Oggi, giovedi 28 settembre «Sbilanciamoci!» presenta a Roma
(ore 10,30 presso Fandango Incontri, via dei Prefetti 22) la sua
quindicesima «controfinanziaria», «Come usare la spesa pubblica per i
diritti, la pace, l’ambiente». Anticipiamo una parte del testo, dedicata
alle politiche europee. Il testo completo è scaricabile da
www.sbilanciamoci.org
Le politiche di austerità nate con l’ossessione per l’insolvenza sul
debito pubblico, stanno portando l’Europa verso la dissolvenza:
un’immagine sempre più sfocata e scomposta, col rischio di una
dissoluzione del progetto europeo che non ha più il consenso dei
cittadini.
Nell’ultimo anno il dibattito politico ed elettorale nei paesi
europei ha ovunque preso la strada di caratterizzazioni fortemente
nazionali, dimenticando la direzione che deve prendere l’insieme
dell’Europa. In tutti i paesi – Italia compresa – le elezioni tenute
nell’ultimo anno hanno portato a governi di grande coalizione. In
Germania resta al potere Angela Merkel in coalizione con i
socialdemocratici, con una politica di austerità per l’Europa che non è
destinata a cambiare. In Olanda c’è ora un governo di coalizione tra
liberali e socialdemocratici con la conferma del precedente primo
ministro liberale. In Austria si è confermata la grande coalizione. La
passata vittoria di François Hollande in Francia non ha mutato in modo
significativo gli equilibri in Europa, la sua promessa di insistere
sulla crescita anziché sull’austerità è stata dimenticata, e il governo
registra una grave perdita di popolarità sul piano interno.
Allo stesso tempo si rafforzano in tutti i paesi le spinte populiste, anti-europee, di estrema destra, con prospettive di successo per forze come l’Ukip inglese, il Front National francese, il partito di destra tedesco anti-euro Alternativa per la Germania, l’estrema destra di Austria, Olanda e altri paesi. Si tratta di una deriva pericolosa alla vigilia delle elezioni per il Parlamento europeo della primavera 2014. Nei prossimi mesi il rischio è che il dibattito contrapponga da un lato l’Europa dell’austerità – gestita quasi ovunque da governi di grande coalizione – e dall’altro il rifiuto dell’Europa in nome di populismi e nazionalismi.
Allo stesso tempo si rafforzano in tutti i paesi le spinte populiste, anti-europee, di estrema destra, con prospettive di successo per forze come l’Ukip inglese, il Front National francese, il partito di destra tedesco anti-euro Alternativa per la Germania, l’estrema destra di Austria, Olanda e altri paesi. Si tratta di una deriva pericolosa alla vigilia delle elezioni per il Parlamento europeo della primavera 2014. Nei prossimi mesi il rischio è che il dibattito contrapponga da un lato l’Europa dell’austerità – gestita quasi ovunque da governi di grande coalizione – e dall’altro il rifiuto dell’Europa in nome di populismi e nazionalismi.
Questa, tuttavia, non è una scelta obbligata. Esiste un’altra Europa
possibile, fondata non sul mercato e la finanza, ma sul lavoro, sui
diritti, sull’uguaglianza, sulla sostenibilità, sulla democrazia.
È dall’inizio delle controfinanziarie, nel 1999, che Sbilanciamoci!
critica il modello di integrazione europea fondato sui parametri di
Maastricht, denuncia i limiti dell’Unione monetaria, gli effetti
negativi per i paesi come l’Italia, chiede di limitare il potere della
finanza. Da quando è scoppiata la crisi del 2008, queste critiche e le
proposte di cambiamento sono state al centro di decine di rapporti,
libri, e-book, contro-Cernobbio e iniziative politiche di
Sbilanciamoci!, oltre al dibattito quotidiano sul sito
www.sbilanciamoci.info, dove sull’Europa sono stati pubblicati centinaia
di articoli.
