C’è una costante
nelle manovre finanziarie di questi anni di crisi e austerity: il tiro
al bersaglio contro i dipendenti pubblici. E, ovviamente, non fa
eccezione neanche questo 2013, anzi. E così, il blocco della
contrattazione e degli stipendi viene prorogato fino alla fine del 2014,
quello dell’indennità di vacanza contrattuale addirittura fino al 2017
(a buon intenditor poche parole…) e arriva pure un taglio secco e
lineare delle ore di lavoro straordinario.
Inoltre, nuove nubi
si stanno addensando sulle teste dei lavoratori pubblici in vista della
prossima e pesante puntata della spending review, come conferma lo
stesso Commissario straordinario per la revisione della spesa pubblica, l’ex dirigente del Fondo monetario internazionale, Carlo Cottarelli. Nel suo programma di lavoro del 12 novembre scorso rilancia, infatti, il tema della mobilità nel pubblico impiego “compresa l’esplorazione di canali di uscita” e nell’intervista pubblicata il 21 ottobre dal Corriere della Sera
ribadisce il concetto, affermando “che certe misure strutturali che
potrebbero essere raccomandate potrebbero portare all’emersione di
esuberi”. Insomma, a parte il linguaggio contorto e i condizionali, il
messaggio suona abbastanza chiaro.
Certo, quello dello
sparare sul dipendente pubblico è un “gioco” abbastanza facile e comodo.
Anzitutto, considerati i grandi numeri sui cui si interviene, è
garantito un risultato immediato in termini di voci di bilancio. In
altre parole, è un po’ come andare a fare il bancomat.
In secondo luogo, le
reazioni sindacali sono sempre assai timide e condizionate dal
tradizionale collateralismo che caratterizza importanti settori
sindacali.
Infine, difficilmente si rischiano delle rivolte da parte dell’opinione pubblica, considerato che l’immagine vetusta dello statale imboscato-improduttivo-e-magari-pure-assenteista
è ahinoi ancora molto diffusa, sebbene la realtà del pubblico impiego
racconti nella stragrande maggioranza dei casi una storia ben diversa.
Ma a troppi fa comodo continuare ad alimentare questa mito negativo,
magari nella più moderna versione della contrapposizione tra garantiti e
non-garantiti. E da questo punto di vista si salvano davvero in pochi,
perché il fronte dei fustigatori dei garantiti è ampio e trasversale, da Brunetta a Monti e Fornero, da Renzi a Grillo.
Comunque, torniamo
alla cruda realtà dei fatti, cioè agli effetti provocati dai continui e
reiterati tagli nel pubblico impiego (personale amministrativo e tecnico
dello Stato centrale, delle Regioni e degli Enti locali, personale
Sanità, Scuola, Università, Vigili del Fuoco, Forze dell’Ordine ecc.),
in termini di salario, posti di lavoro e funzionamento dei servizi.
Prima di tutto, c’è la questione salariale,
che sta ormai mettendo in difficoltà non pochi lavoratori e
lavoratrici, specie in caso di nuclei familiari monoreddito. Il blocco
della contrattazione e dello stipendio (inteso complessivamente:
stipendio base + integrativo) è ormai in vigore per legge sin dal 2010.
Cioè, considerata l’ultima proroga in ordine di tempo, sono 5 anni senza
aumenti monetari. Tradotto in numeri, in base ai calcoli della Corte
dei Conti, pubblicati da il Sole 24 Ore,
questo significa una perdita del potere d’acquisto nella misura del
10,5% a testa. Per fare un esempio concreto, un lavoratore con uno
stipendio annuo lordo di 27.870 euro, perde 4.069 euro nel periodo
2010-2016! E tutto questo, peraltro, in un periodo in cui tariffe,
tributi e imposte sono aumentati in misura considerevole per i redditi
medio-bassi.
Ma non è tutto,
perché in una serie di casi il dipendente pubblico ha perso anche più
del 10,5%. Anzitutto, a causa dei possibili effetti delle ristrettezze
di bilancio sulla contrattazione decentrata integrativa nei singoli enti
e nelle varie aziende, poiché la legge dice che lo stipendio non può
essere superiore a quello del 2010, ma non dice che non possa essere
inferiore. E così, può succedere che il fondo destinato alla
contrattazione decentrata diminuisca e che quindi si riduca anche il
salario accessorio erogato.
