Qualcuno
ricorda ancora le previsioni di Mario Monti a proposito delle
liberalizzazioni varate dal suo governo, nel gennaio del 2012? Predisse
allora che il Pil nazionale sarebbe potuto crescere del 10%. Una cifra
che lasciò increduli tutti, e che gettò anche una piccola ombra di
credibilità sulla figura di un così autorevole tecnico. Forse però
qualcuno ricorda altri detti memorabili del presidente, come «la crisi è
alle spalle» del marzo scorso, o «la fine del tunnel sta incominciando a
illuminarsi», pronunciato alla vigilia della sua visita al presidente
francese Hollande, nel luglio 2012. Tutte queste ottimistiche previsioni
e quelle, ripetute, di altri ministri che abbiamo ascoltato in questi
mesi e settimane, gettano oggi una ulteriore luce sinistra sulle
prospettive dell’Italia. Perché esse si rivelano delle previsioni
erronee e infondate e certificano l’incapacità del governo tecnico di
venire a capo di una crisi vasta come mai nella storia del capitalismo e
di inedita complessità. Quelle promesse senza fondamento mostrano
infatti che molti dei tecnici del governo brillano in una branca
limitata della loro disciplina, il marketing. Sono degli ottimi
pubblicitari, forse contagiati, nel loro mestiere, dal Grande
Pubblicitario che li ha preceduti al governo. Ma falliscono tragicamente
sul terreno decisivo, quello dell’economia reale.
Tutti gli indici della situazione economica italiana autorizzano tale
giudizio. Se si fa eccezione per l’ abbassamento dello spread (mai
portato, tuttavia, a livelli fisiologici e mai stabilizzato) e per la
ritrovata dignità e autorevolezza dell’Italia sulla scena
internazionale, dopo un anno di “agenda Monti” le condizioni del paese
sono peggiorate, talora precipitate. Com’è a tutti noto, il debito
pubblico, il mostro per il quale il governo ha chiesto cosi tante
vittime sacrificali, è cresciuto. Ma è cresciuta ulteriormente anche la
disoccupazione – come confermano ancora gli ultimi dati Istat – e le
proiezioni dell’Ocse ci dicono che crescerà ancora il prossimo anno e
non solo in Italia. Il Pil, altro totem sacro dell’economia nazionale,
decresce di anno in anno a dispetto degli scongiuri governativi, che
annunciano la sua risalita sempre per l’anno prossimo. Nel frattempo
diminuisce costantemente la capacità di risparmio delle famiglie, lo
scrive la Banca d’Italia, i consumi precipitano all’indietro di decenni,
cala costantemente la produzione industriale, mentre si fanno più acuti
i processi di deindustrializzazione che interessano il nostro Paese
ormai da molti anni. Ad aumentare è solo la pressione fiscale.
Tali considerazioni sono necessarie innanzi tutto per riportare a dimensioni realistiche le pretese virtù salvifiche del presidente Monti. Non vogliamo sminuire la sua figura, ma almeno mostrare la clamorosa infondatezza della sua esaltazione, soprattutto da parte di tanti moderati, sbandati e senza idee, che cercano le ali di un qualche capo sotto cui rifugiarsi. Mario Monti è uno stimato tecnocrate che ha lavorato insieme ai tecnocrati della sua generazione a edificare il castello dell’economia neoliberistica, quella macchina ideologica e di potere che ha generato la crisi presente. Le sue idee economiche si muovono entro un recinto di categorie concettuali che hanno provato il loro fallimento. Sono state «falsificate», direbbe Popper, dalla presente crisi e dal disordine mondiale che vanno alimentando.
