Se il tempo della finanza in età globale è il nanosecondo, quello della politica postmoderna in chiave nostrana potrebbe essere tre mesi; quanto separa le elezioni politiche di questo febbraio dalle amministrative di maggio. La sequenza in cui si è consumata – dall’ascesa alla caduta – l’avventura di Beppe Grillo quale alfiere dell’altrapolitica.
Altri diranno che i rinnovi comunali non fanno testo, che il M5S ha perso solo il voto di opinione mantenendo quello di appartenenza, che la conquista dei comuni di Assemini e Pomezia rappresenta comunque un successo rilevante. Resta il fatto che il guru di Sant’Ilario ha perso il tocco magico, su cui basava buona parte della sua capacità di presa su un pubblico bisognoso di credere. E non è soltanto questione di errori tattici da inesperienza o sfinimento da piccola contabilità con relativi scontrini. È la sensazione trasmessa di inconcludenza al limite dell’insignificanza.
Mai si era visto un tracollo più repentino, che può essere spiegato partendo dal contesto dell’ascesa coniugato con la personalità del protagonista (condizioni ampliate dal contributo del partner Casaleggio, moltiplicativo di comuni vizi).
Il contesto è quello dello star-system, di cui Grillo è l’estremo prodotto. Quella che il costituzionalista francese Bernard Manin chiama “la democrazia del pubblico”, in cui i cittadini vengono fatti regredire a spettatori attraverso processi di identificazione fideistica con il leader. L’antesignano di questa personificazione parossistica della politica era stato Marco Pannella ma il vero campione lo diventa presto Silvio Berlusconi, dominatore della scena di una Seconda Repubblica in cui l’effimero si è sovrapposto alla realtà determinando perturbazioni permanenti nella percezione di massa del ruolo degli attori in scena e dei concreti problemi incombenti.
Una trasformazione presentata come il massimo della modernità surmoderna ma che si limita a riportare a nuovo il format del comizio, con le sue tecniche imbonitorie arricchite dai contributi acchiappacitrulli degli esperti di comunicazione (gli spin-doctor). Difatti, i presunti grandi comunicatori – da Berlusconi a Grillo – rifiutano sistematicamente il contraddittorio, adottando modalità a senso unico che contraddicono i principi stessi della comunicazione intesa come scambio di enunciati.
Dunque un evidente ritorno al passato. Che risulta ancora più evidente se si analizzano i contenuti del messaggio. E anche in questo si ritrova un’analogia tra le grandi star, vecchie e nuove, della regressione della politica a set di un reality: la banalizzazione, che attinge a piene mani dal serbatoio di luoghi comuni degli strati più chiusi e feroci della società italiana.
Per Berlusconi la neoborghesia cafona, arricchitasi nei grandi saccheggi degli anni Ottanta; fattasi ceto egemone aggregando masse di impauriti create dalla propaganda terroristica (ispirata al mood Bush jr.), basata sulla generica minaccia di un altro che mette a repentaglio l’incolumità. Per Grillo, cresciuto in un quartiere semi periferico di Genova, abitato da borghesia piccola piccola intrisa di umori destrorsi antioperai (la solita guerra tra poveri, tra penultimi contro ultimi), il rifiuto dell’esperto e dell’acculturato a vantaggio della genialata da uomo della strada (ad esempio la crisi energetica risolta con un po’ di aquiloni o il ricorso alle magie dei guaritori) come l’ostilità pregiudiziale nei confronti dei processi di integrazione.
In entrambi i casi pattume reazionario riconfezionato in grandi ricette per risolvere istantaneamente e alla radice tutti i nostri mali. A riprova che l’ultimo ventennio è stato un interminabile e smaccato festival del retrò. Che ha dischiuso un vaso di Pandora da cui sono usciti fantasmi mostruosi che credevamo ormai esorcizzati.
Questa Pandora irresponsabile è la politica, venuta meno ai propri compiti di incivilimento lasciando pieno campo agli imbonitori; che ora ci appaiono in tutta la loro modestia.
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