sabato 2 novembre 2013

Il rottamatore e il kennediano di Alberto Burgio, Il Manifesto



Ce l'abbiamo fatta. Dopo vent'anni di berlusconismo abbiamo il prototipo che ne incarna l'essenza e ne assicura la riproduzione. Il vecchio leone potrebbe consolarsi, dovesse anche decadere. Ha la successione assicurata e per di più alla guida dell'avversario. Graecia capta... . Siamo sinceri, nessuno avrebbe previsto un Pd guidato dal personaggio che più di ogni altro somiglia al Cavaliere. Ha ragione Carlo Freccero nell'insistere sulle analogie tra Berlusconi e Renzi, comunicatori senza contenuti. Campioni dell'ovvio, protagonisti su una scena politica dove conta sempre meno quel che dici e sempre più come lo dici. Sbanchi se sei capace di parlare per slogan e giochi di parole. Poi guai a guardarci dentro in quel che dici. «La sinistra che non cambia non è sinistra, è destra». Come se la destra non fosse capace di cambiamenti profondi e rovinosi, come rammenta la storia più tragica del Novecento. Ma che ci frega della storia? È roba vecchia, noi guardiamo avanti. «Cambiamo verso». Poi c'è un'altra analogia, non meno istruttiva, che merita qualche riflessione. Renzi ripete consapevolmente il gesto di colui che, cinque anni or sono, irruppe sulla scena politica italiana con altrettanto fragore. Si accordò col Berlusca, anche allora malconcio e rottamando. Si sbracciò per far cadere il governo, anche allora a guida democratica. E chiamò a raccolta il popolo nel nome della «vocazione maggioritaria» del Pd, che avrebbe dovuto stravincere e permettergli di emulare da Palazzo Chigi gli adorati Clinton e Blair, colonne del neoliberismo progressista. Poi sappiamo come andò. Il Cavaliere riesumato recuperò il distacco e vinse le elezioni per la terza volta. La gioiosa macchina da guerra democratica si ritrovò a risalire in disordine e senza speranza le valli che aveva disceso con orgogliosa sicurezza. E il profeta promise di espiare le proprie colpe nel Subsahara, dove però purtroppo nessuno volle accoglierlo. Renzi, naturalmente, si augura altra fortuna, ma qualche somiglianza di troppo consiglierebbe cautela. A lui e ai tanti che, folgorati sulla via per Damasco, già lo incoronano duce della nuova Italia. Che oggi il sindaco di Firenze sia ossessionato dall'ancor giovane presidente del consiglio in carica, come ieri Veltroni lo fu dal più stagionato premier di allora - quel vecchio Prodi insieme al quale aveva guidato il governo dieci anni prima - è sin troppo evidente. Veltroni non stava nella pelle, una volta che il Lingotto l'aveva acclamato primo segretario del neonato Pd. Mica poteva stare in panchina tre anni e mezzo a logorarsi. A lavorare nelle retrovie per sostenere un governo altrui che navigava in acque tempestose. Così Renzi. Ogni giorno che passa con Letta in sella è un piccolo sfregio alla sua immagine patinata. Non è che ora ci si convincerà che non c'è solo lui a incarnare il Nuovo? Non è che qualcuno si mette in testa che tra la vecchia guardia rottamata e la generazione rampante dei rottamatori il salto è troppo ardito e rischia di essere mortale? Bruciare i tempi della crisi, mandare a casa il governo ancora una volta per interposto caimano, e votare al più presto, questo l'antidoto. Oggi come ieri nel nome della vocazione maggioritaria del Pd, che Renzi agita senza tema che gli meni sfiga. Certo, molto è cambiato e bisogna riconoscerglielo. Il governo delle larghe intese non è il governo dell'Unione, che pure uno sballo non era. L'austerità che sta massacrando il paese non ispirava l'agenda prodiana, ancora legata allo schema dei due tempi (stabilità e crescita), che era una presa in giro (la stabilità non bastava mai, la crescita non sarebbe mai arrivata) ma almeno non c o m p o r t a v a la rapina a mano armata di chi campa a stento di lavoro. E poi Renzi ha un'attenuante storica, biografica. Non proviene dalle file del glorioso Pci, non ha diretto un giornale fondato, qualche secolo fa, da Antonio Gramsci, non ha raggirato milioni di italiani con un pedigree politico rosso fuoco e con accorati proclami di fedeltà allo spirito dei Costituenti. È un rampollo democristiano e non fa niente per nasconderlo. Non è colpa sua se i geniali strateghi del postcomunismo postocchettiano hanno pensato bene di accoppiarsi con gli eredi di Fanfani e Andreotti in un unico partito finendo nel giro di un quinquennio in minoranza nella sua direzione. Sta di fatto che per tanti versi i due - il rottamatore e il kennediano - si somigliano come gocce d'acqua. Nemici giurati del proporzionale, inclinano verso soluzioni presidenzialistiche. L'idea, demenziale e devastante, del sindaco d'Italia, parto della fantasia di quel gigante che fu Mariotto Segni, li emoziona entrambi e anche per quanto riguarda la «forma» del partito la pensano allo stesso modo. Un grande nocchiero al timone, e l'intendenza seguirà. Proprio come accade in campo avverso, dove il padre-padrone decide senza perder tempo in defatiganti discussioni interne. Ma è soprattutto sul terreno sociale che Walter sembra tanto l'apripista di Matteo. Quelle che restano parole memorabili del primo (i giovani non vogliono il posto fisso, lo trovano noioso; una sinistra moderna è equidistante tra lavoro e impresa) riecheggiano negli scoppiettanti slogan del secondo. Rieditati all'altezza dei tempi. Che cosa sono i sindacati per il futuro leader democratico? Organizzazioni piene di soldi, inutili e da rottamare. Che cosa dovrebbe fare una sinistra moderna per risolvere il dramma della disoccupazione? Cambiare i centri per l'impiego. Come riusciremo ad «agganciare la ripresa»? Semplificando le regole del gioco, come dice da anni anche il Brunetta, e mandando al macero lo Statuto dei lavoratori. Basta. Forse non è il caso di prestare altra attenzione al Verbo renziano, e vale piuttosto la pena di considerare con realismo e spregiudicatezza lo scenario che si apre dopo la quarta Leopolda e il suo eclatante successo. Tutti oggi pronosticano la conquista della segreteria democratica da parte di Renzi e molti ritengono più che probabile una sua vittoria alle prossime politiche, quando saranno. Anche se tanta sicumera non è di buon auspicio, può darsi che le cose vadano così, che Renzi «asfalti» sinistra Pd e destra berlusconica e diventi il Blair italiano. Dopodiché la questione che dovremmo porci sin d'ora è che fine farebbe, in questa eventualità, la gente di cui la sinistra (quella vera) ha il dovere di prendersi cura. Di questo dovrebbe parlare senza ambiguità chi osserva lo scontro interno al Pd e davvero intende operare per ridare speranza al popolo della sinistra umiliato e offeso. Su questo bisognerebbe dire parole limpide e agire di conseguenza. Resistendo per una volta alle sirene di quel trasformismo che qualcuno definì come il tratto più caratteristico della nostra storia nazionale.

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