Nel tempo ingannevole della “pacificazione”, il conflitto giunge nel
cuore del sistema e mette in discussione la stessa Costituzione. Una
politica debole, da anni incapace di riflettere sulla propria crisi,
compie una pericolosa opera di rimozione e imputa tutte le attuali
difficoltà al testo costituzionale. Le forze presenti in Parlamento non
ce la fanno a sciogliere i nodi tutti politici che hanno reso
impossibile una decisione sull’elezione del Presidente della Repubblica?
Colpa della Costituzione. “Je suis tombé par terre, c’est la faute à
Voltaire”.
Imboccando questa strada, non si dedica la minima attenzione
all’esperienza degli anni passati, alle manipolazioni istituzionali che,
sbandierate come la soluzione d’ogni male, hanno aggravato i problemi
che dicevano di voler risolvere, rendendo così la crisi sempre più
aggrovigliata.
Ho davanti a me le dichiarazioni di politici e
commentatori, i saggi e i libri di politologi che, all’indomani della
riforma elettorale del 1993, sostenevano che l’instaurato bipolarismo,
con l’alternanza nel governo, avrebbe assicurato assoluta stabilità
governativa, cancellato le pessime abitudini della Prima Repubblica con i
suoi vertici di maggioranza e giochi di correnti, eliminato la
corruzione. E tutto questo avveniva in un clima che svalutava la
funzione rappresentativa delle Camere, attribuendo alle elezioni
sostanzialmente la funzione di investire un governo e accentuando così
la personalizzazione della politica e le inevitabili derive populiste.
Sappiamo come è andata a finire. E gli autori e i fautori di quella
riforma oggi si limitano a lamentare il bipolarismo “rissoso” o
“conflittuale”, senza un filo non dirò di autocritica, parola impropria,
ma neppure di analisi seria e responsabile di quel che è accaduto.
Eppure quel rischio era stato segnalato proprio nel momento in cui si
imboccava la via referendaria alla riforma, suggerendo altre soluzioni.
Ma non si volle riflettere intorno all’ambiente politico e istituzionale
in cui quella riforma veniva calata, sulla dissoluzione in corso del
vecchio sistema dei partiti e sulla inevitabile conflittualità che
sarebbe derivata da una riforma che, invece di accompagnare una
transizione difficile, esasperava proprio la logica del conflitto.
Oggi sembra tornare il tempo degli apprendisti stregoni e di una
ingegneria costituzionale che, di nuovo, appare ignara del contesto in
cui la riforma dovrebbe funzionare. Che cosa diranno gli odierni
sostenitori di variegate forme di presidenzialismo quando, in un domani
non troppo lontano, il “leaderismo carismatico” renderà palesi le sue
conseguenze accentratrici, oligarchiche, autoritarie? Diranno che si
trattava di effetti inattesi?
Questo ci porta al modo in cui si è voluto strutturare il processo di
riforma. Si è abbandonata la procedura prevista dall’articolo 138 per
la revisione costituzionale, norma di garanzia che dovrebbe sempre
essere tenuta ferma proprio per evitare che la Costituzione possa essere
cambiata per esigenze congiunturali e strumentali. Compaiono nuovi
soggetti – una supercommissione parlamentare e una incredibile e
pletorica commissione di esperti, con componenti a pieno titolo e
“relatori”. Il Parlamento viene ritenuto inidoneo per affrontare il tema
della riforma e così, consapevoli o meno, si è imboccata una strada
tortuosa che finisce con il configurare una sorta di potere
“costituente”, del tutto estraneo alla logica della revisione
costituzionale, concepita e regolata come parte del sistema
“costituito”. Sono rivelatrici le parole adoperate nella risoluzione
parlamentare: “una procedura straordinaria di revisione costituzionale”.
L’abbandono della linea indicata dalla Costituzione è dunque
dichiarato.