Ma, al di la delle ricette economiche, crediamo che la sua figura di leader sia tutt’altro che moderna, se vogliamo dare a questo termine il significato volgare che ad esso si dà nel dibattito politico corrente. Avete mai sentito Mario Monti parlare di ambiente, di riscaldamento climatico, di problemi del territorio italiano, di sistemi urbani? Qualcuno l’ha udito soffermarsi sulla questione vitale dei diritti delle persone, dei problemi della vita e della morte nelle società dominate dalla tecnoscienza? E la scuola e la formazione? Che idee ha il professor Monti? Le considerazioni sugli insegnanti italiani, espresse alla trasmissione di Fabio Fazio il 25 novembre, mostrano quale scarsa conoscenza specifica egli ha di questa istituzione fondamentale del Paese. Sgomenta poi, nel suo argomentare, l’assenza di una qualunque visione strategica del ruolo dello Stato nel nostro tempo, ovviamente sostituito dall’intelligenza metafisica del mercato.
Certo, l’impareggiabile modestia (per dire cosi…) del ceto politico che l’ha preceduto lo fa giganteggiare. Ma Monti incarna, simbolicamente e di fatto, il risucchiamento della politica nella tecnocrazia finanziaria. E questo non solo significa che il ceto politico ha consegnato l’esecutivo di un grande Paese a un rappresentante di quell’élite internazionale che lo ha messo ai margini e ora sta manomettendo la sovranità degli stati. Sotto il profilo culturale significa che chi oggi invoca la permanenza di Monti alla guida dell’Italia non insegue alcuna modernità. Non corre dietro alcuna avanguardia. Al contrario, chiede che si torni indietro, applaude a un tecnico del secolo scorso, al rappresentante di una cultura politica non solo fallimentare, ma anche vecchia, unilaterale, chiusa in un recinto di mondo reale che non va oltre la vita di banche e imprese. La sinistra lo deve dire alto e forte: Monti è un leader vecchio e inadeguato di fronte alla varietà e complessità delle sfide che abbiamo di fronte.
Ma i dati recenti dell’Ocse, che gettano una luce fosca sul prossimo avvenire dell’Italia e dei paesi della zona euro, inducono a una più larga considerazione. Continuiamo a parlare di crisi come un fenomeno unitario, che continua a imperversare da cinque anni. In realtà bisogna ormai scandire al suo interno almeno tre distinte fasi. La prima e la seconda sono state già messe in evidenza da tanti analisti. Nel settembre 2008 il fallimento della Lehman Brothers, in seguito alla crisi dei mutui subprime, trascina nel tracollo l’architettura della finanza mondiale, portandola sull’orlo dell’abisso. Il salvataggio delle banche operato dagli Usa e da molti altri governi ha poi ingigantito il debito degli stati, trasformando il tracollo delle banche in una crisi dei debiti sovrani. I salvati hanno utilizzato la forza ritrovata per sommergere i salvatori sotto l’onda della loro pirateria speculativa. Ma dal 2010 prima in Irlanda, Grecia e Spagna e negli anni successivi anche in Italia e altrove, inizia una fase inedita della crisi. Ad alimentarla ora con rinnovata energia è la politica di austerità della Troika. L’attuale situazione economica e sociale dell’Italia è sempre più alimentata da una sorgente nuova: la politica del governo Monti. Non è tanto più il disordine finanziario, ma la risposta data dall’esecutivo alla speculazione che sta mettendo in ginocchio l’economia e la società italiana. Per comprenderlo occorre ricordarsi dell’origine strutturale della crisi. Questa è nata per la prolungata stagnazione dei redditi popolari, soprattutto americani, sostenuti artificialmente da quel dispositivo che è stato definito “keynesismo finanziario”: vale a dire l’indebitamento delle famiglie tramite crediti e mutui facili. È perciò inevitabile che oggi l’ulteriore riduzione dei redditi, generata dalle politiche di austerità, scavi nuovi abissi di disuguaglianza e dunque acuisca le cause e le forme della crisi.
