giovedì 16 maggio 2013

Corpo e mente nel postfordismo. La trappola del "General Intellect". di Roberto Finelli



1. Affettività e postmodernità
Il postmoderno nasce quando oggetto del dominio del capitale sulla forza-lavoro cessa di essere il «corpo» e comincia ad essere la «mente». Quando cioè funzione fondamentale del processo produttivo per quanto concerne la forza-lavoro è la subordinazione e l’omologazione della coscienza. Sia che si tratti infatti di erogazione di energia lavorativa alla macchina informatica sia che si tratti di partecipazione alle procedure della cosiddetta «qualità totale», ciò che è in gioco nella sussunzione reale della forza-lavoro al capitale non è più la materia ma lo spirito del lavoratore. L’intelligenza di questi, la sua capacità di scelta, la sua intera complessità emozionale-intenzionale è ciò che infatti ora serve al capitale da quando l’automazione unita all’informatica espelle forza-lavoro manuale e richiede forza-lavoro mentale e da quando la filosofia dell’azienda richiede un lavoro riflessivo, capace cioè di assumere il proprio costante miglioramento a oggetto di se stesso. In particolare la macchina informatica richiede una forza lavoro mentale a sé particolarmente subalterna ed omogenea, essendo la sua caratteristica fondamentale quella di collocare una serie enorme d’informazioni al di fuori del cervello umano e di dar luogo così a una mente artificiale di cui quella umana diventa solo funzione e appendice.
Almeno appare esser tale nel lavoro salariato o nel lavoro autonomo appaltato al capitale, laddove è ampliamento di memoria a disposizione di un soggetto elaboratore e creativo solo nel caso di lavori privati e ad alto contenuto di professionalità. Così la macchina dell’informazione applicata a processi produttivi capitalistici istituisce un sistema macchina-forza-lavoro che richiede erogazione di lavoro astratto: cioè di lavoro che, privo di coscienza del senso complessivo delle informazioni che organizzano e comandano il processo produttivo, immette risposte ed elaborazioni già predeterminate e precodificate.
In tal modo mentre il lavoro astratto tayloristico-fordistico era conseguenza di una occupazione totale del corpo da parte dell’automatismo macchinico, nel nuovo lavoro astratto è la mente che viene occupata e pervasa da un codice e una semantica che non hanno nulla a che fare con il corpo della forza-lavoro in questione.
In una condizione non patologica e scissa dell’essere umano – qual’è certo non quella vissuta dalla forza-lavoro messa in opera dal capitale – il senso del vivere e dell’agire è dato fondamentalmente da una relazione, in cui il corporeo-emozionale, compresente ma irriducibile al mentale, rappresenta la fonte mai esauribile dell’attività interpretativa ed elaborativa della mente: in una costituzione verticale del senso che s’integra con quella orizzontale derivante dal nesso del medesimo individuo con le altre soggettività1. Nel nuovo tipo di lavoro invece il sistema macchina informatica-forza-lavoro richiede una separazione radicale, opposta a quella del lavoro taylorista-fordista, della mente dal corpo: separazione che consegna la mente umana a una semantica decorporeizzata e anaffettiva. Del resto la sintassi del linguaggio informatico, costruita sulla logica binaria dell’alternanza tra il sì e il no, riproduce d elabora il mondo della vita secondo una forma astratta, perché priva di contrasti e contraddizioni. L’esclusione cioè del sì dal no, che sta a basi della sintassi informatica, impedisce d’esprimere l’ambivalenza che strutturalmente connota l’esperienza emotiva e proprio per questo può essere principio di un mondo informatizzato il cui orizzonte è quello della certezza analitica, anziché quello dialettico e multiverso dell’esperienza concreta. L’astrazione del nuovo lavoro mentale è perciò quella di una mente la cui attenzione e cura, astratta dal senso e dal fondamento della corporeità, è tutta assorbita da un universo di immagini e simboli alfa-numerici, attraverso la cui apparente neutralità ed oggettività si dispone il senso e il comando di un’organizzazione del processo produttivo volto, come sempre, alla valorizzazione. L’informazione in un processo di lavoro capitalisticamente strutturato non è mai solo descrittiva ma è sempre anche prescrittiva: ordina cioè un codice di senso predeterminato che sottrae alla forza-lavoro in questione, per quanto complessa sia la sua funzione, capacità autonoma d’innovazione e di creazione di senso.