Inoltre, la spending
review del governo Monti di un anno fa aveva stabilito che in un tutte
le pubbliche amministrazioni il valore massimo dei buoni pasto (ticket)
non potesse superare 7 euro. Ebbene, in diverse realtà lavorative si
faticava ad arrivare a 7, ma in altre si andava oltre. Così era
successo, per esempio, nell’amministrazione regionale lombarda, dove
alcuni aumenti salariali venivano riversati sul valore dei buoni pasto,
che quindi erano arrivati all’equivalente di 12 euro al giorno. Tanto,
visti i tempi che correvano, ormai il ticket veniva usato sempre di meno
per la pausa pranzo e sempre di più per fare la spesa nel super. Ed
ecco perché il taglio secco di 5 euro netti al giorno si è fatto sentire
piuttosto brutalmente per chi ha una busta paga che viaggia tra 1.150 e
1.400 euro, a seconda dell’inquadramento.
In secondo luogo, c’è la questione occupazionale
e quella della qualità dei posti di lavoro e, dunque, anche dei servizi
erogati. E cominciamo subito a sfatare quel mito che vorrebbe che in
Italia, rispetto al resto dell’Europa, ci fosse un numero abnorme di
dipendenti pubblici e che questi costassero al fisco un’enormità
spropositata. In base a uno studio della Bocconi del 2012
in Italia i dipendenti pubblici sono 3,25 milioni e costituiscono il
14.3% della forza lavoro totale. In Inghilterra, patria europea del
neoliberismo, sono invece 6 milioni e il 20% della forza lavoro. In
Francia, paese tra i più statalisti del continente, i numeri sono 7,5
milioni e 26,7%. Giusto per la cronaca, in Germania sono 9,2 milioni e
il 10,4%. Per quanto riguarda invece il costo, cioè il rapporto stipendi
pubblici/Pil, noi siamo al 11%, cioè più o meno a livello inglese
(10,9%) e un po’ sotto la Francia (13,4%).
Detto questo, risulta
quindi evidente che il vero problema stia nell’organizzazione,
nell’efficacia e nell’efficienza delle macchine pubbliche. E da questo
punto di vista, le politiche di riduzione del personale praticate in
questi anni sono state più che altro dannose e la stessa Corte dei Conte ha espresso qualche preoccupazione:
“occorre evitare che la riduzione del numero dei dipendenti determini
il degrado nella qualità dei servizi erogati alla collettività”.
Infatti, i continui
blocchi dei turn-over (cioè la non sostituzione del personale andato in
pensione) non solo possono provocare dei vuoti funzionali, ma abbinati
agli effetti deleteri dell’innalzamento dell’età pensionabile stabilito
dalla riforma Fornero, comportano anche un progressivo e negativo
invecchiamento del personale.
Inoltre, i reiterati
blocchi delle assunzioni (di personale a tempo indeterminato, si
intende…), iniziati molti anni fa, hanno trasformato le pubbliche
amministrazioni nel primo produttore di lavoro precario del paese, dalla
scuola agli ospedali, dai vigili del fuoco ai comuni. Oggi la
situazione è talmente grave e diffusa che non c’è nemmeno chiarezza sui
numeri: secondo l’Aran i precari sono 317mila, secondo la Cgia di Mestre
un milione… (vedi articolo di L’Espresso).
E a tutto questo andrebbero aggiunti i servizi pubblici privatizzati,
esternalizzati e dati in appalto, spesso a delle imprese o cooperative a
cui interessa soltanto comprimere i salari e non certo la qualità del
servizio erogato.
Insomma, investire
nei lavoratori pubblici, stabilizzando i posti di lavoro e garantendo
uno stipendio dignitoso, potrebbe essere un ottimo affare per la
cittadinanza e un’occasione per riqualificare i servizi erogati. A
patto, ovviamente, che si ragioni anche sull’organizzazione del lavoro,
sull’uso intelligente e razionale degli strumenti tecnologi e
informatici ecc. Insomma, tutte quelle cose che non decidono i
lavoratori e le lavoratrici, ma coloro che sono preposti a guidare la
macchina, cioè i dirigenti.