Oggi, dopo un anno di governo, è distintamente evidente che la cosiddetta agenda Monti è l’agente diretto del peggioramento generale. Perfino il Fmi, che ha una lunga esperienza nella pratica di distruzione delle economie nazionali dei Paesi del Sud del mondo, comincia a denunciare i guasti dell’austerità. L’Italia si sta avvitando in una spirale che la porterà allo schianto, e, se non si cambia rotta, trascinerà con sé la moneta unica e l’Europa Unita. I difensori di tale politica tentano di rassicurarci ricordando che il governo ha «messo i conti in ordine» e questo ci porrà al riparo da una rovinosa risalita dello spread. Ma basta questo per rimontare la china? Come fa un Paese nelle nostre condizioni a ritrovare un qualche equilibrio, se deve (come ha ricordato su questo giornale Guido Viale) rispettare il pareggio di bilancio, sborsare ogni anno 40 miliardi per onorare il fiscal compact e pagare circa 100 miliardi di interessi sul debito? Non abbiamo una laurea alla Bocconi e quindi potremmo sbagliarci. Ma perché il prossimo anno la speculazione finanziaria dovrebbe risparmiarci, solo perché non aumenta il nostro debito? Domanda, peraltro, generosa visto che il debito continua a crescere. Perché dovrebbe apparire solvibile un Paese dove dilaga la disoccupazione, dove vanno in frantumi pezzi importanti dell’apparato industriale, dove la gran parte della gioventù è senza lavoro, dove si riducono gli investimenti per scuola e Università, mentre la ricerca – che dovrebbe accrescere la nostra competitività – è messa nell’angolo? Perché il nostro Paese dovrebbe apparire più sicuro per la finanza internazionale e il mondo degli investitori se il disagio sociale è destinato ad aumentare di mese in mese, se ci aspettano anni di rivolta, se la coesione sociale andrà in pezzi? Come si accrescerà l’attrattività dell’Italia, considerando i vantaggi offerti da tale scenario alla criminalità organizzata, che troverà più numerosi proseliti nell’esercito dei disoccupati e nuove lucrose occasioni di investimento nelle aziende in crisi?
Le rassicurazioni che vengono dal governo sono fatte della stessa pasta pubblicitaria delle loro precedenti previsioni. L’attesa fideistica della ripresa sono pura superstizione, testimoniano l’inaffidabilità tecnica dei tecnici. Nessuno, negli ambienti che contano, ha il coraggio di dirlo. Ma la politica di austerità del governo Monti è incompatibile con la salvezza dell’Italia. La via di fuga passa per la sconfitta di quell’agenda. E bisogna far presto, perché quando i gravi raggiungono un punto molto avanzato di un piano inclinato occorre assai meno forza a continuare la discesa che a risalire…
Infine, qualche parola agli amici della sinistra radicale, di cui mi sento parte. Essi sembrano oggi dare più credito alla carta di intenti delle primarie del centro-sinistra che ai fatti, alle parole più che alla realtà. Si sbagliano quando affermano che il Pd e Sel applicheranno l’agenda Monti. Si sbagliano perché questo sarà impossibile. Sarebbe come se queste forze si impegnassero a distruggere l’economia e la società italiana e dunque se stesse. La realtà è più forte delle parole, anche di quelle scritte. Ad essi dico che non saranno soli (per nostra fortuna), come pure amerebbero pensare, a combattere contro una politica ormai condannata dai suoi plurimi, ripetuti e ormai non più occultabili insuccessi.
Tali considerazioni sono necessarie innanzi tutto per riportare a dimensioni realistiche le pretese virtù salvifiche del presidente Monti. Non vogliamo sminuire la sua figura, ma almeno mostrare la clamorosa infondatezza della sua esaltazione, soprattutto da parte di tanti moderati, sbandati e senza idee, che cercano le ali di un qualche capo sotto cui rifugiarsi. Mario Monti è uno stimato tecnocrate che ha lavorato insieme ai tecnocrati della sua generazione a edificare il castello dell’economia neoliberistica, quella macchina ideologica e di potere che ha generato la crisi presente. Le sue idee economiche si muovono entro un recinto di categorie concettuali che hanno provato il loro fallimento. Sono state «falsificate», direbbe Popper, dalla presente crisi e dal disordine mondiale che vanno alimentando.
