Il
rapporto di JP Morgan che prende di mira le Costituzioni Europee troppo
democratiche ed antifasciste e troppo basate su sistemi politici ed
economici del secolo scorso è stato ben descritto dal Fatto Quotidiano
ed ampiamento commentato su Repubblica da Barbara Spinelli e su
Liberazione da Dino Greco. Mi pare però che ci sia un elemento mancante
in questi ragionamenti, e cioè che JP Morgan ha sostanzialmente ragione.
Attenzione! Non sto dicendo che la via indicata dalla banca d’affari
sia quella giusta, tutt’altro. Ma il rapporto dice a chiare lettere che
nel dopo-crisi questo tipo di mercato è irriconciliabile con la
democrazia come l’abbiamo conosciuta negli ultimi 60 anni circa.
Facciamo un rapido excursus storico per capire come si è evoluto nel tempo il rapporto tra democrazia e mercato, per renderci conto in che situazione ci troviamo ora. Tenendo ben presente che democrazia e mercato non sono due soggetti totalmente scissi uno dall’altro, ma sono invece due elementi in continua interazione, che si spingono, si uniscono ed a volte si respingono vicendevolmente. La loro unione, o scissione, è quella che ha creato i moderni sistemi politici occidentali. Il capitalismo si è sviluppato in un contesto non democratico, quando non proprio autoritario, in società inique in cui il diritto di voto era concesso solo ai ricchi ed in sistemi economici in cui l’accumulazione del capitale era l’unica variabile di rilievo. E con un regime internazionale imperniato intorno al libero scambio ed al gold standard, un sistema che risolveva gli squilibri economici con disoccupazione di massa e recessioni. Le cose cambiarono dopo la prima ed in particolare dopo la seconda guerra mondiale. Il trauma del conflitto, del fascismo, la minaccia socialista portarono ad una trasformazione fondamentale: le dinamiche interne – occupazione, crescita – divennero tutto d’un tratto, e per la prima volta, più importanti di quelle internazionali – cioè equilibrio dei conti. In parole povere, il nuovo sistema democratico portava ad un nuovo contratto sociale basato su redistribuzione del reddito dal capitale al lavoro, restrizione alla libertà movimento dei capitali, diritti non solo politici ma sociali. Un aumento dei diritti di cittadinanza, una diminuzione delle cosiddette “libertà” del mercato. D’altronde la democrazia, una novità del XX secolo, ha bisogno di voti e i voti si ottengono soprattutto con lavoro, reddito, qualità della vita.
Come ben sappiamo, però, a fine anni 70 le cose cambiarono nuovamente, il nuovo corso della globalizzazione neo-liberista riportò al libero movimento dei capitali, all’accumulazione dei profitti, allo schiacciamento dei salari. Nuovamente il pendolo si spostava a favore del capitale e contro il lavoro, in un trend, in maniera minore o maggiore, presente in tutto il mondo occidentale. Che non portò a drastici cambiamenti del sistema politico, capace di convivere con un capitalismo rampante soprattutto grazie al sistema del debito. Debito che cominciò ad esplodere proprio dagli anni 80 in avanti. Debito pubblico in Europa, debito privato nei paesi anglosassoni, perché in qualche maniera bisognava garantire degli standard di vita decenti agli elettori. Ma la crisi del 2007 ha portato alla fine di questo sistema, di questo tentativo di far convivere il capitalismo mondializzato con la democrazia nazionale. Come spiegato in maniera accurata da Dani Rodrik nel suo saggio sui limiti della globalizzazione, i mercati liberi e senza regole non sono compatibili con la democrazia e con la sopravvivenza dello stato nazionale. Ed è qui che entra in campo il rapporto di JP Morgan. Escludendo la soluzione utopica di un governo (democratico) mondiale, le soluzioni sono due: o un freno ai mercati e dunque alle opportunità di profitto e accumulazione del capitale; o un inesorabile riduzione dei contenuti democratici nei Paesi occidentali, e non solo. Che è in fondo quello che stiamo vivendo oggi nell’Unione Europea dove si è deciso che le crisi si curano a colpi di tagli di welfare, disoccupazione e diminuzione dei salari, esattamente come nel vecchio Gold Standard. Ma che è anche il modello di quei paesi come Brasile o Turchia dove la democrazia elettorale esiste, ma dove il governo prende decisioni sempre e comunque in favore dei grandi interessi economici. E che dunque, nonostante la diminuzione della povertà e il miglioramento delle condizioni di vita, scatenano rivolte popolari che nessuno aveva previsto e che chiedono un ruolo centrale per la democrazia e un freno al potere del capitale e del governo che lo rappresenta.