Si entra così in una dimensione di dichiarata “discontinuità”, che
apre ulteriori questioni. Quando si incide profondamente sulla forma di
governo, come si dichiara di voler fare, si finisce con l’incidere anche
sulla forma di Stato, come hanno messo in evidenza molti studiosi del
diritto costituzionale. E, di fronte alla modifica della forma di
governo e di Stato, si può porre un altro interrogativo. Queste
modifiche sono compatibili con l’articolo 139 della Costituzione, dove
si stabilisce che “la forma repubblicana non può essere oggetto di
revisione costituzionale”? Originata dalla volontà di impedire una
restaurazione monarchica, questa norma è stata poi letta per definire
quali siano gli elementi costitutivi della forma repubblicana così come è
stata disegnata dall’insieme del testo costituzionale. Ne conseguirebbe
che la modifica o l’eliminazione di uno di questi elementi sarebbe
preclusa alla stessa revisione costituzionale. Sono nodi problematici,
certamente. Che, tuttavia, non possono essere ignorati nel momento in
cui si vuole intervenire sulla Costituzione abbandonando il modello di
democrazia rappresentativa intorno al quale è stata costruita.
Ha osservato giustamente Gustavo Zagrebelsky che l’introduzione del
presidenzialismo nel nostro paese “si risolverebbe in una misura non
democratica, ma oligarchica. L’investitura d’un uomo solo al potere non è
precisamente l’idea di una democrazia partecipativa che sta scritta
nella Costituzione”. Il riferimento al “nostro paese” risponde proprio a
quella necessità di valutare ogni riforma costituzionale nel contesto
in cui è destinata ad operare. Sì che ha poco senso l’obiezione che il
semipresidenzialismo, ad esempio, è adottato in un paese sicuramente
democratico come la Francia. Questa obiezione, anzi, obbliga a
riflettere sul fatto che la compatibilità di quel sistema con la
democrazia è strettamente legata a un dato istituzionale – l’assenza in
Francia di gravi fattori distorsivi, come il conflitto d’interessi o il
controllo di una parte rilevantissima del sistema dei media; e a un dato
politico — il rifiuto di usare il partito di Le Pen come stampella di
uno dei due schieramenti in campo, mentre in Italia pure la destra
estrema è stata arruolata sotto le bandiere di una coalizione pur di
vincere.
Più sostanziale, tuttavia, è la contraddizione con il modello della
democrazia partecipativa. Proprio nel momento in cui la necessità di
questo modello si manifesta prepotentemente per le richieste dei
cittadini e il mutamento continuo dello scenario tecnologico, finisce
con l’apparire una pulsione suicida l’allontanarsi da esso, con evidenti
effetti di delegittimazione ulteriore delle istituzioni e di conflitti
che tutto ciò comporterebbe. Una revisione condotta secondo la logica
costituzionale, e non contro di essa, esige proprio la valorizzazione di
tutti gli strumenti della democrazia partecipativa già presenti nella
Costituzione, tirando un filo che va dai referendum alle petizioni, alle
proposte di legge di iniziativa popolare. Le proposte già ci sono, per
quelle sull’iniziativa legislativa popolare basta una modifica dei
regolamenti parlamentari, e questo aprirebbe canali di comunicazione con
i cittadini dai quali la stessa democrazia rappresentativa si
gioverebbe grandemente. Altrettanto chiare sono le proposte sulla
riduzione del numero dei parlamentari, sul superamento del bicameralismo
paritario, su forme ragionevoli di rafforzamento della stabilità del
governo attraverso strumenti come la sfiducia costruttiva. Si tratta di
proposte largamente condivise, che potrebbero essere rapidamente
approvate con benefici per l’efficienza del sistema senza curvature
autoritarie. E che potrebbero essere affidate a singoli provvedimenti di
riforma, senza ricorrere ad un unico “pacchetto” di riforme, più
farraginoso per l’approvazione e che distorcerebbe il referendum
popolare al quale la riforma dovrà essere sottoposta, che esige quesiti
chiari e omogenei.
Vi è, dunque, un’altra linea di riforma istituzionale, sulla quale
varrà la pena di insistere e già raccoglie un consenso vastissimo tra i
cittadini, alla quale bisognerà offrire la possibilità di manifestarsi
pienamente. Solo così potrà consolidarsi quella cultura costituzionale
che oggi manca, ma che è assolutamente indispensabile, “capace di
adeguare la Costituzione ma soprattutto di rispettarla”, come ha
sottolineato opportunamente Ezio Mauro.
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