Nella critica dell’Europa della finanza e dell’austerità si tratta di
fare i conti con due questioni. La prima riguarda l’evoluzione della
politica. L’ipotesi che ci fosse uno spazio per politiche dei governi
nazionali e per una strategia dell’Europa capaci di introdurre una
discontinuità col neoliberismo e di rovesciare le politiche di austerità
non ha trovato conferme. L’esperienza deludente del governo socialista
di François Hollande, la continuità con le politiche passate dei governi
di grande coalizione in Italia come in Germania e l’insistenza di
Bruxelles e Francoforte sulle politiche del passato mostrano
l’immobilità della politica e delle élite europee e nazionali. Né le
proteste sociali e sindacali, né l’opposizione politica, né qualche
successo elettorale delle forze di centro-sinistra sono stati
sufficienti a portare a un cambio di rotta, a livello nazionale come in
Europa. Il risultato di questo perseverare in politiche sbagliate è
l’aggravarsi della crisi, sei anni di depressione in Italia, la frattura
crescente tra centro e periferia dell’Europa.
La prospettiva di una politica di cambiamento, legata al progetto di
Europa post-liberista, appare bloccata dall’immobilità dei governi e
delle istituzioni da un lato, e dall’altra dall’esiguità del consenso
che nelle recenti elezioni hanno ottenuto le forze di opposizione – da
sinistra – ai governi di larghe intese in Europa. Sul terreno della
politica elettorale a pagare non è la richiesta di un’altra Europa, ma
l’anti-Europa. Il consenso elettorale, anche nei gruppi sociali più
colpiti dalla crisi, va sempre più a forze populiste – in Italia il
Movimento Cinque Stelle, ma anche forze del centrodestra. Questo
riflette l’insoddisfazione per l’inadeguatezza della politica europea,
ma anche la ricerca di risposte semplici a problemi complessi.
Le proposte che ne risultano tendono a essere semplicistiche e
illusorie. L’esempio più ovvio è buona parte del dibattito sull’uscita
dall’euro e sul ritorno a monete nazionali come una soluzione automatica
alla crisi. Si pensa a un ritorno a un passato immaginario dove i paesi
hanno solide basi produttive, in cui la competitività può essere
sostenuta attraverso la svalutazione della moneta, in cui i capitali
restano comunque all’interno del paese, in cui non c’è rischio di
attacchi speculativi, in cui tutto questo aumenta i gradi di libertà per
le politiche economiche nazionali. Si trascura quanto sarebbe
complicato il ritorno alle monete nazionali e quanta cooperazione
europea sarebbe richiesta per realizzarlo.
La realtà, oggi, è che i capitali sono pienamente liberi di muoversi –
ci sono 150 miliardi di euro di capitali italiani in Svizzera. La
reintroduzione di monete nazionali offrirebbe una nuova facile preda
alla speculazione, con il rischio di crisi valutarie che potrebbero
avere effetti peggiori dell’attuale pressione sul debito, come ha
mostrato la crisi asiatica del 1997-98. Con un quarto della capacità
produttiva industriale perduta, l’Italia difficilmente potrebbe tradurre
la svalutazione in forte crescita dell’export, mentre la dipendenza
dall’estero non solo per le materie prime, ma anche per tutti i prodotti
ad alta tecnologia significa che la svalutazione della moneta si
tradurrebbe in un aumento dei prezzi che ridurrebbe ulteriormente i
salari reali. Il rischio di una spirale fatta di svalutazione,
inflazione, fuga di capitali, deficit estero e caduta della produzione
potrebbe lasciare il paese in condizioni peggiori di quelle attuali.
Anziché aumentare i gradi di libertà delle politiche, c’è il rischio che
il ritorno a monete nazionali spinga la politica economica dei paesi in
crisi a mettere al primo posto la stabilizzazione del cambio – com’è
avvenuto con la crisi della lira nel 1992 – sacrificando ogni altro
obiettivo.
