La stroncatura è sacrosanta. «Sgangherata» l’ancora per poco
segretario del Pd ha definito l’ultima esternazione di Berlusconi e in
specie la sparata più fragorosa, quella stravagante denuncia del colpo
di Stato che i senatori avrebbero (hanno) posto in atto decretando la
sua decadenza da parlamentare. La reazione è irreprensibile. Oggi il
preteso colpo di Stato, ieri i suoi potenti rampolli paragonati agli
ebrei perseguitati nella Germania di Hitler, l’altroieri gli elogi a
Mussolini, tiranno benevolo e impotente, e le invettive contro il kapò
di Strasburgo. Ci mancherebbe che non si rispedisse al mittente ogni
porcheria in forma di parole.
Il nostro povero paese deve averne di colpe per meritarsi la maledizione di dover fare i conti pressoché ogni giorno da vent’anni col padrone della destra e la sua sterminata corte di lacchè.
Detto questo, possiamo con ciò dirci soddisfatti e archiviare senz’altro l’ultima boutade in attesa della prossima? Fare sempre di nuovo punto e a capo, come se la questione fosse il grado di correttezza istituzionale o di razionalità delle corbellerie berlusconiane? Il problema è un altro. Riguarda un corollario implicito in questo inarrestabile flusso di aggressioni verbali alla verità e al buon senso. Un corollario che concerne le parole della politica, l’uso del linguaggio e l’intossicazione delle menti che, passo dopo passo, viene contaminando la società, inquinando il discorso pubblico, corrompendo il sentimento civile, soffocando sul nascere la capacità di discernere e indignarsi.
Berlusconi, come ognun sa, non è né stupido né pazzo, per quanto la vertiginosa caduta possa offuscargli la mente. Grande comunicatore, esperto demagogo, è consapevole che tra ragione e comunicazione politica non corre spesso buon sangue. Sa, istintivamente, che il linguaggio in politica serve soprattutto a ottenere consenso. E che per questo non è necessario informare, spiegare, istruire. Occorre piuttosto creare una realtà funzionale al potere. Suscitare emozioni, agitare passioni, radicare convinzioni preconcette e indiscusse. Questo Berlusconi fa da vent’anni con naturale sapienza. E nel farlo si colloca, senza saperlo, in una lunga tradizione.
Da tempo immemore l’esercizio del potere s’intreccia alla produzione di codici linguistici. Il sovrano, ammoniva Hobbes, è in primo luogo il signore del linguaggio, e di ciò il Novecento dei «totalitarismi» ha offerto prove evidenti e consistenti. Mentre trucidava e mandava al gas milioni di persone il Terzo Reich provvedeva a coniare una neolingua che ebbe non poca influenza nel generalizzare la corruzione morale dei tedeschi. Coraggio, fedeltà, onore, idealismo. Con questi nomi si ribattezzavano l’assassinio e la brutalità, l’indifferenza disumana e la più aberrante violenza. E non è che un codice resta inerte, racchiuso nelle pagine di un vocabolario. Vive nella mente delle persone, connota il rapporto con le cose e le azioni, ridefinisce significati e valori. Man mano che, avendo acconsentito al nuovo potere, i tedeschi si ritrovavano invischiati in una palude di falsità e menzogna, la loro capacità di discernere ne risultava compromessa.
La coscienza di queste connessioni motiva l’ossessione di Gramsci per quella che nei “Quaderni” chiama «struttura materiale dell’ideologia», alludendo a «tutto ciò che influisce o può influire sull’opinione pubblica direttamente o indirettamente». Il problema, a suo giudizio, è che per effetto di questa influenza ciascuno di noi si ritrova una «coscienza teorica» di cui spesso non è consapevole e che quindi non controlla. Una coscienza «superficialmente esplicita o verbale» che ha «accolto senza critica» e che confligge con le sue azioni e con le sue intenzioni. La qual cosa non è senza conseguenze, poiché (sempre Gramsci) «la contraddittorietà della coscienza non permette nessuna azione, nessuna decisione, nessuna scelta e produce uno stato di passività morale e politica».