A questa teorizzazione del nuovo lavoro mentale come conferma della teoria marxiana dell’astrazione reale si oppongono tutte le concezioni che nella descrizione dei nuovi processi economici hanno parlato di «riscossa della varianza e dell’indeterminazione»2, cioè di quelle visioni che accanto alla permanenza di modalità fortemente astratte e standardizzate hann osottolineato la funzionalità e la diffusione di saperi sempre più concreti, circostanziati e non omologabili tra di loro come mezzi indispensabili per affrontare la sempre maggiore complessità, articolazione e relazione del mondo economico contemporaneo. Secondo queste visioni i contesti di produzione e di mercato diverrebbero nell’economia postfordista, per l’organizzazione a rete che la connota, sempre più complessi e differenziati: dunque non standardizzabili e affrontabili attraverso automatismi, ma tali che nella loro continua modello variazione e differenza rimanderebbero, per essere affrontati e risolti, alla complessità e all’elasticità proprie solo dell’esperienza e della mente umana. Ci sarebbe bisogno perciò di un sapere sempre più contestuale e concreto che immetterebbe nell’economia moderna una fortissima tendenza verso l’individualizzazione riducendo di gran lunga la validità scientifica del modello marxiano dell’astrazione reale, il quale ha potuto avere senso esplicativo del reale solo per quanto concerne il capitalismo ottocentesco ma che già con l’organizzazione fordista si mostra insufficiente a spiegare la complessificazione del sapere e dell’esperienza che la grande fabbrica con i capi, con i tecnici, con i managers, nel suo rapporto con i servizi ad essa connessi pone in essere.Ma, si sottolinea, è in particolare con il postfordismo che aumenterebbe l’efficacia del lavoro e del sapere concreto rispetto a modelli standardizzati di comportamento: ora è necessario ricontestualizzare costantemente l’astratto nel concreto, per dare alla produzione, alla distribuzione, alla vendita, al marketing, all’innovazione tecnologica e commerciale quel grado di elasticità, di costante adattabilità, capacità penetrativa che la nuova struttura del mercato richiede.
Dagli anni sessanta inizia la stagione della maturità e poi (con gli anni settanta) del declino del paradigma fordista. I servizi, legati ai contesti assai più della manifattura, diventano l’asse portante del capitalismo industriale, è il mezzo decisivo del confronto competitivo. Le piccole imprese e i distretti, facendo valere esperienze di learning by doing uniche, distintive, mostrano quanto siano importanti i contesti (culturali, territoriali, personali) nella produzione di valore. Le stesse grandi imprese cessano di usare schemi centralizzati, per disseminare sul territorio intelligenze strategiche autonome (businnes units) cui si dà mandato di costruire dal basso il contesto di relazioni più appropriato con l’esterno (outsourcing, alleanze, contrattazione aziendale, negoziazione con la pubblica amministrazione)3.
Chi ragiona in questo modo non mette sufficientemente a fuoco, a mio parere, la mutazione antropologica che le nuove tecnologie basate sull’informatica stanno invece progressivamente producendo e il tipo di soggettività «concreta» che stanno mettendo in campo: una soggettività legata al capitale sempre meno da rapporti di comando e dominio e sempre più da strategie di implicazione e partecipazione. Una soggettività il cui nesso con l’azienda è sempre meno di subordinazione-imposizione e sempre più di appartenenza e identificazione. Ma soprattutto la nuova organizzazione postfordista della produzione produce una soggettività capitalistica in cui muta radicalmente il proprio modo di percepire la realtà, in quanto ogni presunto dato concreto della sua esperienza è fin dall’inizio percepito secondo un linguaggio formale-numerico, che gli sottrae ogni dimensione qualitativo-emozionale e lo traduce invece in un contesto quantitativo-calcolante. Così se già l’identicazione con l’azienda, grande o piccola che sia, con l’esigenza cioè del profitto e della sua accumulazione, produce già una profonda limitazione dei modi possibili di esperire il mondo, è proprio la stessa struttura e tipologia della nuova tecnologia informatica che fa del lavoratore, presuntivamente concreto e per quanto autonomo e decentrato esso possa essere da una struttura centralizzata, un soggetto essenzialmente calcolante che percepisce ed elabora il mondo secondo trame e connessioni di senso quantitative, ossia già provviste di un elevatissimo grado di standardizzazione e di riduzione qualitativa.
Dunque non si parte dal concreto per giungere poi all’astratto, non si parte da un’esperienza di vita che solo successivamente giungerebbe ad essere formalizzata e automatizzata, come vogliono anche qui alcuni apologeti che vedono nel postfordismo e nel postmoderno una presunta epoca della riscossa della «varianza» e dell’«indeterminazione». Bensì da un concreto che fin dall’inizio è percepito e valutato secondo parametri astratti di quantificazione e di matematizzazione, in cui il mondo della vita, cioè le relazioni di relazioni tra uomini ed uomini e tra uomini e mondo vivente, cede la scena a una rappresentazione atomistica ed infinitamente moltiplicata di individui e di cose, legati tra loro o da nessi solo calcolanti o da rapporti di superficiali di seduzione e reciproca manipolazione.

