Le
elezioni comunali hanno fatto registrare un drastico ridimensionamento
del Movimento 5 Stelle rispetto ai voti raccolti alle ultime politiche.
La logica del “tanto peggio, tanto meglio” è ancora adatta alla
strategia di una formazione diventata grande troppo in fretta?
di Emilio CarnevalI, Micromega
C'è qualcosa di paradossale – sebbene di non imprevisto – nel tracollo di voti subito dal Movimento 5 Stelle al primo turno delle elezioni amministrative di ieri.
Il M5S si è sempre contraddistinto, infatti, per un approccio spiccatamente “municipalista” all'impegno politico: salvaguardia degli spazi verdi, risparmio energetico, piste ciclabili, lotta agli inceneritori, ecc. sono fin dalla sua nascita i temi che ne hanno contraddistinto identità, parole d'ordine, “miti mobilitanti”.
Se si scorrono le biografie dei deputati e senatori a 5 Stelle (pubblicate nel libro “La carica dei 163” di Castigliani, Liuzzi, Sansa e Zaccariello, supplemento editoriale a Il Fatto Quotidiano) salta agli occhi come le principali incubatrici di questo personale politico nuovo di zecca siano state proprio le tante vertenze di territorio che negli ultimi anni hanno attraversato tutta la nostra penisola, da Nord a Sud: dalle campagne contro lo scandalo rifiuti e per la raccolta differenziata nelle realtà del Mezzogiorno, alle proteste contro la linea di alta velocità Torino-Lione in Piemonte, passando per le numerose lotte contro la privatizzazione dei servizi idrici locali e per “l'acqua pubblica” in moltissimi comuni italiani di piccole e medie dimensioni. Vertenze che ci hanno raccontato la storia di uno straordinario attivismo civico in un Paese spesso descritto come irrimediabilmente cinico, individualista, disincantato.
È paradossale, dunque, che proprio a livello comunale un Movimento eminentemente localista riporti un risultato così deludente, in alcuni casi addirittura catastrofico: la perdita di consensi rispetto al voto di fine febbraio è oscillata fra la metà e i due terzi della percentuale complessiva allora raccolta.
Sono numeri che rischiano di accreditare una tesi sinistra: e cioè che tolto il traino mediatico di Beppe Grillo – traino che trova nel piano nazionale la propria dimensione ideale – resti in realtà ben poco intorno all'accattivante brand a 5 Stelle. Con buona pace di tanta retorica sulla Rete che aveva spazzato via le forme tradizionali di aggregazione politica: a meno che non si voglia pensare che il buon risultato riportato dal centrosinistra sia frutto del diffuso apprezzamento per le più recenti mosse dei suoi vertici nazionali.
D'altra parte lo stesso Movimento non ha fatto molto, in questi mesi, per gettare le basi di una formazione non più incentrata sul ruolo predominante di un solo capo carismatico. Ieri il capogruppo al Senato Vito Crimi ha così commentato i risultati elettorali: «I dati delle amministrative? Non li ho seguiti». Dichiarazione lunare che palesa la drammatica assenza di una classe dirigente degna di questo nome dietro il plotone di parlamentari catapultati a Roma dalle elezioni politiche dello scorso febbraio. E forse non solo per responsabilità di quella “classe dirigente potenziale” che è tenuta rigorosamente alla larga non solo dai talk show televisivi, ma da ogni luogo in cui possa maturare una riflessione collettiva che vada al di là dell'invettiva, del monologo, del grido di indignazione, dell'ostentazione di una “ontologica” separatezza da tutto ciò che puzza di mediazione... ma che, in fondo, rimanda all'inaggirabile complessità delle cose del mondo (prima ancora che delle cose della politica).
L'altro aspetto del paradosso è legato alla forte disaffezione dei cittadini nei confronti della politica che queste elezioni avrebbero testimoniato, non solo attraverso percentuali particolarmente basse di partecipazione al voto (attenzione: come ha osservato Roberto D'Alimonte sul Sole 24 Ore il calo dei votanti è perfettamente in linea con quello delle amministrative 2012 rispetto al 2007, se si considerano – più correttamente – solo gli 8 comuni nei quali non si è votato insieme alle politiche nella precedente tornata. Si inserisce dunque in un trend di medio periodo, per certi versi ancor più preoccupante).
Tale disaffezione non ha premiato il partito dell'antipolitica e del voto di protesta per antonomasia. Le lezione che se ne potrebbe trarre è che quando si entra a far parte del “sistema” non è facile vincere sulle macerie del sistema stesso. E, se questo è vero, il gioco del “tanto peggio, tanto meglio” – ovvero del non sporcarsi le mani per lucrare consensi da una posizione di assoluta non compromissione (o di assoluta irrilevanza, a seconda dei punti di vista) – potrebbe non essere più una strategie all'altezza della nuova fase che il Movimento deve inaugurare, se vuole sopravvivere.
Intanto la sfida finale che Grillo aveva fissato in autunno fra lui e Berlusconi (altro grande sconfitto di queste elezioni amministrative) è quantomeno rimandata. “Ne resterà solo uno!”, aveva gridato il leader del Movimento 5 Stelle nelle piazze battute nel corso del suo tour elettorale. Da oggi sappiamo che quell'“uno” potrebbe non essere lui. Ma se davvero “uno vale uno” non si tratterebbe per forza di una cattiva notizia per quella vasta Italia – costituita dagli elettori del centrosinistra, del Movimento 5 Stelle e da tanti, troppi, astenuti – che è ancora alla ricerca di un'”Altra Politica”.
di Emilio CarnevalI, Micromega
C'è qualcosa di paradossale – sebbene di non imprevisto – nel tracollo di voti subito dal Movimento 5 Stelle al primo turno delle elezioni amministrative di ieri.
