sabato 22 giugno 2013

Le fabbriche ripartono senza padrone di Eugenio Occorsio, http://inchieste.repubblica.it

Aziende abbandonate dall'imprenditore  che tornano a vivere trasformandosi. Come la Rsi di Roma che si occupava di riparazione di vetture ferrroviarie ora è diventata Officine Zero e si impegna nel riuso di materiali: "Da tre vecchi computer se ne può fare uno funzionante". Una "ricicleria" di ettrodomestici e piccoli motori anche nella Ri- Maflow di Milano. E con gli operai si ritrovano artigiani e precari. Per lavorare insieme

ROMA - Da monumenti di archeologia industriale a centri nuovamente pulsanti di attività economiche. Magari non le stesse delle origini, ma comunque in grado di  creare occupazione, sviluppo ricchezza. Con in più lo stimolo e l'entusiasmo di non dover più dipendere da nessuno. Questo è lo spirito che anima le iniziative produttive autogestite che si moltiplicano da un angolo all'altro del Paese. Fabbriche abbandonate dall'impresa, occupate dagli operai e alla fine, spesso dopo una strenua battaglia giudiziaria per ottenere l'utilizzo dell'area e delle attrezzature lasciate ad arrugginire, trasformate in nuovi centri di attività. Il tutto per sfuggire alla morsa della cassa integrazione e della disoccupazione.


A Roma l'esempio più clamoroso si chiama Officine Zero ("zero padroni, zero sfruttamento, zero inquinamento"). Tutto comincia con la fabbrica della Rsi (Rail System International), una società del gruppo Wagon Lits che ristrutturava, manteneva e riparava le carrozze dei treni letto. E infatti è a fianco della stazione Tiburtina, che proprio in questi anni è diventata monumentale e superefficiente. Destino diverso per la Rsi: nel 2008 la Wagon Lits l'ha venduta alla Barletta spa, che però anziché conservare l'originaria vocazione metalmeccanica aveva in progetto un mega-complesso immobiliare. Non se ne è fatto nulla, a fine 2001 anche la Barletta ha gettato la spugna e 33 operai altamente specializzati si sono ritrovati in cassa integrazione. Occupazioni, trattative con le autorità locali, tentativi di mediazione, sono stati inutili. Finché, in prossimità della scadenza dei termini della cassa integrazione, è uscita l'idea: con l'aiuto di un gruppo di architetti, economisti, attivisti dei centri sociali, è stato redatto il progetto delle Officine Zero "Sarà un grande spazio di co-working, che ospiterà anche una camera del lavoro precario autogestita", racconta Lorenzo Sansonetti, un grafico pubblicitario che si è appassionato all'idea e con altri membri del centro sociale Strike, che è a fianco alla Rsi, ha redatto il progetto.

Il piano è stato presentato il 1° giugno: "Nella ex fabbrica - spiega Sansonetti - nasceranno attività specializzate nel riciclo e nel riuso a partire dal materiale ferroso abbandonato nella fabbrica stessa ma poi anche ad esempio per gli elettrodomestici e per i computer: da tre vecchi computer, tanto per fare un esempio, se ne può fare uno funzionante. Cìè poi l'area uffici che è già funzionante e dal primo luglio, con la connessione Internet andrà a regime". Altre attività riguarderanno le energie rinnovabili, l'artigianato vecchio e nuovo, infine perché no la stessa manutenzione ferroviaria che era l'originaria vocazione. "Il binario che ci collegava alla stazione Tiburtina è stato tagliato di netto quando sono stati fatti i lavori per l'alta velocità. Ma l'area è ancora libera e  la connessione potrebbe essere riattivata", spiega Emiliano Angelè, che nella Rsi si occupava della cruciale fase dello smontaggio dei carrelli e ora è uno degli operai coinvolti nel tentativo di rilancio.