E qui arriviamo al
punto dolente, anzi, al vero e proprio scandalo. Già, perché mentre il
dipendente pubblico italiano riceve uno stipendio (bloccato) tra i più
bassi d’Europa, i dirigenti e manager pubblici vivono
invece in una realtà opposta, visto che risultano essere tra i più
pagati in Europa. E non lo dice qualche “antagonista”, lo dice l’Ocse.
Comunque, non occorre
scomodare le istituzioni internazionali, basta guardare sotto casa,
tipo alla Regione Lombardia. Formigoni e i suoi fasti non ci sono più,
ora c’è Maroni, ma per il resto non è cambiato niente. E così, mentre ai
2.800 dipendenti regionali si dice che non ci sono soldi per chiudere
un contratto decentrato decoroso, ben altra musica viene suonata per i
dirigenti o, meglio, per una parte di loro. Infatti, per le retribuzioni dirigenziali la Regione ha trovato 20 milioni di euro aggiuntivi per il solo 2013 e ben 54 dirigenti beneficeranno di un aumento netto della retribuzione.
Ebbene, arrivati a
questo punto, non rimane che un’ultima domanda: ma se questa è la
situazione perché i lavoratori pubblici italiani non sono in piazza,
perché non protestano, perché non scioperano in massa? Perché c’è questo
silenzio irreale?
Risposte banali e
semplicistiche non servono, perché non aiutano a risolvere il problema.
Infatti, è vero che c’è un insieme di cause. C’è un contesto generale
difficile, la rassegnazione è diffusa, anche se a volte viene interrotta
da scatti di ira e rabbia, e non si crede più che la lotta paghi, non
ci si fida più di sindacati e partiti o della stessa azione collettiva
eccetera. Ed è anche vero che c’è il timore di perdere il poco che si ha
e l’illusione di essere per definizione diversi dal Portogallo, dove da
un giorno all’altro hanno cancellato le tredicesime, o dalla Grecia,
dove stanno licenziando migliaia di dipendenti pubblici.
Tutto vero, eppure
c’è qualcosa che stona terribilmente in questo quadro, perché siamo
l’unico paese europeo investito dalle politiche d’austerità, dove non ci
siano stati degli scioperi generali veri, dei conflitti e delle
vertenze nazionali autentici. Certo, ci sono state e ci sono lotte
importantissime in alcuni settori o territori, come quella straordinaria
dei tranvieri genovesi che oggi sono al quarto giorno consecutivo di
sciopero contro i progetti di privatizzazione dell’azienda
municipalizzata, ma quello che continua a mancare è una piattaforma, una
volontà e una battaglia complessiva, nazionale e generale.
No, il problema è che
qui abbiamo la nostra solita anomalia italiana, che si chiama
collateralismo con governi e partiti da parte delle maggiori
organizzazioni sindacali e che sta soffocando sul nascere ogni
iniziativa.
Proseguire su questa
strada ci porta però inevitabilmente in un buco nero, perché non occorre
certo essere degli indovini per capire che in assenza di reazioni anche
qui da noi il conto sarà sempre più salato. In fondo, basterebbe
ascoltare con un po’ di attenzione Cottarelli e il Governo, con i loro
progetti di privatizzazioni e con la revisione di spesa, cioè di tagli,
nell’ordine di 32 miliardi di euro.
A proposito, quasi
dimenticavo. Quando ci si batte e si lotta si può ovviamente perdere, ma
capita anche che si vinca, che si ottengano dei risultati. Così è
andata a Madrid, dove alcuni giorni fa gli spazzini e i giardinieri hanno vinto
la loro durissima lotta. Il Comune aveva tagliato i fondi per i servizi
di pulizia e le aziende appaltatrici volevano dunque licenziare ben
1.134 dipendenti. Dopo 12 giorni di sciopero ad oltranza è arrivata la
retromarcia: nessuno verrà licenziato.
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