Il M5S si è sempre contraddistinto, infatti, per un approccio spiccatamente “municipalista” all'impegno politico: salvaguardia degli spazi verdi, risparmio energetico, piste ciclabili, lotta agli inceneritori, ecc. sono fin dalla sua nascita i temi che ne hanno contraddistinto identità, parole d'ordine, “miti mobilitanti”.
Se si scorrono le biografie dei deputati e senatori a 5 Stelle (pubblicate nel libro “La carica dei 163” di Castigliani, Liuzzi, Sansa e Zaccariello, supplemento editoriale a Il Fatto Quotidiano) salta agli occhi come le principali incubatrici di questo personale politico nuovo di zecca siano state proprio le tante vertenze di territorio che negli ultimi anni hanno attraversato tutta la nostra penisola, da Nord a Sud: dalle campagne contro lo scandalo rifiuti e per la raccolta differenziata nelle realtà del Mezzogiorno, alle proteste contro la linea di alta velocità Torino-Lione in Piemonte, passando per le numerose lotte contro la privatizzazione dei servizi idrici locali e per “l'acqua pubblica” in moltissimi comuni italiani di piccole e medie dimensioni. Vertenze che ci hanno raccontato la storia di uno straordinario attivismo civico in un Paese spesso descritto come irrimediabilmente cinico, individualista, disincantato.
È paradossale, dunque, che proprio a livello comunale un Movimento eminentemente localista riporti un risultato così deludente, in alcuni casi addirittura catastrofico: la perdita di consensi rispetto al voto di fine febbraio è oscillata fra la metà e i due terzi della percentuale complessiva allora raccolta.
Sono numeri che rischiano di accreditare una tesi sinistra: e cioè che tolto il traino mediatico di Beppe Grillo – traino che trova nel piano nazionale la propria dimensione ideale – resti in realtà ben poco intorno all'accattivante brand a 5 Stelle. Con buona pace di tanta retorica sulla Rete che aveva spazzato via le forme tradizionali di aggregazione politica: a meno che non si voglia pensare che il buon risultato riportato dal centrosinistra sia frutto del diffuso apprezzamento per le più recenti mosse dei suoi vertici nazionali.
D'altra parte lo stesso Movimento non ha fatto molto, in questi mesi, per gettare le basi di una formazione non più incentrata sul ruolo predominante di un solo capo carismatico. Ieri il capogruppo al Senato Vito Crimi ha così commentato i risultati elettorali: «I dati delle amministrative? Non li ho seguiti». Dichiarazione lunare che palesa la drammatica assenza di una classe dirigente degna di questo nome dietro il plotone di parlamentari catapultati a Roma dalle elezioni politiche dello scorso febbraio. E forse non solo per responsabilità di quella “classe dirigente potenziale” che è tenuta rigorosamente alla larga non solo dai talk show televisivi, ma da ogni luogo in cui possa maturare una riflessione collettiva che vada al di là dell'invettiva, del monologo, del grido di indignazione, dell'ostentazione di una “ontologica” separatezza da tutto ciò che puzza di mediazione... ma che, in fondo, rimanda all'inaggirabile complessità delle cose del mondo (prima ancora che delle cose della politica).
L'altro aspetto del paradosso è legato alla forte disaffezione dei cittadini nei confronti della politica che queste elezioni avrebbero testimoniato, non solo attraverso percentuali particolarmente basse di partecipazione al voto (attenzione: come ha osservato Roberto D'Alimonte sul Sole 24 Ore il calo dei votanti è perfettamente in linea con quello delle amministrative 2012 rispetto al 2007, se si considerano – più correttamente – solo gli 8 comuni nei quali non si è votato insieme alle politiche nella precedente tornata. Si inserisce dunque in un trend di medio periodo, per certi versi ancor più preoccupante).
Tale disaffezione non ha premiato il partito dell'antipolitica e del voto di protesta per antonomasia. Le lezione che se ne potrebbe trarre è che quando si entra a far parte del “sistema” non è facile vincere sulle macerie del sistema stesso. E, se questo è vero, il gioco del “tanto peggio, tanto meglio” – ovvero del non sporcarsi le mani per lucrare consensi da una posizione di assoluta non compromissione (o di assoluta irrilevanza, a seconda dei punti di vista) – potrebbe non essere più una strategie all'altezza della nuova fase che il Movimento deve inaugurare, se vuole sopravvivere.
Intanto la sfida finale che Grillo aveva fissato in autunno fra lui e Berlusconi (altro grande sconfitto di queste elezioni amministrative) è quantomeno rimandata. “Ne resterà solo uno!”, aveva gridato il leader del Movimento 5 Stelle nelle piazze battute nel corso del suo tour elettorale. Da oggi sappiamo che quell'“uno” potrebbe non essere lui. Ma se davvero “uno vale uno” non si tratterebbe per forza di una cattiva notizia per quella vasta Italia – costituita dagli elettori del centrosinistra, del Movimento 5 Stelle e da tanti, troppi, astenuti – che è ancora alla ricerca di un'”Altra Politica”.
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