Ma, al di la delle ricette economiche, crediamo che la sua figura di leader sia tutt’altro che moderna, se vogliamo dare a questo termine il significato volgare che ad esso si dà nel dibattito politico corrente. Avete mai sentito Mario Monti parlare di ambiente, di riscaldamento climatico, di problemi del territorio italiano, di sistemi urbani? Qualcuno l’ha udito soffermarsi sulla questione vitale dei diritti delle persone, dei problemi della vita e della morte nelle società dominate dalla tecnoscienza? E la scuola e la formazione? Che idee ha il professor Monti? Le considerazioni sugli insegnanti italiani, espresse alla trasmissione di Fabio Fazio il 25 novembre, mostrano quale scarsa conoscenza specifica egli ha di questa istituzione fondamentale del Paese. Sgomenta poi, nel suo argomentare, l’assenza di una qualunque visione strategica del ruolo dello Stato nel nostro tempo, ovviamente sostituito dall’intelligenza metafisica del mercato.
Certo, l’impareggiabile modestia (per dire cosi…) del ceto politico che l’ha preceduto lo fa giganteggiare. Ma Monti incarna, simbolicamente e di fatto, il risucchiamento della politica nella tecnocrazia finanziaria. E questo non solo significa che il ceto politico ha consegnato l’esecutivo di un grande Paese a un rappresentante di quell’élite internazionale che lo ha messo ai margini e ora sta manomettendo la sovranità degli stati. Sotto il profilo culturale significa che chi oggi invoca la permanenza di Monti alla guida dell’Italia non insegue alcuna modernità. Non corre dietro alcuna avanguardia. Al contrario, chiede che si torni indietro, applaude a un tecnico del secolo scorso, al rappresentante di una cultura politica non solo fallimentare, ma anche vecchia, unilaterale, chiusa in un recinto di mondo reale che non va oltre la vita di banche e imprese. La sinistra lo deve dire alto e forte: Monti è un leader vecchio e inadeguato di fronte alla varietà e complessità delle sfide che abbiamo di fronte.
Ma i dati recenti dell’Ocse, che gettano una luce fosca sul prossimo avvenire dell’Italia e dei paesi della zona euro, inducono a una più larga considerazione. Continuiamo a parlare di crisi come un fenomeno unitario, che continua a imperversare da cinque anni. In realtà bisogna ormai scandire al suo interno almeno tre distinte fasi. La prima e la seconda sono state già messe in evidenza da tanti analisti. Nel settembre 2008 il fallimento della Lehman Brothers, in seguito alla crisi dei mutui subprime, trascina nel tracollo l’architettura della finanza mondiale, portandola sull’orlo dell’abisso. Il salvataggio delle banche operato dagli Usa e da molti altri governi ha poi ingigantito il debito degli stati, trasformando il tracollo delle banche in una crisi dei debiti sovrani. I salvati hanno utilizzato la forza ritrovata per sommergere i salvatori sotto l’onda della loro pirateria speculativa. Ma dal 2010 prima in Irlanda, Grecia e Spagna e negli anni successivi anche in Italia e altrove, inizia una fase inedita della crisi. Ad alimentarla ora con rinnovata energia è la politica di austerità della Troika. L’attuale situazione economica e sociale dell’Italia è sempre più alimentata da una sorgente nuova: la politica del governo Monti. Non è tanto più il disordine finanziario, ma la risposta data dall’esecutivo alla speculazione che sta mettendo in ginocchio l’economia e la società italiana. Per comprenderlo occorre ricordarsi dell’origine strutturale della crisi. Questa è nata per la prolungata stagnazione dei redditi popolari, soprattutto americani, sostenuti artificialmente da quel dispositivo che è stato definito “keynesismo finanziario”: vale a dire l’indebitamento delle famiglie tramite crediti e mutui facili. È perciò inevitabile che oggi l’ulteriore riduzione dei redditi, generata dalle politiche di austerità, scavi nuovi abissi di disuguaglianza e dunque acuisca le cause e le forme della crisi.
