Il rottamatore e il kennediano di Alberto Burgio, Il Manifesto
Ce l'abbiamo fatta. Dopo vent'anni di
berlusconismo abbiamo il prototipo che ne incarna l'essenza e ne assicura la
riproduzione. Il vecchio leone potrebbe consolarsi, dovesse anche decadere. Ha
la successione assicurata e per di più alla guida dell'avversario. Graecia
capta... . Siamo sinceri, nessuno avrebbe previsto un Pd guidato dal
personaggio che più di ogni altro somiglia al Cavaliere. Ha ragione Carlo
Freccero nell'insistere sulle analogie tra Berlusconi e Renzi, comunicatori
senza contenuti. Campioni dell'ovvio, protagonisti su una scena politica dove
conta sempre meno quel che dici e sempre più come lo dici. Sbanchi se sei
capace di parlare per slogan e giochi di parole. Poi guai a guardarci dentro in
quel che dici. «La sinistra che non cambia non è sinistra, è destra». Come se la
destra non fosse capace di cambiamenti profondi e
rovinosi, come rammenta la storia più tragica del Novecento. Ma che ci frega
della storia? È roba vecchia, noi guardiamo avanti. «Cambiamo verso». Poi c'è
un'altra analogia, non meno istruttiva, che merita qualche riflessione. Renzi
ripete consapevolmente il gesto di colui che, cinque anni or sono, irruppe
sulla scena politica italiana con altrettanto fragore. Si accordò col Berlusca,
anche allora malconcio e rottamando. Si sbracciò per far cadere il governo,
anche allora a guida democratica. E chiamò a raccolta il popolo nel nome della
«vocazione maggioritaria» del Pd, che avrebbe dovuto stravincere e permettergli
di emulare da Palazzo Chigi gli adorati Clinton e Blair, colonne del
neoliberismo progressista. Poi sappiamo come andò. Il Cavaliere riesumato
recuperò il distacco e vinse le elezioni per la terza volta. La gioiosa
macchina da guerra democratica si ritrovò a risalire in disordine e senza
speranza le valli che aveva disceso con orgogliosa sicurezza. E il profeta
promise di espiare le proprie colpe nel Subsahara, dove però purtroppo nessuno
volle accoglierlo. Renzi, naturalmente, si augura altra fortuna, ma qualche
somiglianza di troppo consiglierebbe cautela. A lui e ai tanti che, folgorati
sulla via per Damasco, già lo incoronano duce della nuova Italia. Che oggi il
sindaco di Firenze sia ossessionato dall'ancor giovane presidente del consiglio
in carica, come ieri Veltroni lo fu dal più stagionato premier di allora - quel
vecchio Prodi insieme al quale aveva guidato il governo dieci anni prima - è
sin troppo evidente. Veltroni non stava nella pelle, una volta che il Lingotto
l'aveva acclamato primo segretario del neonato Pd. Mica poteva stare in
panchina tre anni e mezzo a logorarsi. A lavorare nelle retrovie per sostenere
un governo altrui che navigava in acque tempestose. Così Renzi. Ogni giorno che
passa con Letta in sella è un piccolo sfregio alla sua immagine patinata. Non è
che ora ci si convincerà che non c'è solo lui a incarnare il Nuovo? Non è che
qualcuno si mette in testa che tra la vecchia guardia rottamata e la
generazione rampante dei rottamatori il salto è troppo ardito e rischia di
essere mortale? Bruciare i tempi della crisi, mandare a casa il governo ancora
una volta per interposto caimano, e votare al più presto, questo l'antidoto.
Oggi come ieri nel nome della vocazione maggioritaria del Pd, che Renzi agita
senza tema che gli meni sfiga. Certo, molto è cambiato e bisogna
riconoscerglielo. Il governo delle larghe intese non è il governo dell'Unione,
che pure uno sballo non era. L'austerità che sta massacrando il paese non
ispirava l'agenda prodiana, ancora legata allo schema dei due tempi (stabilità
e crescita), che era una presa in giro (la stabilità non bastava mai, la
crescita non sarebbe mai arrivata) ma almeno non c o m p o r t a v a la rapina
a mano armata di chi campa a stento di lavoro. E poi Renzi ha un'attenuante
storica, biografica. Non proviene dalle file del glorioso Pci, non ha diretto
un giornale fondato, qualche secolo fa, da Antonio Gramsci, non ha raggirato
milioni di italiani con un pedigree politico rosso fuoco e con accorati
proclami di fedeltà allo spirito dei Costituenti. È un rampollo democristiano e
non fa niente per nasconderlo. Non è colpa sua se i geniali strateghi del
postcomunismo postocchettiano hanno pensato bene di accoppiarsi con gli eredi
di Fanfani e Andreotti in un unico partito finendo nel giro di un quinquennio
in minoranza nella sua direzione. Sta di fatto che per tanti versi i due - il
rottamatore e il kennediano - si somigliano come gocce d'acqua. Nemici giurati
del proporzionale, inclinano verso soluzioni presidenzialistiche. L'idea,
demenziale e devastante, del sindaco d'Italia, parto della fantasia di quel
gigante che fu Mariotto Segni, li emoziona entrambi e anche per quanto riguarda
la «forma» del partito la pensano allo stesso modo. Un grande nocchiero al
timone, e l'intendenza seguirà. Proprio come accade in campo avverso, dove il
padre-padrone decide senza perder tempo in defatiganti discussioni interne. Ma
è soprattutto sul terreno sociale che Walter sembra tanto l'apripista di
Matteo. Quelle che restano parole memorabili del primo (i giovani non vogliono
il posto fisso, lo trovano noioso; una sinistra moderna è equidistante tra
lavoro e impresa) riecheggiano negli scoppiettanti slogan del secondo.
Rieditati all'altezza dei tempi. Che cosa sono i sindacati per il futuro leader
democratico? Organizzazioni piene di soldi, inutili e da rottamare. Che cosa
dovrebbe fare una sinistra moderna per risolvere il dramma della
disoccupazione? Cambiare i centri per l'impiego. Come riusciremo ad «agganciare
la ripresa»? Semplificando le regole del gioco, come dice da anni anche il
Brunetta, e mandando al macero lo Statuto dei lavoratori. Basta. Forse non è il
caso di prestare altra attenzione al Verbo renziano, e vale piuttosto la pena
di considerare con realismo e spregiudicatezza lo scenario che si apre dopo la
quarta Leopolda e il suo eclatante successo. Tutti oggi pronosticano la
conquista della segreteria democratica da parte di Renzi e molti ritengono più
che probabile una sua vittoria alle prossime politiche, quando saranno. Anche
se tanta sicumera non è di buon auspicio, può darsi che le cose vadano così,
che Renzi «asfalti» sinistra Pd e destra berlusconica e diventi il Blair
italiano. Dopodiché la questione che dovremmo porci sin d'ora è che fine
farebbe, in questa eventualità, la gente di cui la sinistra (quella vera) ha il
dovere di prendersi cura. Di questo dovrebbe parlare senza ambiguità chi osserva
lo scontro interno al Pd e davvero intende operare per ridare speranza al
popolo della sinistra umiliato e offeso. Su questo bisognerebbe dire parole
limpide e agire di conseguenza. Resistendo per una volta alle sirene di quel
trasformismo che qualcuno definì come il tratto più caratteristico della nostra
storia nazionale.
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