Siamo così al cuore del discorso, che non deve sembrare sproporzionato rispetto alle sordide sortite di Berlusconi sulla persecuzione propria e dei suoi figli. Quanto meno è democratico, tanto più il potere funziona come una fabbrica del falso. E viceversa. Quando si riflette sull’Italia a cavallo tra XX e XXI secolo e sul suo declino, non si considera questo versante del problema. Non avvedendosi che trascurare la questione del linguaggio è un errore fatale, perché dalla pulizia delle parole discende quella delle idee, quindi la capacità di giudicare e agire conseguentemente. Se nella comunicazione pubblica non c’è verità, se il discorso pubblico serve soltanto a mascherare e a deformare, il disorientamento collettivo è inevitabile, e con esso la morte della democrazia.
Forse si dirà: così si drammatizza una faccenda tutto sommato semplice e innocua, visto che alle parole del vecchio non crede più nessuno. Invece la situazione è seria e non è affatto casuale che non ci se ne avveda o che si faccia di tutto per nasconderlo. Berlusconi non è il solo a mentire e a usare la comunicazione per intossicare la ragione pubblica. Se le sue sparate sono (per noi) scopertamente insulse, dovremmo chiederci una buona volta come funziona la lingua che noi stessi usiamo e che disciplina funzioni e relazioni nella sfera pubblica.
Quanta verità trasmettono le parole che strutturano il discorso politico? In che misura si è consapevoli della loro funzione ideologica, del ruolo che esse svolgono nella creazione di una realtà fittizia e al tempo stesso concretissima, in forza della quale viene esercitato ogni giorno un potere distruttivo di quanto ancora resta di un’autentica dimensione collettiva? Certo, non si tratta di parole «sgangherate». Anzi, se ne sorveglia accuratamente la correttezza formale. Ma non per questo le tossine che esse liberano nel corpo della società sono meno letali.
Vogliamo fare solo un piccolo esempio? Che cos’è il celeberrimo «debito pubblico», nel nome del quale tutti i nostri governanti (tutti, a cominciare dall’onnipresente capo dello Stato) si stracciano le vesti, ripetono la litania della mancanza di risorse e propagandano l’inevitabilità dei sacrifici, cioè dei tagli alla spesa, della cancellazione dei diritti sociali (sanità e pensioni), della distruzione di milioni di posti di lavoro, della devastazione del territorio e della scuola pubblica, dell’ennesima svendita del patrimonio collettivo?
Nessuno ricorda mai che quell’enorme debito si è costituito perché, a partire dai primi anni Ottanta, invece di far pagare le tasse a chi di dovere si è preferito finanziare la spesa vendendo titoli di Stato proprio a chi veniva graziosamente esentato dal prelievo fiscale e trasformato così, con un colpo di bacchetta magica, in creditore, da debitore che era. Nessuno mette in comunicazione quel debito con l’enorme evasione fiscale, che ancora oggi viene amorevolmente tutelata. Nessuno dice che quel cosiddetto debito pubblico è in realtà un debito privato, privatissimo. E nessuno, a maggior ragione, osa sostenere che quindi a doverlo pagare sono i grandi patrimoni privati, banche e proprietari di imprese, che i soldi ce li hanno eccome, tant’è che possono permettersi lo shopping del patrimonio pubblico a prezzi di saldo.
È solo un esempio tra i tanti della grande affabulazione che giorno dopo giorno genera la «coscienza teorica» della stragrande maggioranza degli italiani, legittimando la più grande redistribuzione inegualitaria di ricchezza sociale dai tempi della Grande depressione. Dopodiché si capisce bene la ratio della cosa. Manipolare la mente dei sudditi, privatizzare la sfera pubblica, ridurre l’opinione pubblica a un simulacro, serve a governare senza troppi fastidi. Soprattutto se lo si fa senza evidenti sgrammaticature, a differenza di quanto sovente accade ai vecchi demagoghi. Ma si può davvero star sicuri che alla fine si intascheranno i dividendi dell’operazione? Escludere che, azzerata la capacità critica dei più, la cittadinanza preferisca poi affidarsi a qualche Salvatore, più disinvolto e forse più efficace nell’arte del mentire?