Spostiamoci a Milano, località Trezzano sul Naviglio. Qui, la Maflow produceva componenti per le industrie automobilistiche più importanti, per la precisione tubi per gli impianti di climatizzazione. Dal 2008 la crisi, poi un passaggio di mano nel 2009 a un imprenditore polacco che presto abbandona la partita, e quindi la chiusura. Risultato: 320 lavoratori a casa. Ora, negli spazi dell'ex stabilimento nel frattempo tornati nella mani della banca creditrice (l'Unicredit, che ha consentito i nuovi utilizzi), gli operai hanno fatto rinascere un'attività. Negli ampi spazi, quasi 30mila metri quadri, coinvolgendo una rete di persone che comprende disoccupati di altre fabbriche chiuse dell'ovest milanese e persino alcuni imprenditori locali, si sono reinventati un lavoro, hanno creato una cooperativa chiamata Ri-Maflow, e hanno anche qui cominciato a utilizzare i rottami ferrosi e gli altri macchinari in disuso. L'idea è di avviare una "ricicleria" di materiali ed attrezzature dismessi: computer, piccoli motori, elettrodomestici vengono smontati pezzo per pezzo per essere riciclati.

Ci sono poi casi misti cultura-produzione. A Gambettola, vicino Santarcangelo di Romagna, negli spazi dell'ex-cementificio Buzzi-Unicem dismesso già nel 1989 per problemi logistici ed ambientali, sorge La Fabbrica, centro di produzione di cultura e artigianato. Valorizzati su iniziativa del designer Angelo Grassi con un progetto di recupero di archeologia industriale, oggi gli ambienti di lavoro e le vecchie macchine arrugginite hanno lasciato il posto a sale-mostra, laboratori, un teatro, uffici. Lo spazio è utilizzato in modo flessibile e ospita diversi tipi di attività: esposizioni, spettacoli e residenze creative. Ma vi hanno trovato posto negli anni anche sedici artigiani (falegnami, elettricisti, tornitori, idraulici, scultori di pietra serena) che fatturano oggi complessivamente 8 milioni di euro. La fabbrica, spiega Grassi, "è un condominio di artigiani, dove ognuno gode del suo spazio autonomo, ma si fa filiera e c'è collaborazione. Spazi dai nomi suggestivi che evocano l'attività di un tempo: la Galleria delle colonne, dove il cemento veniva caricato sui camion; il Teatro e la Saletta dei filtri, dove veniva depurato il vapore emesso durante il processo di lavorazione del cemento; la Sala dei sacchi e le stanze silos, così chiamate perché qui arrivava e venivano depositati la calce e il cemento prima di essere insaccati; il Tunnel della fotografia, dove ha sede il museo fotografico, luogo di transito del cemento. Nella parte alta, quella dei forni verticali, il Circolo dopolavoro. Il tutto tra i macchinari della vecchia fabbrica trasformati in elementi di arredo. Luoghi che sono frequentati e visitati da circa ventimila persone l'anno, soprattutto studenti, a partire da quelli di architettura.

Perfino un cantiere navale può rinascere: ad un anno dallo sgombero per fallimento della Satin, l'azienda che possedeva i Cantieri Navali di Trapani, i 55 ex-lavoratori si sono riuniti nella cooperativa Bacino di Carenaggio, e si sono detti "pronti a diventare essi stessi un'alternativa alla disastrosa gestione precedente".
I casi si moltiplicano. Scorrendo un voluminoso dossier di Comune. info che viene continuamente aggiornato, ci si imbatte per esempio nella ex-Evotape di Castelforte (Latina), un'azienda che produceva nastri per imballaggio. Qui, tra 40mila metri quadri di asfalto e capannoni, opera adesso la della Mancoop, e in questi giorni stanno germogliando peperoni, basilico e rosmarino. Quelle piantine rappresentano per i 53 soci-lavoratori della neonata cooperativa, che hanno anche ricominciato a produrre i nastri, il simbolo della riappropriazione del loro lavoro e della rinascita dopo un decennio trascorso in balìa delle multinazionali.

L'elenco potrebbe continuare. Si parla di "modello Argentina" o "modello Grecia", dove è avvenuto qualcosa del genere, ma in realtà le fabbriche autogestite sono una realtà anche in America, in Francia, perfino in Germania. È a quei modelli che con pieno titolo il nostro Paese deve tendere.

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