Insomma, siamo ad un bivio cruciale. La crisi ha sentenziato che il modello del capitalismo a debito, della democrazia finanziaria non è sostenibile. Il capitale ha riorganizzato in fretta i suoi interessi, la politica europea ha legato le mani agli Stati col fiscal compact e sta imponendo una colossale ristrutturazione dei rapporti economici, a cui seguirà inevitabilmente una riscrittura del dettato politico-costituzionale, esattamente come chiedono le grandi banche d’affari, ormai portavoce della nuova “razza padrona”. Non vi sono dubbi che un’organizzazione istituzionale di tipo Novecentesco non sia compatibile con disoccupazione di massa, salari bassi, peggioramento drastico delle condizioni di vita – quelle stesse condizioni che portarono a guerra e dittature nella prima metà del secolo scorso.
L’alternativa è una riscossa democratica, del tipo di quelle che seguirono al disastro economico-politico-militare della Grande Crisi e della Guerra. Quella che portò al Welfare State britannico, alle Costituzioni democratiche europee, agli accordi di Bretton Woods che contenevano il mercato nelle maglie della democrazia e, dunque, del bene comune.
Come sempre si tratta dell’eterno conflitto lavoro contro capitale: salario contro profitto, oligarchia contro democrazia, ineguaglianza contro welfare, queste sono le scelte strutturali cui ci troviamo davanti. Le banche, i governi conservatori, i tecnocrati hanno già scelto il loro modello, mentre gran parte della sinistra europea brancola nel buio, incapace di comprendere i grandi problemi del post-crisi. Col rischio di svegliarsi un giorno nel mondo della post-democrazia.
Facciamo un rapido excursus storico per capire come si è evoluto nel tempo il rapporto tra democrazia e mercato, per renderci conto in che situazione ci troviamo ora. Tenendo ben presente che democrazia e mercato non sono due soggetti totalmente scissi uno dall’altro, ma sono invece due elementi in continua interazione, che si spingono, si uniscono ed a volte si respingono vicendevolmente. La loro unione, o scissione, è quella che ha creato i moderni sistemi politici occidentali. Il capitalismo si è sviluppato in un contesto non democratico, quando non proprio autoritario, in società inique in cui il diritto di voto era concesso solo ai ricchi ed in sistemi economici in cui l’accumulazione del capitale era l’unica variabile di rilievo. E con un regime internazionale imperniato intorno al libero scambio ed al gold standard, un sistema che risolveva gli squilibri economici con disoccupazione di massa e recessioni. Le cose cambiarono dopo la prima ed in particolare dopo la seconda guerra mondiale. Il trauma del conflitto, del fascismo, la minaccia socialista portarono ad una trasformazione fondamentale: le dinamiche interne – occupazione, crescita – divennero tutto d’un tratto, e per la prima volta, più importanti di quelle internazionali – cioè equilibrio dei conti. In parole povere, il nuovo sistema democratico portava ad un nuovo contratto sociale basato su redistribuzione del reddito dal capitale al lavoro, restrizione alla libertà movimento dei capitali, diritti non solo politici ma sociali. Un aumento dei diritti di cittadinanza, una diminuzione delle cosiddette “libertà” del mercato. D’altronde la democrazia, una novità del XX secolo, ha bisogno di voti e i voti si ottengono soprattutto con lavoro, reddito, qualità della vita.
