martedì 18 giugno 2013

Se dicessi che sui vincoli europei ha ragione Berlusconi? di Riccardo Realfonzo, Il Fatto Quotidiano


Poteva riuscirci solo lui, e infatti c'è riuscito. Solo lui poteva costruire il Fiscal Compact in Europa, votarlo, approvarlo fin nei suoi dettagli e poi chiedere di non rispettarlo pochi mesi dopo.
Sì, è Silvio Berlusconi, l'unico che riesce ad avere ancora la faccia per prenderci in giro. Enrico Letta e il resto del centro sinistra italiano lo fanno altrettanto, ma con minor creatività e maggior coerenza, dato che ancora recitano come un mantra che i vincoli europei saranno comunque rispettati e che l'unico modo per uscire dalla crisi è quello di abbinare rigore e crescita. 
Il  paradosso della giornata è che dobbiamo ringraziare Silvio Berlusconi perché almeno ci permette di parlare di politica. Berlusconi almeno oggi sta facendo discutere l'Italia dell'unica cosa seria che conta in questo momento, il rispetto o meno dei vincoli europei.
Beppe Grillo e il suo movimento che erano i naturali candidati per porre questa questione sono stati succhiati vivi dalla loro stessa logica mediatica, e ora si trovano a parlare di idiozie mentre il paese schianta.
Così mentre oggi i grillini si divertivano a fare processi in diretta streaming l'unica cosa seria e condivisibile  è arrivata sulle prime pagine dalla bocca di Silvio Berlusconi:" i parametri europei non vanno rispettati, tanto mica ci cacciano".


Si dirà che lo fa per calcolo politico. Si dirà che ha governato per anni adeguandosi all’austerità. Si dirà che parla fuori tempo massimo. E si diranno altre cose più o meno sensate. Ma saremmo intellettualmente disonesti se negassimo che questa volta ha ragione Berlusconi: la politica economica del governo dovrebbe effettivamente guardare oltre i vincoli europei.
Per quanto mi riguarda, credo di averlo già chiarito pochi giorni fa sul “Sole 24 Ore”: bisogna utilizzare l’avanzo primario (l’eccedenza delle entrate fiscali sulla spesa, esclusi gli interessi sul debito), sfondando il vincolo europeo del deficit al 3%. Nelle condizioni date, non ci sono altre strade altrettanto efficaci, certe, per rilanciare l’economia. Infatti, nessuno ormai può più negare quanto una parte della accademia italiana ha chiarito già tre anni fa, con la famosa “Lettera degli economisti”: le politiche di austerità sono fortemente recessive e fanno sprofondare l’Europa nel baratro. Quanti sostenevano che i moltiplicatori della politica fiscale – che appunto misurano l’impatto dei tagli e delle tasse sulla produzione nazionale – fossero trascurabili (o addirittura negativi, secondo la favoletta per cui l’austerità favorirebbe la crescita) sono stati sbugiardati nella maniera più plateale. Come ha scritto Krugman, mai nel ring della storia del pensiero economico un match teorico si era chiuso con un ko così netto. I keynesiani, favorevoli alle politiche anticicliche di stimolo della domanda, hanno messo al tappeto i falchi della austerità. Insomma, oggi vi è una clamorosa contraddizione tra la condizione in cui siamo, per molti aspetti peggiore di quella del ’29, e l’idea di proseguire con tagli della spesa pubblica (che, si badi bene, è già a livelli inferiori della media europea, considerando anche la spesa per interessi) e aumenti delle tasse.
L’azzeramento dell’avanzo primario, costruito con le politiche di lacrime e sangue, vale oltre 35 miliardi di euro e avrebbe un effetto benefico rilevante per l’economia italiana. Quanto benefico? Ebbene, utilizzando l’intervallo stimato da Olivier Blanchard – l’illustre quanto moderato capo economista del Fondo Monetaria Internazionale – l’effetto espansivo sul Pil italiano sarebbe, nel giro di 9-15 mesi, variabile tra i 34 e i 62 miliardi di euro, cioè tra i 2 e i 4 punti di Pil, con un valore medio superiore ai 45 miliardi di euro. Ma quest’ultima sarebbe una stima davvero molto prudente, se è vero che un ulteriore recente studio dello stesso Fondo Monetario Internazionale considera che il moltiplicatore della spesa in Italia, in una condizione recessiva come quella in cui siamo, dovrebbe assumere molto più probabilmente un valore intorno al massimo dell’intervallo proposto da Blanchard. Per non parlare delle stime compiute sugli effetti delle politiche espansive di Obama (l’American Recovery and Reinvestment Act) che sono arrivati ad individuare moltiplicatori ben più ampi, pari a 3.
A quanti osserveranno che questa manovra farebbe incrementare il rapporto tra deficit e Pil, ricordiamo che un intervento di questo genere avrebbe ampi effetti retroattivi positivi. Intanto, la crescita del Pil tenderebbe ad arginare significativamente l’aumento dei rapporti di finanza pubblica. E, d’altra parte, le entrate fiscali aumenterebbero non meno di un punto di Pil, come conseguenza automatica della crescita. A coloro che vivono nell’incubo del debito pubblico, vorrei piuttosto ricordare che nella storia italiana il debito raramente è cresciuto velocemente come in questo periodo di austerità e che (per quanto il paragone sia in buona misura improprio) se una impresa è indebitata il modo razionale per risolvere la questione può ben consistere nello spendere qualcosa in più per tentare di incrementare il fatturato, riducendo il peso dei debiti. A chi si chiede di quanto aumenterebbe lo spread sui titoli del debito pubblico, replico che si tratta di questione più politica che tecnica, perché se la Banca Centrale Europea assumesse un profilo accomodante gli spread potrebbero addirittura ridursi.
Una strada difficile da percorrere? Certamente. Ma è la sfida cui siamo sfortunatamente chiamati e il resto sono frottole.

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