«Massacriamo di botte i poveri!», ingiungeva crudelmente Charles Baudelaire nel suo Spleen de Paris (1869). In questa grottesca favola, scritta fra il 1864 e il 1865, non ci proponeva di massacrarli per sbarazzarcene, ma per salvarli. Il suo personaggio, «disincantato dalle promesse» di un periodo di ottimismo, si mette a riempire di botte un vecchio mendicante, invece di dargli l’elemosina. Sorpresa! «L’antica carcassa» si ribella e restituisce allora i colpi in un modo tanto convincente che l’aggressore divide con lui volentieri i suoi beni. Baudelaire ci ha indicato la via migliore per uscire dalla miseria?
Massacrare di colpi i poveri, la soluzione non pare tanto assurda ai «riformatori strutturali», a questi nuovi «imprenditori della felicità pubblica» (1). Essi assicurano ogni giorno, attraverso sondaggi e sermoni, che l’accumulazione privata è il mezzo migliore per garantire lavoro ai poveri, per partecipare all’arricchimento collettivo. Prendono in giro le resistenze e le paure, vani tentativi di andare contro la necessità. Dopo una tale orgia di argomentazioni, come potrebbero i poveri non accettare di essere massacrati di botte per il loro bene? Come un tempo l’Inquisizione, che prometteva ai peccatori un guadagno futuro (il paradiso o la prosperità) al prezzo di una pena attuale, si ingiunge loro, per ottenere domani qualche beneficio, di fare oggi il sacrificio. Ma davanti alla responsabilità di agire, o di morire, eccoli infine comandati, questi assistiti, questi imbroglioni, di cavarsela con l’iniziativa e il coraggio! Così parlano gli avversari della redistribuzione: Disoccupati? Create la vostra impresa. Disoccupati? Lavorate.
Il narratore del poemetto in prosa, magari raggirato per qualche anno da mercanti d’illusioni dalle due sponde – «di quelli che consigliano a tutti i poveri di farsi schiavi e di quegli altri che li persuadono di essere tutti re detronizzati» – sembra un po’ meno povero del vecchio mendicante con cui se la prende. Gli sarà tanto più facile spartire i suoi beni dal momento che ne ha pochi. Entrambi sono stati ingannati, entrambi condividono la medesima violenza nella miseria, ennesima illustrazione dell’adagio popolare che vuole i miserabili picchiarsi fra loro invece di prendersela con i ricchi. La favola di Baudelaire tutto sommato è realista e pessimista, quando oggi ci si stupisce della mancanza di reazione alla crisi. La chiamata in causa dell’assistenza sociale, dell’immigrazione, del parassitismo sociale non sono forse comodi paraventi che portano i poveri a prendersela con i poveri? Quanto più grande è la paura del declassamento sociale, tanto maggiore è l’odio contro coloro che presentano l’immagine di una prossima caduta o di un lento declino. La realtà dei ricchi è, per quanto riguarda i poveri, ben più lontana… e ha almeno il vantaggio di offrire sogni per occupare le notti e i giochi.
A meno che questa favola non sia paradossalmente ottimista. Dopo tutto, i suoi poveri protagonisti si accordano per reagire alla loro miseria. Certo che sono venuti alle mani, ma la violenza agisce su di loro come una rivelazione. Che cosa occorre perché la verità della depredazione esca dall’apatia? Indubbiamente i disastri della storia hanno guarito da un bel po’ d’illusioni rivoluzionarie, ma non è forse peggio sopportare la violenza con cognizione di causa? Questa potrebbe essere la sostanza della favola e la sua lezione per il nostro tempo, quando le cose non sono state mai tanto chiare circa la violenza, l’arricchimento dei più ricchi e l’impoverimento dei più poveri. La crisi giustifica sforzi e sacrifici, si sente proferire dagli apostoli delle riforme strutturali. Ciò che essi non dicono è che questo appello è implicitamente indirizzato ai poveri. Poi si viene a sapere, da una graduatoria di Forbes o da un’altra di Fortune, che il numero dei miliardari aumenta ogni anno, come anche il loro patrimonio individuale; si apprende che le azioni delle imprese quotate [in Borsa] conoscono rialzi ben superiori a quelli del loro fatturato, che le rimunerazioni e le indennità dei dirigenti aumentano mentre addirittura non ci sono utili, e i richiami alla moderazione restano senza risposta. I ricchi non sarebbero tanto numerosi né abbastanza ricchi per condividere il fardello e la loro ricchezza non avrebbe quindi alcun nesso con l’impoverimento degli altri? Chiedere sacrifici ai più impoveriti lasciando libertà d’azione ai più ricchi ha qualcosa di strabiliante.
Baudelaire, che aveva partecipato alle speranze del 1848, circondato da quei «libri dove si tratta dell’arte di rendere i popoli più felici, saggi e ricchi in ventiquattr’ore», fu anch’egli tramortito dalle giornate di giugno 1848, che videro l’esercito della Repubblica massacrare gli operai. Poi ci fu il colpo di Stato del dicembre 1851. La sua posizione oscilla fra la rivolta e lo spleen, di fronte all’interminabile sottomissione. Egli ne fu completamente «depoliticato», scriveva allora nella sua corrispondenza (2). Oggi si direbbe spoliticizzato. Non lo era completamente, a meno che non si possa mai esserlo definitivamente.
NOTE
(1) Op. cit.
(2) Lettera al signor Ancelle del 5 marzo 1852.
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