Come ben sappiamo, però, a fine anni 70 le cose cambiarono nuovamente, il nuovo corso della globalizzazione neo-liberista riportò al libero movimento dei capitali, all’accumulazione dei profitti, allo schiacciamento dei salari. Nuovamente il pendolo si spostava a favore del capitale e contro il lavoro, in un trend, in maniera minore o maggiore, presente in tutto il mondo occidentale. Che non portò a drastici cambiamenti del sistema politico, capace di convivere con un capitalismo rampante soprattutto grazie al sistema del debito. Debito che cominciò ad esplodere proprio dagli anni 80 in avanti. Debito pubblico in Europa, debito privato nei paesi anglosassoni, perché in qualche maniera bisognava garantire degli standard di vita decenti agli elettori. Ma la crisi del 2007 ha portato alla fine di questo sistema, di questo tentativo di far convivere il capitalismo mondializzato con la democrazia nazionale. Come spiegato in maniera accurata da Dani Rodrik nel suo saggio sui limiti della globalizzazione, i mercati liberi e senza regole non sono compatibili con la democrazia e con la sopravvivenza dello stato nazionale. Ed è qui che entra in campo il rapporto di JP Morgan. Escludendo la soluzione utopica di un governo (democratico) mondiale, le soluzioni sono due: o un freno ai mercati e dunque alle opportunità di profitto e accumulazione del capitale; o un inesorabile riduzione dei contenuti democratici nei Paesi occidentali, e non solo. Che è in fondo quello che stiamo vivendo oggi nell’Unione Europea dove si è deciso che le crisi si curano a colpi di tagli di welfare, disoccupazione e diminuzione dei salari, esattamente come nel vecchio Gold Standard. Ma che è anche il modello di quei paesi come Brasile o Turchia dove la democrazia elettorale esiste, ma dove il governo prende decisioni sempre e comunque in favore dei grandi interessi economici. E che dunque, nonostante la diminuzione della povertà e il miglioramento delle condizioni di vita, scatenano rivolte popolari che nessuno aveva previsto e che chiedono un ruolo centrale per la democrazia e un freno al potere del capitale e del governo che lo rappresenta.
Insomma, siamo ad un bivio cruciale. La crisi ha sentenziato che il modello del capitalismo a debito, della democrazia finanziaria non è sostenibile. Il capitale ha riorganizzato in fretta i suoi interessi, la politica europea ha legato le mani agli Stati col fiscal compact e sta imponendo una colossale ristrutturazione dei rapporti economici, a cui seguirà inevitabilmente una riscrittura del dettato politico-costituzionale, esattamente come chiedono le grandi banche d’affari, ormai portavoce della nuova “razza padrona”. Non vi sono dubbi che un’organizzazione istituzionale di tipo Novecentesco non sia compatibile con disoccupazione di massa, salari bassi, peggioramento drastico delle condizioni di vita – quelle stesse condizioni che portarono a guerra e dittature nella prima metà del secolo scorso.
L’alternativa è una riscossa democratica, del tipo di quelle che seguirono al disastro economico-politico-militare della Grande Crisi e della Guerra. Quella che portò al Welfare State britannico, alle Costituzioni democratiche europee, agli accordi di Bretton Woods che contenevano il mercato nelle maglie della democrazia e, dunque, del bene comune.
Come sempre si tratta dell’eterno conflitto lavoro contro capitale: salario contro profitto, oligarchia contro democrazia, ineguaglianza contro welfare, queste sono le scelte strutturali cui ci troviamo davanti. Le banche, i governi conservatori, i tecnocrati hanno già scelto il loro modello, mentre gran parte della sinistra europea brancola nel buio, incapace di comprendere i grandi problemi del post-crisi. Col rischio di svegliarsi un giorno nel mondo della post-democrazia.
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