Come ammoniva il già citato Gramsci, capita ai ciarlatani di essere morsi dalla biscia usata per i loro raggiri, e ai demagoghi di essere le prime vittime della propria demagogia.
Il nostro povero paese deve averne di colpe per meritarsi la maledizione di dover fare i conti pressoché ogni giorno da vent’anni col padrone della destra e la sua sterminata corte di lacchè.
Detto questo, possiamo con ciò dirci soddisfatti e archiviare senz’altro l’ultima boutade in attesa della prossima? Fare sempre di nuovo punto e a capo, come se la questione fosse il grado di correttezza istituzionale o di razionalità delle corbellerie berlusconiane? Il problema è un altro. Riguarda un corollario implicito in questo inarrestabile flusso di aggressioni verbali alla verità e al buon senso. Un corollario che concerne le parole della politica, l’uso del linguaggio e l’intossicazione delle menti che, passo dopo passo, viene contaminando la società, inquinando il discorso pubblico, corrompendo il sentimento civile, soffocando sul nascere la capacità di discernere e indignarsi.
Berlusconi, come ognun sa, non è né stupido né pazzo, per quanto la vertiginosa caduta possa offuscargli la mente. Grande comunicatore, esperto demagogo, è consapevole che tra ragione e comunicazione politica non corre spesso buon sangue. Sa, istintivamente, che il linguaggio in politica serve soprattutto a ottenere consenso. E che per questo non è necessario informare, spiegare, istruire. Occorre piuttosto creare una realtà funzionale al potere. Suscitare emozioni, agitare passioni, radicare convinzioni preconcette e indiscusse. Questo Berlusconi fa da vent’anni con naturale sapienza. E nel farlo si colloca, senza saperlo, in una lunga tradizione.
Da tempo immemore l’esercizio del potere s’intreccia alla produzione di codici linguistici. Il sovrano, ammoniva Hobbes, è in primo luogo il signore del linguaggio, e di ciò il Novecento dei «totalitarismi» ha offerto prove evidenti e consistenti. Mentre trucidava e mandava al gas milioni di persone il Terzo Reich provvedeva a coniare una neolingua che ebbe non poca influenza nel generalizzare la corruzione morale dei tedeschi. Coraggio, fedeltà, onore, idealismo. Con questi nomi si ribattezzavano l’assassinio e la brutalità, l’indifferenza disumana e la più aberrante violenza. E non è che un codice resta inerte, racchiuso nelle pagine di un vocabolario. Vive nella mente delle persone, connota il rapporto con le cose e le azioni, ridefinisce significati e valori. Man mano che, avendo acconsentito al nuovo potere, i tedeschi si ritrovavano invischiati in una palude di falsità e menzogna, la loro capacità di discernere ne risultava compromessa.
La coscienza di queste connessioni motiva l’ossessione di Gramsci per quella che nei “Quaderni” chiama «struttura materiale dell’ideologia», alludendo a «tutto ciò che influisce o può influire sull’opinione pubblica direttamente o indirettamente». Il problema, a suo giudizio, è che per effetto di questa influenza ciascuno di noi si ritrova una «coscienza teorica» di cui spesso non è consapevole e che quindi non controlla. Una coscienza «superficialmente esplicita o verbale» che ha «accolto senza critica» e che confligge con le sue azioni e con le sue intenzioni. La qual cosa non è senza conseguenze, poiché (sempre Gramsci) «la contraddittorietà della coscienza non permette nessuna azione, nessuna decisione, nessuna scelta e produce uno stato di passività morale e politica».
