Adesso c’è anche il mammagate, che si sa i
figli so’ piezzi e core. È facile immaginare quella che forse era
stata installata sulla poltrona degli interni per dare una pennellata di
ruspante umanità al frigido governo dei tecnici, mentre sta davanti
all’arcaico telefono a gettoni che ha reso leggendaria la sua
irresistibile imitazione, mentre esercita il suo istinto materno a
beneficio della signorina Ligresti, nel timore, ha dichiarato, che
commettesse gesti auto lesivi.
Non sono tutte belle le mamme del mondo,
non sono tutte uguali, non sono uguali i loro figli, così come non sono
uguali indagati, imputati e nemmeno i condannati. E mica vorrete
paragonare la Ligresti, che ne so, a Cucchi, diamine.
La guardasigilli non ha dubbi sulla
correttezza del suo operato, dichiarandosi pronta a riferire in
Parlamento, ove richiesta, “per poter dare ogni chiarimento che si
rendesse necessario”. La sua improvvida telefonata, intercettata e
riferita dall’Adn Kronos, la definisce “un atto di solidarietà sotto
l’aspetto umano”. E il suo intervento “tutto da dimostrare” sarebbe
stato “doveroso”, e d0altra parte, rammento in una lettera indirizzata
ai capigruppo: “Tutti voi conoscete l’attenzione e l’impegno che fin dal
primo giorno del mio mandato ministeriale ho riservato alle condizioni
in cui versano i detenuti. Nel caso di Giulia Ligresti, non appena avuta
conoscenza, per via diretta, delle condizioni psicofisiche della
ragazza, era mio dovere trasferire questa notizia agli organi competenti
dell’Amministrazione Penitenziaria per invitarli a porre in essere gli
interventi tesi ad impedire eventuali gesti autolesivi. Mi sono
comportata, peraltro, nello stesso modo quando sono pervenute al mio
Ufficio segnalazioni, da chiunque inoltrate”.
Sfrontatamente la Guardasigilli insiste:
“Intervenire è compito del Ministro della Giustizia. Non farlo sarebbe
colpevole e si configurerebbe come una grave omissione. Non c’è stata,
quindi, né poteva esserci alcuna interferenza con le decisioni degli
Organi giudiziari”. E per non lasciare spazio a interpretazioni malevole
e ad accuse di aver anteposto interessi personali si è recata dal
Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per illustrare al capo dello Stato “le misure relative al sovraffollamento delle carceri che sta predisponendo”.
Adesso diciamoci la verità, perché mai la
Cancellieri dovrebbe essere differente da due partiti omologhi che da
mesi e per altri mesi compiono spericolati equilibrismi per evitare a un
loro apri condannato, di scontare la giusta pena? Perché dovrebbe
assumere comportamenti differenti da un’assemblea di industriali che
applaude a degli assassini? Insomma perché dovremmo aspettarci da lei,
malgrado il physique du role della massaia rurale, il vocione da ultra
della curva sud, di esprimere senso dello stato, lealtà all’istituzione
che rappresenta, senso civico e integrità morale, che ormai qualsiasi
membro del ceto politico considera un optional indesiderabile per non
dire un ostacolo avverso al dispiegarsi di aspirazione e ambizioni.
Osservatori maliziosi hanno dato una
lettura semplicistica dell’inopportuno favoritismo della Cancellieri nei
confronti dell’appartenente a una dinastia spregiudicata e rapace, che,
vedi che coincidenza, ha dato non sappiamo se lavoro, ma certo prosperi
emolumenti a suo figlio.
Io credo sia un particolare in più per
diagnosticare un fenomeno che un tempo era comune, generalizzato e
collettivo, una componente potente della nostra autobiografia nazionale,
quel familismo amorale, quell’indole, descritta come patologia
endemica da Banfield,
propria di comunità arretrate, caratterizzate da un concezione
estremizzata dei legami familiari nel perseguimento di vantaggi del
proprio nucleo a danno della capacità di associarsi e dell’interesse
collettivo.
Si, pareva essere un mal comune, guardato
con l’indulgenza con la quale si osserva un vizietto diffuso, quindi
perdonabile, soprattutto in una fase esasperata del neoliberismo, con
un mercato del lavoro sempre più flessibile e precario, uno stato
sociale ridotto a somministrazione arbitraria di servizi scarsi e
inefficienti, e nella quale tocca ricorrere all’arte di arrangiarsi “in
casa”.
Non è così, si sono presi anche quello,
intrecciandolo strettamente e indistinguibilmente al clientelismo,
facendone sistema di governo, in politica, nelle università, nelle
corporazioni, nei giornali, nelle aziende, comprese quelle pubbliche. E
decretando invece per noialtri la fine di patti generazionali, la
cancellazione per fame del sostegno di tribù sempre più piccole e
conflittuali, l’accendersi di lotte tra poveri, l’alimentazione del
risentimento tra genitori e figli, uomini e donne, sancendo la fine
delle probabilità che l’unione tra oppressi faccia la forza di reagire
al sopruso.
È diventato il pilastro della loro
attitudine ad agire per cricche, per lobby, secondo le procedure della
fidelizzazione aziendale, dell’appartenenza ubbidiente a regole opache e
delle selezioni del personale care alle mafie, è il principio cui si
uniformano i loro comportamenti, è la forma che assume per loro la
“solidarietà”, quella delle raccomandazioni, dei favoritismi, delle
scorciatoie, fino alle leggi e alle amnistie ad personam,
ai condoni, agli scudi, ai perdoni, agli appalti truccati, alla
pressione sui controlli che non si sono potuti annullare, alla
persecuzione di chi si ribella.
Sono riusciti laddove i lavoratori e gli
sfruttati di tutto il mondo hanno fallito, unirsi nella guerra contro di
noi. L’hanno dichiarata e la stanno conducendo, spetta a noi difenderci
e non avere pietà, nemmeno delle loro mamme.
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