Oggi, dopo un anno di governo, è distintamente evidente che la cosiddetta agenda Monti è l’agente diretto del peggioramento generale. Perfino il Fmi, che ha una lunga esperienza nella pratica di distruzione delle economie nazionali dei Paesi del Sud del mondo, comincia a denunciare i guasti dell’austerità. L’Italia si sta avvitando in una spirale che la porterà allo schianto, e, se non si cambia rotta, trascinerà con sé la moneta unica e l’Europa Unita. I difensori di tale politica tentano di rassicurarci ricordando che il governo ha «messo i conti in ordine» e questo ci porrà al riparo da una rovinosa risalita dello spread. Ma basta questo per rimontare la china? Come fa un Paese nelle nostre condizioni a ritrovare un qualche equilibrio, se deve (come ha ricordato su questo giornale Guido Viale) rispettare il pareggio di bilancio, sborsare ogni anno 40 miliardi per onorare il fiscal compact e pagare circa 100 miliardi di interessi sul debito? Non abbiamo una laurea alla Bocconi e quindi potremmo sbagliarci. Ma perché il prossimo anno la speculazione finanziaria dovrebbe risparmiarci, solo perché non aumenta il nostro debito? Domanda, peraltro, generosa visto che il debito continua a crescere. Perché dovrebbe apparire solvibile un Paese dove dilaga la disoccupazione, dove vanno in frantumi pezzi importanti dell’apparato industriale, dove la gran parte della gioventù è senza lavoro, dove si riducono gli investimenti per scuola e Università, mentre la ricerca – che dovrebbe accrescere la nostra competitività – è messa nell’angolo? Perché il nostro Paese dovrebbe apparire più sicuro per la finanza internazionale e il mondo degli investitori se il disagio sociale è destinato ad aumentare di mese in mese, se ci aspettano anni di rivolta, se la coesione sociale andrà in pezzi? Come si accrescerà l’attrattività dell’Italia, considerando i vantaggi offerti da tale scenario alla criminalità organizzata, che troverà più numerosi proseliti nell’esercito dei disoccupati e nuove lucrose occasioni di investimento nelle aziende in crisi?
Le rassicurazioni che vengono dal governo sono fatte della stessa pasta pubblicitaria delle loro precedenti previsioni. L’attesa fideistica della ripresa sono pura superstizione, testimoniano l’inaffidabilità tecnica dei tecnici. Nessuno, negli ambienti che contano, ha il coraggio di dirlo. Ma la politica di austerità del governo Monti è incompatibile con la salvezza dell’Italia. La via di fuga passa per la sconfitta di quell’agenda. E bisogna far presto, perché quando i gravi raggiungono un punto molto avanzato di un piano inclinato occorre assai meno forza a continuare la discesa che a risalire…
Infine, qualche parola agli amici della sinistra radicale, di cui mi sento parte. Essi sembrano oggi dare più credito alla carta di intenti delle primarie del centro-sinistra che ai fatti, alle parole più che alla realtà. Si sbagliano quando affermano che il Pd e Sel applicheranno l’agenda Monti. Si sbagliano perché questo sarà impossibile. Sarebbe come se queste forze si impegnassero a distruggere l’economia e la società italiana e dunque se stesse. La realtà è più forte delle parole, anche di quelle scritte. Ad essi dico che non saranno soli (per nostra fortuna), come pure amerebbero pensare, a combattere contro una politica ormai condannata dai suoi plurimi, ripetuti e ormai non più occultabili insuccessi.
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