Siamo così al cuore del discorso, che non deve sembrare sproporzionato rispetto alle sordide sortite di Berlusconi sulla persecuzione propria e dei suoi figli. Quanto meno è democratico, tanto più il potere funziona come una fabbrica del falso. E viceversa. Quando si riflette sull’Italia a cavallo tra XX e XXI secolo e sul suo declino, non si considera questo versante del problema. Non avvedendosi che trascurare la questione del linguaggio è un errore fatale, perché dalla pulizia delle parole discende quella delle idee, quindi la capacità di giudicare e agire conseguentemente. Se nella comunicazione pubblica non c’è verità, se il discorso pubblico serve soltanto a mascherare e a deformare, il disorientamento collettivo è inevitabile, e con esso la morte della democrazia.
Forse si dirà: così si drammatizza una faccenda tutto sommato semplice e innocua, visto che alle parole del vecchio non crede più nessuno. Invece la situazione è seria e non è affatto casuale che non ci se ne avveda o che si faccia di tutto per nasconderlo. Berlusconi non è il solo a mentire e a usare la comunicazione per intossicare la ragione pubblica. Se le sue sparate sono (per noi) scopertamente insulse, dovremmo chiederci una buona volta come funziona la lingua che noi stessi usiamo e che disciplina funzioni e relazioni nella sfera pubblica.
Quanta verità trasmettono le parole che strutturano il discorso politico? In che misura si è consapevoli della loro funzione ideologica, del ruolo che esse svolgono nella creazione di una realtà fittizia e al tempo stesso concretissima, in forza della quale viene esercitato ogni giorno un potere distruttivo di quanto ancora resta di un’autentica dimensione collettiva? Certo, non si tratta di parole «sgangherate». Anzi, se ne sorveglia accuratamente la correttezza formale. Ma non per questo le tossine che esse liberano nel corpo della società sono meno letali.
Vogliamo fare solo un piccolo esempio? Che cos’è il celeberrimo «debito pubblico», nel nome del quale tutti i nostri governanti (tutti, a cominciare dall’onnipresente capo dello Stato) si stracciano le vesti, ripetono la litania della mancanza di risorse e propagandano l’inevitabilità dei sacrifici, cioè dei tagli alla spesa, della cancellazione dei diritti sociali (sanità e pensioni), della distruzione di milioni di posti di lavoro, della devastazione del territorio e della scuola pubblica, dell’ennesima svendita del patrimonio collettivo?
Nessuno ricorda mai che quell’enorme debito si è costituito perché, a partire dai primi anni Ottanta, invece di far pagare le tasse a chi di dovere si è preferito finanziare la spesa vendendo titoli di Stato proprio a chi veniva graziosamente esentato dal prelievo fiscale e trasformato così, con un colpo di bacchetta magica, in creditore, da debitore che era. Nessuno mette in comunicazione quel debito con l’enorme evasione fiscale, che ancora oggi viene amorevolmente tutelata. Nessuno dice che quel cosiddetto debito pubblico è in realtà un debito privato, privatissimo. E nessuno, a maggior ragione, osa sostenere che quindi a doverlo pagare sono i grandi patrimoni privati, banche e proprietari di imprese, che i soldi ce li hanno eccome, tant’è che possono permettersi lo shopping del patrimonio pubblico a prezzi di saldo.
È solo un esempio tra i tanti della grande affabulazione che giorno dopo giorno genera la «coscienza teorica» della stragrande maggioranza degli italiani, legittimando la più grande redistribuzione inegualitaria di ricchezza sociale dai tempi della Grande depressione. Dopodiché si capisce bene la ratio della cosa. Manipolare la mente dei sudditi, privatizzare la sfera pubblica, ridurre l’opinione pubblica a un simulacro, serve a governare senza troppi fastidi. Soprattutto se lo si fa senza evidenti sgrammaticature, a differenza di quanto sovente accade ai vecchi demagoghi. Ma si può davvero star sicuri che alla fine si intascheranno i dividendi dell’operazione? Escludere che, azzerata la capacità critica dei più, la cittadinanza preferisca poi affidarsi a qualche Salvatore, più disinvolto e forse più efficace nell’arte del mentire?
Come ammoniva il già citato Gramsci, capita ai ciarlatani di essere morsi dalla biscia usata per i loro raggiri, e ai demagoghi di essere le prime vittime della propria demagogia.
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