sabato 29 giugno 2013

La voce del padrone di Sandro Moiso, Carmillaonline.com

His_Master's_Voice
Una creatura nata morta. Riportata in vita e mantenuta in una sorta di coma terapeutico soltanto grazie a una incubatrice gestita, da cinquanta giorni a questa parte, da un infermiere quasi novantenne. Questo è il governo delle larghe intese di Enrico Letta. Un governo sempre più paralizzato, impossibilitato ad intervenire sulle conseguenze di una crisi economica devastante e, soprattutto, incapace di prendere qualsiasi tipo di provvedimento ispirato, anche solo lontanamente, ai bisogni di milioni di giovani e lavoratori, occupati, disoccupati e precari,  italiani.
Un mostro uscito dal peggior cinema di fantascienza giapponese oppure dalle tavole catastrofiche ed allucinate di Katsuhiro Ōtomo. Un corpo politico e amministrativo che in tutte le sue componenti, anche le più periferiche, assume un comportamento che definire bipolare  è ancora poco. Un’attitudine comunicativa che si muove tra una falsa sicurezza per la durata del Governo e la sua capacità operativa (sempre più compromessa dalle sentenze degli ultimi giorni) e la disperazione per la situazione del lavoro e dell’economia nazionale e per le sue più che probabili conseguenze sociali.
  Il Ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni,  ha affermato che la crisi attuale è peggiore di quella del ‘29”, ma è difficile dire se tale affermazione volesse giustificare le difficoltà del Governo, legate principalmente alla sua composizione, oppure costituisse la presa d’atto di un dato di fatto ormai scontato per numerosi economisti. Mentre Jacopo Morelli, presidente dei giovani industriali riuniti nel convegno annuale di  Santa Margherita Ligure, ha affermato che: ”Senza prospettive per il futuro, l’unica prospettiva diventa la rivolta. Le istituzioni democratiche vengono contestate e possono arrivare alla dissoluzione, quando non riescono a dare risposte concrete ai bisogni economici e sociali”.
 Affermazioni che sono ricorse , magari in forme  e da fonti differenti, più volte nell’ultimo periodo e che, sinceramente, sembrano oggi ripetute fino alla nausea dopo l’ubriacatura di ottimismo montiano ormai seppellito con i professori della Bocconi, nonostante il ritorno, in alcune sporadiche interviste televisive, del Prof. per eccellenza. Eppure, eppure… queste parole, che sembrano voler prendere atto della gravità della crisi in atto e delle sue possibili conseguenze sociali, non nascondono altro che una seconda fase dell’offensiva contro i giovani e i lavoratori che il governo attuale, senza dubbio debole ma sicuramente autoritario, intende mettere in atto.
 Se nella Fase 1 (definizione utile ad individuare, per comodità, l’azione del governo Monti dall’autunno del 2011 ai primi mesi del 2013) si è operato a beneficio delle banche e della finanza, attaccando direttamente i risparmi e le garanzie sociali degli italiani (pensioni, sanità, etc.), con la Fase 2 (quella apertasi con il governo delle larghe intese presieduto da Enrico Letta, voluto e benedetto da Papa Giorgio) si è passati direttamente ad operare a beneficio delle imprese (piccole, medie e grandi), attaccando direttamente i costi del lavoro e le leggi che ne regolamentano le condizioni.
 Mentre nella Fase 1 gran parte dell’attenzione si era concentrata, per quanto riguardava il lavoro, intorno alla difesa o meno dell’articolo 18 (già riguardante un numero tutto sommato esiguo di lavoratori), oggi l’azione del governo è diretta a sradicare qualsiasi ostacolo alla libertà dell’impresa di assumere e licenziare chi e quando vuole, prolungando all’infinito la possibilità di promulgare i contratti a termine e abbattendo sia i costi diretti del lavoro (salario) che quelli indiretti ( oneri sociali, sicurezza). Così la tanto sbandierata azione a favore dei giovani e del lavoro, collegata al cosiddetto Decreto del Fare, non è altro che un’azione tutta rivolta a lasciare mano libera alle imprese, in tutti i sensi.
 D’altra parte cosa possono nascondere le parole di Sergio Marchionne quando afferma che “l’Italia nell’economia globale non è più interessante come mercato di consumo” oppure “chiediamo che ci lasci liberi di lavorare (NB: il governo) senza ostacoli”? Di fatto una esplicita richiesta che il nostro paese diventi un paese di produttori a bassissimo costo (come il cosiddetto terzo mondo di un tempo).
