La riduzione della competizione per le elezioni europee a un match frontale, tutto italiano, tra due icone vuote di contenuti quanto piene di invadente presenzialismo
ha premiato Renzi e punito Grillo. Ma a perdere sono stati gli italiani o, meglio, ha perso la democrazia. Perché la riforma elettorale, quella del Senato o l'abolizione delle Province volute da Renzi non fanno che ridurne progressivamente il campo di applicazione.
Ha perso il pluralismo: ora c'è un uomo solo al comando di un partito al potere, al comando del governo e arbitro, anche, dei destini dello Stato; e gli altri partiti, satelliti o comprimari, sono in via di sparizione, né hanno molte ragioni per continuare a esistere. E ha perso, rendendo sempre meno sindacabili le scelte del "premier", la prospettiva di un vero cambiamento: il quadro europeo in cui il PD si inserisce e di cui sarà un garante non consente cambi di rotta.
E insieme a tutte queste cose hanno perso i lavoratori, i disoccupati, i giovani condannati a una condizione di crescente precarietà e impoverimento; e i pensionati condannati a in larga misura alla miseria; anche, e forse soprattutto, quelli che lo hanno votato.
Ma non si è trattato, come sostengono molti commentatori, di una vittoria sul populismo. Renzi non è meno populista di Grillo se per populismo si intende un richiamo identitario: le "riforme"', presentate come intervento salvifico, senza specificarne contenuto e conseguenze, e la "rottamazione" del "vecchio", presentata come programma senza saper specificare in che cosa consista il "nuovo". Il programma di Grillo, se si eccettua la sua ambivalenza di fondo sull'euro, che è ambivalenza sul ruolo che può e deve avere l'Europa nel determinare un cambio di rotta per tutti, era addirittura più concreto di quello con cui Renzi ha affrontato questa scadenza elettorale.
Entrambi comunque avevano gli occhi puntati sugli equilibri interni al pollaio italiano; la resa dei conti con le politiche europee l'avrebbero rimandata a un indeterminato domani: eurobond o uscita dall'euro per uno; ridiscussione dei margini del deficit per l'altro; nessuno dei due sembra rendersi conto che la crisi europea impone una revisione radicale del quadro istituzionale e delle strategie politiche, prima ancora di quelle economiche. Che comunque avrebbero bisogno di un po' di coerenza; che manca.
Non è stata nemmeno, quindi, una vittoria contro l'antieuropeismo: se per Grillo il problema è inesistente - la sua "indipendenza" da tutto e da tutti gli impedisce di avere alleati e prospettive che vadano al di là delle Alpi e dei mari di casa, per Renzi è l'assoluta subalternità al patto tra Schulz e Merkel, ormai ratificato dall'esito elettorale anche in Europa, che gli impedisce di avere, se non a parole - ma di parole la sua politica non manca mai - una visione delle misure, delle strategie e delle conseguenze di una vera rimessa in discussione dell'austerità. Quell'austerità che l'Europa la sta disintegrando non meno dei risorgenti nazionalismi (e i primi a pagarne le conseguenze saremo noi).
Meno che mai quella di Renzi è stata una vittoria della speranza contro il rancore. Se nell'ultimo anno il movimento cinque stelle ha dato prova della sua sostanziale inconcludenza, dovuta al controllo ferreo che i suoi due leader pretendono di esercitare su quadri e parlamentari che forse un ruolo più propositivo potrebbero e vorrebbero averlo, la motivazione di fondo del voto a Renzi è stata un clima da "ultima spiaggia". Paradigma di questo atteggiamento sono gli editoriali su Repubblica di Eugenio Scalfari, che non approva praticamente alcuna delle misure varate da Renzi e meno che mai i suoi progetti, ma che invitava a votarlo lo stesso perché "non c'è alternativa".