2. Corpo glorioso e corpo inglorioso nel pensiero di K. Marx
Il percorso di Karl Marx per giungere a una teorizzazione profonda e adeguata di ciò che taluni oggi chiamerebbero biopolitica, quale governo dei corpi viventi, è stato non facile ed ha avuto bisogno di almeno un quindicennio di elaborazione, passando attraverso il lutto della sconfitta del 1848 e la lunga elaborazione che di questo lutto Marx fece attraverso lo studio londinese del Capitale e dell’economia politica. I passaggi che quel percorso ha attraversato li schematizzo attraverso le diverse visioni del corpo che a me appaiono caratterizzare l’opera marxiana nel suo complesso.
a) La prima concezione di ciò che sia «corpo», secondo quanto Marx teorizza nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, vede una distinzione tra corpo fisico e corpo come tramite della vita di genere. Il corpo, ristretto alla mera riproduzione biologica e fisica di sé, è infatti per quel Marx un corpo disumanizzato che non si distingue dalle nature animali, volte, hegelianamente, alla mera riproduzione di sé come individui singoli e chiusi nel loro interesse egoistico. È la corporeità meramente biologica, con la sua ripetizione sempre eguale, in cui è costretta e conclusa la vita dell’essere umano con il regime della proprietà privata, e massimamente con la società capitalistica, quando viene dissolto ogni legame comunitario e posto a principio della vita l’individualismo più estremo. Invece il corpo come tramite della vita di genere è il corpo che traduce e trasmette nel mondo oggettivo la natura di genere – ossia il carattere comunitario, universale, e perciò libero – che caratterizza e contraddistingue, tra tutti i viventi, la vita dell’essere umano.
L’uomo è un ente generico [Gattungswesen] non solo in quanto praticamente e teoreticamente fa suo oggetto il genere, sia il proprio che quello degli altri enti, ma anche […] in quanto egli si comporta con se stesso come col genere presente e vivente; in quanto si comporta con se stesso come col genere presente e vivente; in quanto si comporta con se stesso come con un ente universale e però libero4.
L’essere umano è un essere universale, non condizionato dalla nicchia naturale in cui è obbligata a svolgere e a ripetersi la vita animale e capace perciò di rendere corpo inorganico del suo corpo l’intera natura fuori di lui. La vera vita è quella che non vede negli oggetti dei meri mezzi per soddisfare bisogni utilitaristici e pratici. Bensì quella che elabora l’oggetto, facendone lo specchio e il testimone della capacità creativa e innovativa del genere umano. È solo la continuità di questo corpo di genere, in cui vengono superate tutte le opposizioni di soggetto/oggetto, natura/storia, spirito/materia, individuo/società, che garantisce una forma di vita adeguata all’essere umano, tant’è che solo in essa l’apparato sensoriale del vivente umano diventa veramente sensibile e percipiente, perché dilatato in un’estensione di campo universale che toglie ogni rigidità e discontinuità possibile tra interiorità ed esteriorità.
L’uomo non si perde nel suo oggetto solo se questo gli diventa oggetto umano o uomo oggettivo. Ciò è possibile solo quando questo oggetto gli diventi un oggetto sociale, ed egli stesso diventi un ente sociale come la società viene ad essere per lui in questo oggetto. […] così i sensi dell’uomo sociale sono altri da quelli dell’uomo asociale. È soltanto per la dispiegata ricchezza oggettiva dell’ente umano che la ricchezza della soggettività umana sensibilità, che un orecchio musicale, che un occhio, per la bellezza della forma, in breve le fruizioni umane, diventano dei sensi capaci, dei sensi che si affermano quali umane forze essenziali5.
