Paolo Ercolani
C'è stato un tempo in cui la politica non si faceva nei talk show. I protagonisti di quella stagione non erano miliardari (né si apprestavano a diventarlo), che incentravano la propria azione sul carisma personale e su misurazioni del consenso che ricordano i meccanismi dell’audience mediatico.
Di questa epoca che si staglia alle nostre spalle, protagonista indiscusso è stato Enrico Berlinguer, per quasi quindici anni leader indiscusso del partito comunista italiano, di cui il prossimo sette giugno si celebra il trentennale della morte, avvenuta a Padova durante un comizio in vista delle imminenti elezioni europee.
Fra i molti libri che le più prestigiose case editrici italiane si apprestano a stampare, emerge con un valore tutto proprio il lavoro inedito di Guido Liguori, studioso del pensiero politico e di Gramsci, di cui esce in questi giorni per Carocci il suo Berlinguer rivoluzionario. Il pensiero politico di un comunista democratico(pp. 180, euro 13; è anche co-curatore, insieme a Paolo Ciofi, di Enrico Berlinguer. Un’altra idea del mondo. Antologia 1969–1984, Editori Riuniti University Press).
Il rischio del volume è di idealizzare quell’epoca e, con essa, Enrico Berlinguer che ne è stato un protagonista indiscusso. Un rischio che si presenta con tutta evidenza quando Liguori ce lo descrive come il dirigente per il quale la politica è «passione e dovere», un modello di uomo politico impensabile ai giorni nostri, che «sempre immerso nei libri e nei giornali, passava le nottate a leggere, a prepararsi». Un rischio destinato a essere superato grazie al rigore analitico dell’autore e all’esplicitazione , ma anche non appena si chiarisce del contesto in cui Berlinguer si trovava ad operare.
LA FINE DI UN’EPOCA
In questo senso è centrale un episodio riportato nel volume: il 27 giugno del 1976, al summit di Puerto Rico dei paesi più industrializzati, i presidenti di Stati Uniti e Francia, congiuntamente ai primi ministri di Regno Unito e Germania Ovest, si riunirono in tutta segretezza e all’insaputa di Aldo Moro (allora capo del Governo italiano e anche lui presente al summit in rappresentanza del proprio paese), per convenire sulle misure punitive che sarebbero state prese nei confronti dell’Italia se il Pci fosse andato al governo. A nulla erano servite le dichiarazioni concilianti di Berlinguer sulla Nato: il partito comunista italiano, il più grande e forte dei paesi occidentali, conservava il ruolo di nemico da combattere, Un episodio eloquente svelato al pubblico dal leader socialdemocratico tedesco Helmut Schmidt, il quale parlò di un vero e proprio «avvertimento», veicolo di un «terrorismo economico».
L’apertura di Berlinguer verso il blocco governato dagli Stati Uniti è nota, con tanto di dichiarazione della «nostra appartenenza» ai paesi Nato (la cosiddetta «via italiana al socialismo» non prevedeva ostacoli o condizionamenti da parte dell’Urss, secondo le parole del segretario), ma evidentemente questo non era stato sufficiente a tranquillizzare i professionisti dell’anticomunismo, memori di un capo del partito comunista italiano che, sempre in quegli anni, si lasciava andare a una dichiarazione tanto forte quanto discutibile: «È un fatto: nel mondo capitalistico c’è la crisi, nel mondo socialista no».
Liguori è opportuno ed efficace nel richiamare un dato centrale: quella, a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, era anche l’epoca di un mondo che stava comunque cambiando. È in quella fase che ha inizio il fenomeno politico sociale che oggigiorno si è affermato con forza sovrana, e che insieme all’episodio di Puerto Rico costituisce un elemento nodale di comprensione di quel tempo: la fine del modello keynesiano, caratterizzato da una felice commistione di libero mercato e intervento governativo (welfare state) e il ritorno prepotente dell’ideologia e della politica liberista, basata sull’esaltazione della ricerca del profitto individuale e sulla mortificazione di ogni intervento statale che fosse volto alla tutela della giustizia sociale.
IL PECCATO ORIGINALE
Contro questo preponderante ritorno di un’economia a cui veniva affidato il governo incontrastato sulla politica e sulle faccende umane, nell’ambito del mondo che si stava globalizzando, Enrico Berlinguer opponeva una soluzione che ha forti eco con quella portata avanti da Joseph Stiglitz (premio Nobel per l’economia in virtù di idee diverse da quelle dei liberisti): un «governo mondiale» che, sulle basi politiche della centralità dell’uomo e dei suoi bisogni, fosse in grado di porre un freno alle spinte mercatiste di un capitalismo che «aveva generato la decadenza della vita economica e della vita sociale, da cui nascevano non solo crescenti disagi materiali per le grandi masse della popolazione lavoratrice, ma anche il malessere, le ansie, le angosce, le frustrazioni, le spinte alla disperazione, le chiusure individualistiche, le illusorie evasioni».
In tale contesto quella di Berlinguer è anche la storia di una grande sconfitta, e questo emerge in maniera timida dalle considerazioni di Liguori.
Il suo essere stato anzitutto un uomo dell’apparato, la sua miopia ideologica e politica rispetto alle spinte provenienti dai movimenti meno proni all’ortodossia marxista-leninista, il conservatorismo ideologico misto al deficit di laicità (peccato originale del comunismo italiano) che lo situarono su posizioni scettiche riguardo agli importanti referendum indetti dai radicali negli anni Settanta, rappresentano alcuni degli elementi alla base della sconfitta di Berlinguer (e del Pci), soprattutto di fronte alle spinte postmoderniste provenienti dal Psi del rampante Craxi.
INOPPORTUNE MITOLOGIE
Allora come oggi, probabilmente, in cui l’apparato più ortodosso del Pd (proveniente dall’ex Pci), col proprio immobilismo ha lasciato campo libero all’emersione esplosiva di figure spregiudicate e senza un fondamento teorico e programmatico di fondo, ci si è trovati a pagare un prezzo salatissimo e drammatico, proprio nel momento in cui maggiormente sarebbe stato necessario avere un forte contraltare alle spinte nuovamente disumanizzanti e totalitarie del neo-liberismo.
Certo, la denuncia berlingueriana della «questione morale» fu quanto mai profetica, come quel suo monito affinché i «partiti cessino di occupare lo Stato», ma è indubbio che troppi ritardi all’interno del Pci contribuirono in maniera sostanziale a che l’ideologia liberista riuscisse nella sua impresa di distruggere proprio lo Stato, rendendo conseguentemente obsoleti e depotenziati quegli stessi partiti (e idee) politici.
Ormai è il tempo in cui la politica si fa nei talk show. Una «piccola politica» (Gramsci) a cui Berlinguer ha poco o nulla da dire. Alla «grande politica», ammesso che essa possa finalmente tornare, potrebbe invece dire molto. A patto che si sia consapevoli anche dei suoi limiti. Tenendosi ben lontani da inopportune mitologie. Ben lontani, a pensarci bene, dalla logica spettacolare dei talk show.
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