Italia in cui il più furbo ed il più forte vincono sempre, ed in cui il sistema legale funziona secondo la massima “fatta la legge, trovato l’inganno”, questi non-tanto-moderni capitalisti hanno pensato bene che per massimizzare i profitti la cosa migliore fosse minimizzare i costi – ed era certo più costoso investire in sicurezza ambientale che corrompere politici ed istituzioni o usare un po’ di milioni a fondo perduto per comprarsi la simpatia di qualche potente.
Nel loro sprezzante uso del potere, i Riva non fanno altro che riprodurre un capitalismo selvaggio e rapace, tutt’altro che innovativo ma che sfrutta invece la sua posizione di forza per piegare il mondo alle sue necessità. Nel caso dell’Ilva il totale disprezzo per le regole ambientali. In quello della Fiat, invece la violazione dei diritti sindacali. In entrambi i casi con un ricatto bello e buono: in cambio del pane, misero, che diamo, vogliamo mano libera.
La crisi di Taranto è figlia di questo modello. Non è una crisi economica, non è certo la redditività dell’azienda ad essere a rischio. E’ invece una crisi etica, ambientale, politica, una crisi di sistema che mette alla sbarra un capitalismo ormai fuori controllo. Che in Italia assume forme ancora più odiose e barbare che altrove, ma che, più in generale, è indispensabile sottoporre ad un ferreo controllo democratico, riportando al centro del discorso economico anche quello del lavoro e dell’ambiente, del rispetto della legalità e della responsabilità sociale delle imprese – altro che profitto a tutti i costi.
E’ il trionfo del libero mercato, un modello economico secondo cui le imprese devono essere lasciate libere di agire e soprattutto di fare profitti, che è e deve essere l’unico obiettivo del capitalista. Il resto verrà da sé, ci penserà poi la cosiddetta mano invisibile a distribuire i frutti della ricchezza in un mondo privo di conflitto in cui gli interessi del padrone, del lavoro e della società tutta sono fondamentalmente indistinguibili tra loro.
La realtà è invece assai diversa e racconta di una società distrutta dall’avidità e dalla ferocia del capitalismo, che nulla ha a che fare col capitalismo morale invocato da Adam Smith – e sarebbe curioso vedere come questa morale si potrebbe conciliare con lo spettacolo che ci viene proposto ogni giorno a Taranto (ed in molte altre parti del mondo). Ma soprattutto, anche se non lo dice più nessuno, il capitalismo è ora come sempre sfruttamento. Sfruttamento delle risorse, sia umane che naturali, perché è proprio attraverso questo sfruttamento che si ottengono quei famosi profitti. E le ragioni del profitto sono superiori a tutto, anche alla vita umana.
Di profitti l’Ilva ne ha fatti a non finire, pensando bene di scaricare i suoi costi sulla società. Una mano ben visibile, quella del padrone, che inquinava a destra e manca, in nome dei profitti ed in nome del “progresso”. La storia recente dell’Ilva è la storia di una stagione fallimentare in cui si credeva che il mercato avrebbe salvato il mondo. L’Ilva fu privatizzata nei ruggenti anni Novanta quando il dogma era più mercato e meno Stato. Peccato che la classe dirigente italiana fosse assolutamente incapace di capire come funzionasse veramente il mercato – la famosa ubriacatura neo-liberista di dalemiana memoria. Il risultato fu che l’Ilva fu privatizzata nonostante si trovasse (e tuttora si trovi) a monte della catena produttiva, in posizione da strangolare una intera filiera, godendo sostanzialmente di un ruolo di quasi monopolista che ricorda da vicino quella delle banche americane too big to fail – troppo grandi perché si possa veramente fare qualcosa quando le cose cominciano ad andar male. Di conseguenza il potere contrattuale dei Riva in qualsiasi tavolo di trattative è davvero smisurato: una chiusura dell’Ilva si tradurrebbe in disoccupazione di massa a Taranto ma anche e soprattutto nel blocco della produzione in tante industrie del Nord-Ovest, dipendenti dall’acciaio Ilva per essere operative.
A questo si è aggiunto il solito teatrino italiano, con regolamenti fatti su misura, finanziamento ai partiti da parte dei Riva, mancette usate per favori politici (Alitalia, tra le altre) in cambio di un sostanziale assenso a tutte le porcherie fatte a Taranto. Un do ut des fatto sulla testa dei lavoratori e dei cittadini di Taranto.
E pensare che questi sarebbero dovuti essere i capitalisti moderni che avrebbero guidato l’Italia nel nuovo millennio. I Riva, in realtà, ricordano da vicino i padroni delle ferriere del secolo scorso, a proposito di tendenze innovatrici del capitalismo. Profitti a palate, capacità di ricatto della politica sia locale che nazionale, inquinamento delle relazioni sindacali. Ed una visione chiarissima della maniera migliore di fare soldi. In un’Italia in cui il più furbo ed il più forte vincono sempre, ed in cui il sistema legale funziona secondo la massima “fatta la legge, trovato l’inganno”, questi non-tanto-moderni capitalisti hanno pensato bene che per massimizzare i profitti la cosa migliore fosse minimizzare i costi – ed era certo più costoso investire in sicurezza ambientale che corrompere politici ed istituzioni o usare un po’ di milioni a fondo perduto per comprarsi la simpatia di qualche potente.
Nel loro sprezzante uso del potere, i Riva non fanno altro che riprodurre un capitalismo selvaggio e rapace, tutt’altro che innovativo ma che sfrutta invece la sua posizione di forza per piegare il mondo alle sue necessità. Nel caso dell’Ilva il totale disprezzo per le regole ambientali. In quello della Fiat, invece la violazione dei diritti sindacali. In entrambi i casi con un ricatto bello e buono: in cambio del pane, misero, che diamo, vogliamo mano libera.
La crisi di Taranto è figlia di questo modello. Non è una crisi economica, non è certo la redditività dell’azienda ad essere a rischio. E’ invece una crisi etica, ambientale, politica, una crisi di sistema che mette alla sbarra un capitalismo ormai fuori controllo. Che in Italia assume forme ancora più odiose e barbare che altrove, ma che, più in generale, è indispensabile sottoporre ad un ferreo controllo democratico, riportando al centro del discorso economico anche quello del lavoro e dell’ambiente, del rispetto della legalità e della responsabilità sociale delle imprese – altro che profitto a tutti i costi.
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