Elencare qui e, conseguentemente, commentare gli ottanta punti contenuti nel Decreto Sviluppo approvato in questi giorni, richiederebbe troppo tempo e troppo spazio. Così si è costretti a restringere l’analisi ad alcuni punti tra quelli tanto sbandierati, la cui efficacia, non ci si può esimere dal ripeterlo, tornerà soltanto a vantaggio delle imprese. Ma , per farlo, è utile tornare ad utilizzare strumenti critici immeritatamente abbandonati alla polvere da troppo tempo, a favore di un nuovo sospetto e poco efficace.
 Certo uno degli argomenti che colpiscono di più l’immaginario è quello delle difficoltà che le imprese incontrano quando devono far ricorso al credito, soprattutto se piccole. Su questa difficoltà, il cosiddetto credit crunch,  si tende a costruire una sorta di unità di intenti e di bisogni tra lavoratori, giovani e impresari tutti alle prese con le stesse difficoltà nei confronti delle banche e del credito. “Siamo tutti sulla stessa barca può affermare così, falsamente, il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi. Tutti preoccupati dal fatto che il credito invece di favorire mutui per l’acquisto della prima casa o prestiti per investimenti produttivi, soprattutto in una fase di crisi, finisca invece con l’essere diretto verso la speculazione finanziaria.
 Rosa Luxemburg, però, scriveva già nel lontano (?) 1898, in un articolo significativamente intitolato “Riforma sociale o rivoluzione?”: 
Se le crisi, com’è noto, traggono origine dalla contraddizione tra la capacità e la tendenza espansiva della produzione e la limitata capacità di consumo, il credito è il mezzo più idoneo a portare tanto più spesso questa contraddizione alla fase critica. Anzitutto esso accresce enormemente la capacità di espansione della produzione e costituisce la forza motrice interna, che la spinge continuamente a oltrepassare i limiti del mercato. Ma esso agisce in due sensi. Dopo aver, come fattore del processo produttivo, provocato la superproduzione, durante la crisi, nella sua qualità di intermediario dello scambio, dà il colpo di grazia alle forze produttive, che esso medesimo ha risvegliato. Al primo segno di un ristagno, il credito si contrae, pianta in asso lo scambio là dove esso sarebbe necessario, si dimostra inefficace e senza scopo là dove si offre ancora e riduce così al minimo durante la crisi la capacità di consumo.
 Oltre questi due risultati più importanti, il credito agisce ancora in diversi modi in relazione col determinarsi delle crisi. Non soltanto esso offre il mezzo tecnico per mettere dei capitali altrui a disposizione di un capitalista, ma lo sprona ad impiegare con audacia e senza scrupoli la proprietà degli altri persino in speculazioni arrischiate. Non soltanto acuisce la crisi come mezzo infido di scambio delle merci, ma ne facilita lo scoppio e l’estensione in quanto trasforma tutto lo scambio in un meccanismo artificioso ed estremamente complesso, con una quantità minima di moneta aurea come base reale, e provoca così una una perturbazione per ogni minimo motivo.
 Così il credito, ben lungi dall’essere un mezzo per evitare o anche solamente attenuare la crisi è, tutt’al contrario, un fattore determinante particolarmente importante delle crisi. E del resto non potrebbe essere altrimenti. La funzione specifica del credito – esprimendoci in termini generali – non è altro infatti che quella di eliminare da tutti i rapporti capitalistici ciò che ancora rimaneva in fatto di stabilità, di introdurre dovunque il massimo possibile di elasticità e di rendere al massimo grado malleabili, relative e sensibili tutte le forze capitalistiche. Che in tal modo le crisi, le quali non sono altro che il cozzo periodico delle forze reciprocamente contrastanti dell’economia capitalistica, non possano essere che facilitate ed acuite, è cosa che salta agli occhi” ( Rosa Luxemburg, op.cit. in Scritti Politici Vol.1, pp.170 – 171, Editori Internazionali Riuniti, 2012).
L’articolo della Luxemburg era rivolto, già allora, a criticare le posizioni riformistiche di Eduard Bernstein, uno dei fondatori del revisionismo in seno alla Socialdemocrazia tedesca e contrario all’abbattimento violento del potere dello Stato e del Capitale; ma è facile vedere come in esso fossero già rinvenibili le tracce di tutto ciò che sarebbe  avvenuto in seguito e, in particolare, nel corso dell’ultima crisi, iniziatasi nel 2008 (mutui sub-prime americani, affaire Enron, speculazioni finanziarie e chiusura attuale dei rubinetti del credito in Europa e, domani, negli USA  per opera della Fed, solo per fare degli esempi).