Un obiettivo prioritario è quindi quello di “legare le mani” alla
finanza e porre limiti alla mobilità dei capitali. Misure di questo tipo
sono state introdotte dalla stessa Europa a Cipro dopo la crisi
finanziaria del paese: il paese è rimasto nell’area euro, continua a
usare la moneta comune, ma i capitali non possono uscire dal paese e
servono a rifinanziare le banche e l’economia. Per contrastare la
finanza, le proposte sono ben note: una tassa sulle transazioni
finanziarie ben più dura di quella introdotta finora che ridimensioni il
settore, divieto delle attività finanziarie più rischiose e dannose per
l’economia reale, limiti alle vendite allo scoperto, divisione tra
banche commerciali e banche d’affari, vincoli più efficaci sull’operato
delle banche, una ristrutturazione del settore bancario con un ruolo
chiave di una banca d’investimento pubblica che indirizzi le operazioni
verso l’economia reale anziché verso la finanza, la tassazione dei
patrimoni finanziari e aliquote più alte per la tassazione delle rendite
finanziarie.
Concentrare su questo obiettivo le richieste di cambiamento
offrirebbe forse migliori spazi per una politica diversa. E la
costruzione di ampie alleanze sociali e politiche per realizzare alcune
di queste misure potrebbe essere più realizzabile. Con una finanza
ridimensionata diventerebbe più agevole una riforma radicale dell’Unione
monetaria e della Banca centrale europea e una rottura con le politiche
di austerità, che sono gli altri due obiettivi fondamentali per
realizzare un cambio di rotta.
Ma di fronte alla crisi europea, in effetti, il nodo irrisolto resta
quello dell’efficacia dell’azione per il cambiamento: se le elezioni e
le manifestazioni non funzionano, come si può costringere il potere
economico e politico a cambiare strada per uscire dalla crisi?
La minaccia di uscita dall’euro ha qui l’immagine di un’arma assoluta capace di far saltare il sistema che ci ha portato alla depressione. Ma chi dovrebbe impugnarla? Gli attuali governi di larghe intese? Uno schieramento populista capace di vincere le elezioni? Gli stessi poteri forti dell’Europa che si liberebbero così dei disastrati paesi della periferia? Sono scenari che appaiono illusori quanto gli effetti risolutivi che a tale mossa vengono attribuiti.
La minaccia di uscita dall’euro ha qui l’immagine di un’arma assoluta capace di far saltare il sistema che ci ha portato alla depressione. Ma chi dovrebbe impugnarla? Gli attuali governi di larghe intese? Uno schieramento populista capace di vincere le elezioni? Gli stessi poteri forti dell’Europa che si liberebbero così dei disastrati paesi della periferia? Sono scenari che appaiono illusori quanto gli effetti risolutivi che a tale mossa vengono attribuiti.
Certo, se la crisi si aggravasse ulteriormente, potrebbero diventare
inevitabili anche misure estreme, come l’uscita dall’euro e l’insolvenza
sul debito pubblico. Ma il costo economico e sociale di misure di
questo tipo in condizioni di emergenza sarebbe pesantissimo, innanzi
tutto per le classi popolari. Per realizzare un cambiamento di rotta,
più concreta sembra la strada di costruire – senza scorciatoie –
un’alleanza tra la vittime della crisi. Sul piano sociale, tra
lavoratori di tutti i tipi – dipendenti e autonomi, precari e stabili,
nativi e immigrati, giovani e vecchi, ricostruendo identità collettive e
solidarietà sociali a scala europea. Sul piano economico, tra il lavoro
e le imprese, contro il potere della finanza. Sul piano nazionale, tra i
paesi della periferia messi ai margini dell’Europa. Un “vertice della
periferia” in cui si incontrino movimenti sociali, associazioni,
sindacati, forze politiche e, perché no, governi di Italia, Grecia,
Spagna, Portogallo sarebbe un passo importante per dare visibilità e
voce all’altra Europa che vogliamo, quella che può fermare l’Europa
della finanza e dell’austerità, ma anche le pulsioni verso un ritorno di
nazionalismi.
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