sabato 17 maggio 2014

Il Pil vota contro l’Eurozona di PierGiorgio Gawronski, Il Fatto Quotidiano

Tutti invocano la crescita, ma il Pil continua a deludere le attese dei nostri governanti. Ma cosa frena la ripresa? L’offerta o la domanda? Il Presidente Francese Hollande, come altri leaders europei, sembra avere le idee chiare: “è sull’offerta che dobbiamo intervenire. Sull’offerta! Con ciò non intendo negare l’importanza della domanda: l’offerta, in realtà, crea la domanda”. Questa teoria, passata alla Storia con il nome di ‘Legge di Say’, in negativo recita: “è la debolezza dell’offerta che distrugge la domanda”. Corollario: né l’Euro né le politiche macroeconomiche restrittive associate sono responsabili del malessere dell’Eurozona (EZ): l’origine è puramente domestica; la cura sono le politiche microeconomiche dell’offerta; se molti paesi sono simultaneamente in crisi, è una mera coincidenza.
L’ipotesi alternativa, detta ‘isteresi’, afferma invece: “La domanda crea l’offerta”; e in negativo: “La depressione della domanda distrugge l’offerta”. Essa ha tutt’altre implicazioni. La crisi nasce da una gestione errata dell’EZ; le politiche di stabilizzazione della domanda nel breve termine ridurrebbero la disoccupazione, nel lungo termine eviterebbero una distruzione permanente di capacità produttiva (offerta).
Da quando nel 2008 è scoppiata la crisi queste due visioni vengono dibattute con calore, essendo alla radice delle diverse impostazioni di politica economica. La Legge di Say, in particolare, è alla base delle ricette Europee ‘ufficiali’, austerità e riforme strutturali. Dal DEF risulta che lo stesso Governo Renzi, come i precedenti, punta a stimolare la crescita con una nuova liberalizzazione del mercato del lavoro. Dopo cinque anni, cominciamo però ad avere dei dati chiarificatori. Il grafico presenta l’andamento in Italia del PIL effettivamente prodotto e del ‘Pil Potenziale’ (offerta). Quest’ultimo è una stima dell’OCSE, simile a quelle della Commissione Europea e del FMI, le cui oscillazioni annuali sono state attenuate.
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Come si vede, per molti anni il PIL Effettivo e il PIL Potenziale sono cresciuti assieme senza gravi perturbazioni. Dal 2008 l’esplosione della crisi ha fatto precipitare il PIL del 6,8% (stima a fine 2014). La distanza fra il PIL e il PIL Potenziale, detta ‘output-gap’ – il 6,6% del PIL corrente, circa 108 miliardi di Euro – è lo spazio disponibile per politiche non inflazioniste di stimolo alla domanda miranti ad abbattere la disoccupazione. (Questa è la priorità democratici americani; soleva essere condivisa dalla socialdemocrazia europea). Gli economisti neoliberali hanno invece sostenuto che l’output-gap tende a chiudersi da solo, perciò la politica economica deve concentrarsi unicamente sul lato dell’offerta, con l’obiettivo di alzare il tasso di crescita del PIL Potenziale: nel lungo termine “l’offerta crea la domanda”. Dopo cinque anni è giusto chiedere quanto lungo è il ‘lungo termine’.
Focalizziamo ora l’attenzione sul ‘Pil Potenziale’. La priorità dei supply-siders è accelerare la crescita della produttività per accrescere la pendenza della linea blu, che nel 2002-07 in Italia si era alquanto attenuata. Ma ora le stime dell’OCSE e di altre organizzazioni internazionali indicano che la prolungata depressione della domanda sta provocando una riduzione del capitale fisico ed umano: nonostante la crescita della popolazione e il progresso tecnologico, il Pil Potenziale scende. La carenza di domanda distrugge l’offerta; la teoria dell’isteresi si dimostra corretta. Il 21/1/2012 Mario Monti dichiarò che le sue riforme strutturali avrebbero alzato il Pil Potenziale dell’11%: ora sappiamo che aveva un modello sbagliato.
Come quantificare il danno al Pil Potenziale provocato dalla caduta della domanda? La freccia blu proietta nel futuro il tasso di crescita dell’offerta del 2002-07, e mostra l’andamento del ‘Pil Tendenziale’. La distanza fra la freccia e la linea blu mostra il calo del Pil Potenziale causato dalla depressione della domanda. Questo divario è pari al 7% del Pil, e sta ancora crescendo: i giovani lasciano il paese o l’Università, i disoccupati perdono capacità, le imprese non investono, ecc. In euro, la perdita è di circa 110 Mld. l’anno, 1850 euro pro capite, oltre 5500 euro per famiglia media; ma ad essere colpite sono soprattutto le classi deboli. Il costo per il bilancio pubblico è di circa 45 Mld. l’anno; in dieci anni il debito pubblico si alza di 37 punti di PIL. Quanto dovrebbe investire l’Italia per annullare la perdita di reddito causata dal gap del Pil Potenziale? Se gli investimenti rendessero il 9% l’anno, per ricostruire lo stock di capitale perduto servirebbero circa 1220 miliardi: una cifra enorme. Il gap produttivo totale (Pil tendenziale – Pil effettivo) nel 2014 raggiunge i 220 Mld. con un impatto sul deficit pubblico di circa 85 Mld.
Nei prossimi anni il vincolo alla crescita sarà ancora l’insufficienza della domanda. Lo si desume dall’ampiezza dell’output-gap corrente, dalla lentezza con cui – nei paesi più avanti nel ciclo – la ripresa si manifesta, dalle tendenze deflattive europee, cui tendono a sommarsi i vincoli dei Trattati dell’EZ e l’ottusa interpretazione che se ne dà. Occorre pertanto un nuovo paradigma della politica economica. L’unica via realmente ‘moderata’ ed ‘europeista’, dibattuta negli ambienti accademici ma ancora ignorata dal dibattito politico nazionale, è la riscrittura dei Trattati Europei per consentire il rilancio della domanda (“La Riforma Necessaria dell’Eurozona”, Rivista di Politica Economica, Marzo 2014). Una strategia però di là da venire, dato che nessun governo europeo ancora osa proporla.
E intanto? È possibile rilanciare la domanda in Italia in modo unilaterale, o per farlo bisogna uscire dall’euro? Il problema, oggi, non è tanto il deficit pubblico (giacché, spiega il FMI, la crescita finanzierebbe un appropriato deficit spending nel giro di venti mesi), quanto il deficit commerciale che riaprendosi, si teme, produrrebbe nuova instabilità. In realtà, molti paesi convivono per anni senza inconvenienti con deficit commerciali superiori al 2% del PIL, se la banca centrale garantisce la stabilità finanziaria. Nel lungo termine, tuttavia, l’EZ deve scegliere: o impara a chiudere gli squilibri competitivi senza imporre tassi di disoccupazione del 15-30%; o accetta la deindustrializzazione di intere nazioni, di cui si assume i debiti pubblici (Unione Politica); o rinuncia alla democrazia; o smantella l’Euro in maniera consensuale e controllata; o si condanna all’instabilità politica e alla propria eutanasia.

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