 Sempre gli stessi giovani di Confindustria, più sopra citati, hanno poi invitato il governo attuale “a dare un progetto  concreto di futuro, a disegnare l’Italia che sarà tra 10 anni [...] La capacità di visione per un leader è essenziale. Non un governo che faccia miracoli ma che agisca sulla competitività del Paese “. Le prime mosse dell’esecutivo non sembrano convincere però i giovani imprenditori, poiché più che l’Imu, la priorità dovrebbe essere costituita dal ”livello di tassazione su lavoro e imprese“.
 Ecco, prima di tutto le tasse e in particolare quelle sul lavoro. Altro tema coinvolgente, dal punto di vista di Squinzi. Peccato, però, che da una detassazione del lavoro salariato, poco abbiano da guadagnare i lavoratori dipendenti (poche decine di euro in più in busta paga in cambio di una ulteriore sensibile riduzione dei servizi prestati in futuro dallo Stato a causa delle minori entrate) e molto gli imprenditori che vedrebbero, di fatto, abbassato il costo del lavoro. Insomma, milioni di euro di guadagno per le imprese in cambio di pochi spiccioli per i lavoratori.
Non a caso la cosa piace a tanti, dalla Lega alla CISL e, ormai, anche alla CGIL e alla Sinistra istituzionale come abbiamo potuto ben capire dai discorsi fatti in Piazza San Giovanni, il 22 giugno scorso, in occasione della manifestazione nazionale unitaria dei sindacati. Tutti uniti nel  far fronte alla crisi. Tutti schierati con gli imprenditori. Tutti sulla stessa barca. Nessuna richiesta di aumenti salariali, nessuna richiesta di riduzione dell’orario di lavoro, nessuna richiesta esplicita di una severa patrimoniale progressiva. No, i posti di lavoro verranno creati, se saranno creati, esclusivamente a spese dei lavoratori.
 Tutti insieme appassionatamente a difendere l’economia nazionale e i diritti dell’impresa e del profitto. La società dello spettacolo portata alle sue più estreme e nefaste conseguenze: il lavoro trasformato da attività creatrice tipica della specie ad assunto dell’immarcescibilità del capitale e dei suoi sacri valori. Lavoro, lavoro! A qualsiasi costo per i disoccupati e purché scarsamente retribuito, a vantaggio degli imprenditori. Evviva! Bravi!! Solidali con le leggi del Capitale!!!
 Tanto che il vero pericolo, oggi, è costituito dal non  saper più riconoscere e denunciare l’autentica lue della borghesia italiana, da Giolitti in avanti. Una borghesia vile, profittatrice, capace di espandere i propri profitti soltanto attraverso il basso costo del lavoro e le prebende statali; capace di affondare quelle sue stesse componenti che avrebbero voluto seguire un percorso diverso, magari basato sulla ricerca, l’investimento tecnologico e un diverso rapporto con i lavoratori (Adriano Olivetti, tanto per fare un nome); incapace di liberarsi dal legame politico ed economico che la legano, a doppi e triplo filo, con le mafie locali fin dai tempi dello “statista” cuneese; capace soltanto di barcamenarsi in continui giri di valzer tra un possibile alleato e l’altro (oggi l’Europa, domani gli USA  e viceversa), senza mai potersi permettere un’autonoma politica estera (troppo impegnativa per la classe dirigente, da sempre, più vile del pianeta); capace di spacciare per machiavellismo ciò che è soltanto desiderio di abbuffarsi a spese altrui, senza correre troppi rischi; bigotta e lasciva allo stesso tempo come un programma televisivo domenicale per famiglie; che ha finito col far prevalere un’opposizione (politica e sindacale) costruita a sua immagine e somiglianza: piagnona, falsa, accattona e rapace (sempre a spese dei lavoratori).
 La legittima soddisfazione per la condanna di Silvio Berlusconi, emessa dal Tribunale di Milano,  non deve perciò far dimenticare il marciume ideologico, morale, economico e politico che caratterizza nel suo insieme l’intera classe dirigente italiana fin dalle sue origini, perché altrimenti si finirebbe col rendere credibili le bugie e le millanterie dei nomi nuovi espressi oggi dalla stessa, da Letta a Renzi passando magari attraverso le confuse proposte di Grillo. Mentre un orecchio ben allenato all’ascolto dei suoni prodotti dal vociferare degli stessi e dei fin troppo numerosi cantori  o degli pseudo-critici del regime potrebbe rivelare senza ombra di dubbio che, in fin dei conti, quella che ascoltiamo è sempre la stessa musica, incisa sempre per la stessa etichetta discografica: His Master’s Voice, la Voce del Padrone.

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