Così, se con queste elezioni la parabola del movimento cinque stelle ha imboccato irrevocabilmente una curva discendente, mentre Renzi sembra invece sulla cresta dell'onda - forse raggiunta troppo in fretta per poter consolidare una posizione del genere - è il vuoto di prospettive e la mancanza di una proposta di respiro strategico per riformare l'Europa a condannarlo a sgonfiarsi altrettanto rapidamente. Il che succederà inevitabilmente - pensate alla parabola di uno come Monti! - non appena Renzi dovrà fare i conti con quella governance europea che forse immagina di riuscire a conquistare con la stessa facilità, superficialità e disinvoltura con cui si è impadronito, gli uni dopo le altre, di primarie, partito, governo ed elettorato. Ma là, invece, c'è la "scorza dura" dell'alta finanza, che Renzi non si è mai nemmeno sognato di voler intaccare, ma che non è certo disposta a concedergli qualcosa che vada al di là di un sostegno formale e simbolico (un po' di spread in meno, forse; e solo per un po').
Ma come Grillo sta lasciando dietro di sé, in modo forse irreversibile, perché non facile da prosciugare, un mare di macerie (la politica trasformata in pernacchia, come Berlusconi l'aveva, prima di lui, e aprendogli la strada, trasformata in barzelletta e licenza), così anche Renzi lascerà dietro la sua prossima quanto inevitabile parabola, altri danni irreversibili: danni alla democrazia e alla costituzione; danni al diritto del lavoro e alle condizioni dei lavoratori, precari e non (se ancora, di questi ultimi, ce ne sono); danni alla scuola, alla sanità, al welfare, alle autonomie locali (che da sindaco non ha mai difeso dal patto di stabilità); danni a quel che resta della macchina dello Stato, smantellandone i capisaldi in nome del risparmio e dell'efficienza; danni al sistema delle imprese e dei servizi pubblici, messi in svendita per fare cassa; danni all'ambiente con la moltiplicazione di Grandi opere e Grandi eventi che nella mitologia del PD dovrebbero rilanciare l'economia e, soprattutto, danni alla tenuta morale della cittadinanza, messa per la terza o la quarta volta alla prova di una politica fondata sulle apparenze.
Di fronte a questo panorama, di cui l'elettorato non potrà evitare di prendere atto in tempi stretti, i risultati della lista L'altra Europa con Tsipras rappresentano un piccolo ma importante episodio di resistenza; perché in quella lista, e in nessun'altra proposta di livello nazionale, è contenuto il nucleo di un'alternativa possibile e praticabile alla perpetrazione di politiche destinate a portare allo sfascio l'intero continente, Germania compresa. Certamente i numeri di quella lista non sono esaltanti, anche se lo sono quelli di alcuni dei suoi partner europei. Però sono il frutto di un lavoro di conquista, voto per voto, consenso per consenso, impegno per impegno, che ha coinvolto migliaia di sostenitori delle più diverse provenienze, che non avevano certo come obiettivo finale o esclusivo il risultato elettorale.
Ma che proprio sperimentando, almeno in parte, e non senza molte contraddizioni, forme nuove, o profondamente rinnovate, di condivisione e di coesione, fondate su nuove pratiche, sono ben determinati ad andare avanti lungo la strada appena intrapresa. E non ciascuno per conto suo, o facendo ricorso alle proprie appartenenze, ma tutti insieme, aprendosi a quel mondo di delusi, di arrabbiati, di abbandonati, di incerti che la crisi del movimento cinque stelle e il mutamento antropologico del PD si stanno lasciando e continueranno a lasciarsi dietro le spalle.
In questa piccola affermazione, i voti di preferenza raccolti da due capolista come Barbara Spinelli e Moni Ovadia, che hanno messo il loro nome, la loro faccia e un mare di fatica a disposizione del progetto per rappresentarne il carattere unitario, sono una importante dimostrazione di quella spinta a un radicale rinnovamento delle proprie identità che fin dall'inizio è stata la cifra di quella nostra intrapresa. In pochi anni, sotto la guida di Alexis Tsipras, Syriza, da piccola aggregazione di identità differenti si è fatta partito di governo. Dunque, si può fare. Quel nome nel simbolo della lista non è stato messo per caso.
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