Una
ragione ci sarà per chiamarlo reddito minimo d’inserimento. Infatti è
una presa per i fondelli, una sorta di elemosina di 250 euro al mese per
persone e nuclei familiari al di sotto del livello di povertà, in
cambio di un impegno in lavori socialmente utili o la partecipazione a
programmi di aggiornamento, utili più che altro ad alimentare la
macchina del corsismo pubblico e privato, visto che il problema è
proprio la mancanza di posti di lavoro e la deindustrializzazione del
Paese.
E che si tratti di puro fumo negli occhi, di una mancia per tenere a
freno il malumore che cova soprattutto nelle città, lo dimostra intanto
l’assoluta esiguità del finanziamento, 120 milioni da dividere con i
fondi necessari a rifinanziare le carte d’acquisto, le famose poorcard
di Tremonti,
40 milioni l’anno, dieci milioni meno di quanto previsto da Monti,
davvero poca roba a confronto dello sconto Irap alle banche o anche ai
58 misteriosi milioni stanziati per il semestre di presidenza europea
dell’Italia. Ma poi la sua disorganicità, visto che i soldi vengono dal
temporaneo contributo di solidarietà delle pensioni d’oro da 90 mila
euro in su e infine la sua ridottissima applicazione ad alcune aree
urbane la cui turbolenza spaventa il governo. Quest’ultima spiacevole e
deludente caratteristica viene giustificata con un presunto carattere
“sperimentale” del provvedimento, ovvero con la sua precarietà.
Ma proprio qui sta il marcio, perché in realtà non ci sarebbe bisogno
di sperimentare nulla visto che il reddito minimo di inserimento è già
stato ampiamente sperimentato dal 1999 al tutto il 2002: con 309 comuni
coinvolti (il più grande fu Napoli), con oltre 25 mila famiglie e 37
mila individui coinvolti. Il governo Berlusconi,
bloccò l’esperimento nel 2003, nonostante esso fosse stato presentato a
Bruxelles come “buona pratica” nel Piano nazionale per l’inclusione
sociale. Lo fece con il beneplacito delle parti sociali, leggi
sindacati, che com’è noto temono qualsiasi welfare che non passi
attraverso di loro. Inoltre forme simili di sostegno sono stati
sperimentate con finanziamenti propri in parecchie regioni e ancora oggi
esistono sotto varie forma in Campania, Puglia, Valle d’Aosta, Lucania,
e nel Trentino Alto Adige dove fa parte di un’ ampia serie di
provvedimenti di assistenza.
Dunque quattro anni a livello nazionale e un decennio abbondante in
molte regioni sono stati più che sufficienti per produrre una mole di
documentazione e studi così corposa da escludere il bisogno di ulteriore
sperimentazione. Uscirsene fuori con questo pretesto svela meglio di
qualsiasi altra considerazione la natura occasionale e strumentale del
provvedimento, tesa ad addolcire l’immagine del governicchio e a
distrarre l’attenzione dalle tasse o dai giganteschi problemi sociali
che si vanno accumulando. Per non parlare poi della possibilità che il
tutto si trasformi in una generica operazione di voto di scambio volta a
dare un pourboire della durata di un anno ad un massimo di 10 mila
persone su oltre 4,8 milioni in povertà assoluta.
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