Monti ha gettato la spugna. Con lui Napolitano, che le ha
tentate tutte per portare a termine questa faticosa legislatura. Nessun
rimpianto, per quanto mi riguarda. Il punto però è che questo governo
cade da destra. Può sembrare un dettaglio, ma non è così, perché da
sempre il versante da cui proviene la spinta decisiva per la caduta di
un governo, è un elemento qualificante della campagna elettorale che
verrà. Infatti Monti appare oggi come una vittima del berlusconismo ed è
pronto, non solo lui, a giocarsi questa carta nella imminente
competizione. Il che è paradossale, anche se solo apparentemente.
Il governo Monti è riuscito là dove neppure i precedenti governi
Berlusconi avevano osato spingersi. Sotto l’aplomb di una indubbia
presentabilità internazionale, Mario Monti ha portato in porto il
completamento peggiorato della riforma delle pensioni iniziata da Dini
nel 1995, la liquidazione dell’articolo 18 dello Statuto dei diritti dei
lavoratori, un “accordo” sulla produttività giustamente non firmato
dalla Cgil, che derubrica il contratto collettivo nazionale a favore di
quello aziendale e/o territoriale, ha fatto votare la ratifica del
fiscal compact, ha messo in costituzione il pareggio di bilancio, del
quale una legge già pronta per l’aula fisserà le modalità di
applicazione, se le attuali camere troveranno ancora il tempo di farlo.
Nichi Vendola, in un’intervista a Repubblica, ha giustamente
detto che ci vorrebbe una svolta di tipo keynesiana. Ma ciò entra in
aperta contraddizione con quelle norme sul pareggio di bilancio e con il
fiscal compact cui la carta di intenti della coalizione giura fedeltà.
Tutto questo è avvenuto perché Monti è parte dirigente di quella elite
europea che nella logica dell’austerità espansiva, formula criticata
persino dal Fmi, sta trascinando l’Europa in una spaventosa recessione.
Lo spread è un po’ diminuito – grazie all’azione della Bce convintasi
finalmente ad acquistare i titoli dei paesi in difficoltà – ma la
disoccupazione è aumentata, soprattutto quella giovanile e femminile e
al Sud. I dati forniti dal Censis sono impietosi e perfettamente in
sintonia con quelli già resi noti da altri centri di ricerca, come
l’Istat. L’incremento delle tassazioni hanno alleggerito le tasche dei
non evasori di 726 euro lungo il 2012, secondo il famoso ufficio studi
della Cgia di Mestre. Il ceto medio sta concludendo la sua parabola
negativa. Le distanze sociali si stanno allungando, la cima della
piramide si appuntisce sempre più e la base si allarga. La crisi porta
con sé la proletarizzazione dei ceti medi, si sarebbe detto una volta,
ma mai come oggi è proprio vero, in Europa e in Italia.
La sostanza dell’attuale situazione politica è dunque che una linea
tipica e coerente di una destra liberista e tecnocratica, ben inserita
nell’elites europee e mondiali che governano il processo di
globalizzazione (Monti), viene contestata, seppure come sappiamo da
motivi ancora più ignobili e personali, da una destra che rispolvera il
populismo come lancia per ritentare un’improbabile ma non impossibile
rivincita e che per fare questo ha bisogno del suo antico cavaliere. Lo
scontro che alla vigilia era fra un rissoso berlusconismo in cerca di
autore e un chiaro vincente nel proprio campo (Bersani) si complica e
muta d’aspetto. La vittimizzazione di Monti, disarcionato proprio a
pochi metri dal traguardo, rischia di cambiare il ruolo e il peso dei
personaggi in campo. La contesa si colora di un Berlusconi contro Monti e
Bersani ne deve tenere conto, al punto che l’idea di nuovi accordi con
Casini o di imbarcare direttamente nel suo futuro governo alcuni
protagonisti dell’anno montiano diventa allettante. Al contempo Monti
stesso è tentato di entrare direttamente nell’agone elettorale, malgrado
la sua comoda posizione di senatore a vita o le eventuali prospettive
di ascendere al Colle.
Per il bene del paese, in primo luogo, ci sarebbe bisogno di
rovesciare un quadro che ci prospetta un altro paradosso. Infatti non
solo si riproporrebbe l’eterno scontro contro Berlusconi, con
conseguenti ricatti morali e richiami al voto utile, ma questo
avverrebbe addirittura nel nome della difesa della bontà risanatrice
dell’azione del governo Monti contro la protervia dilapidatrice della
destra berlusconiana. L’agenda Monti non solo non verrebbe messa da
parte, come trionfalmente è toccato sentire dire durante le primarie, ma
diverrebbe addirittura una bandiera. Proprio per questo la logica del
fronte antiberlusconiano va respinto fin dal principio. Al contrario la
componente di sinistra interna alla coalizione dei progressisti e dei
democratici dovrebbe alzare la voce e chi ha scelto di stare fuori da
quella coalizione, non per ignavia ma per rifiuto di quella carta di
intenti, dovrebbe accelerare il tentativo di dare vita a un’espressione
politica e a una possibile rappresentanza di una sinistra plurale, ma
unita da un programma antiliberista di uscita dalla crisi.
Fonte: Huffingtonpost.it
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