Il corpo fisico, nella sua naturalità immediata, si oppone al corpo di genere, è altro, alienatobda esso. Laddove è solo il corpo di genere che consente di includere dentro il di sé il corpo fisico, sottraendolo alla sua fisicità materiale ed espandendolo alla misura universale dell’essenzabdi cui è contenitore.
b) Nell’Ideologia tedesca, con una tematizzazione che continua fino ai Grundrisse, la riflessione marxiana sul tema del corpo/bisogno continua a svolgersi secondo il paradigma dell’Individualismus versus Gattung (Individuo contra Genere), ma con una chiarificazione teorica ulteriore sul piano delle categorie e con un radicamento assai più deciso, che non nei Manoscritti economico-filosofici, di tale coppia concettuale sul terreno della storia. Sul piano delle categorie infatti Marx nella Deutsche Ideologie distingue nettamente tra «Praxis» ed «Arbeit». La Praxis, o Selbstbethätigung, o menschliche Thätigkeit è l’attività propriamente umana, in quanto è un agire in cui l’essere umano, inteso come individualità collettiva, conferma, nell’oggetto che elabora o nell’azione che compie, fondamentalmente se stesso, ossia la sua non dipendenza dal determinato e la sua capacità di universalizzazione. È l’agire in cui il soggetto, attraverso l’elaborazione dell’oggetto e del mondo materiale, elabora e produce se stesso, oggettivando nell’oggetto le proprie facoltà, non finite e limitate, di genere, ossia di specie vivente specifica e distinta da tutte le altre specie. È sinonimo, dunque di un agire che, nel suo essere in grado di non subire passivamente il dato naturale ed ambientale, implica necessariamente cooperazione e partecipazione collettiva: appunto di genere. Arbeit designa invece, con significato negativo, un agire finalizzato alla sola riproduzione materiale e corporea dell’essere umano nella sua individualità. Come tale, il lavoro è sempre attività passiva ed è sempre attività divisa: divisa perché separa l’individuo con il suo interesse egoistico da un interesse più generale e meno materiale e divisa, perché in questa assenza di dimensione collettiva e comunitaria, obbliga ognuno, attraverso la divisione del lavoro, ad un’operazione solo parziale.
Per il Marx della Deutsche Ideologie la storia finora è sempre stata storia dell’Arbeit: dunque storia caratterizzata dalla divisione del lavoro e delle sue strutturali e ineliminabili scissioni e contrapposizioni (di classe). Ma con la maturazione della moderna società capitalistica il convincimento è che sarebbe ormai prossimo il passaggio dell’umanità dall’esperienza dell’Arbeit a quella della Thätigkeit, giacché nella stessa dimensione dell’Arbeit starebbero giungendo a compimento le condizioni del suo superamento. Il capitalismo infatti, sviluppatosi fino alla creazione del mercato mondiale, universalizza l’individuo, lo affranca da ogni limite di identità locale e nazionale, e lo pone in una condizione di «dipendenza universale» dalla produzione materiale (ma anche spirituale) di tutto il mondo. Il capitalismo, giunto alla sua maturità, produce una relazione di scambio universale, uno sviluppo e un intreccio universale delle forze produttive, a cui partecipa ciascuno nella connessione con tutti gli altri. Produce perciò un’antropologia, anch’essa, universale. Produce cioè un individuo sociale, un individuo totale, non confinato a un contesto, a una natura e identità particolari, bensì che fa esperienza, al di là del limite, dell’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti. È così un individuo che, per la dilatazione mondiale del suo corpo di relazioni, supera ogni limite della natura e della sua vita biologica, per dar luogo a una natura superiore e artificiale in cui l’incontro con l’altro è sempre e solo intensificazione e arricchimento del proprio sé. È l’individuo dilatato nel corpo mondiale ed artificiale dell’economico e della rinnovata antropologia di bisogno e godimento che ne deriva – l’individuo dilatato e universalizzato nel corpo del comune, l’individuo del genere storico ed umano – che trascende e supera l’individuo del corpo e del genere naturale e biologico.
Solo che nel capitalismo questo sviluppo universale delle forze produttive e dell’individuo totale che con esse si forma si svolge nel quadro del rapporto generalizzato della proprietà privata e della divisione della società in classi. Per cui al singolo la realizzazione storica dell’universale e della sua massima potenza di vita non può che apparire nella forma estraniata di un potere che lo domina e lo aliena. Toccherà unicamente al comunismo, e alla sua rivoluzione, affrancare la realtà di un’universalità sovranaturalistica dell’umano già raggiunta nella concretezza della storia dalla forma solo superficiale di una forma giuridica del possesso e della proprietà basata ancora sulla separazione del privato dal collettivo e sulla concorrenza atomistica di ciascuno contro tutti.
c) Solo con Das Kapital ed altri luoghi dei Grundrisse Marx propone un altro paradigma della corporeità, che si allontana radicalmente dal paradigma Individualità contra Universalità, Privato contra Comune, Natura contra Storia o contra Kultur, che abbiamo visto essere a base dei significati a) e b).
Nel Capitale infatti il corpo è identificato con la forza-lavoro, con l’identità cioè di un individuo astratto, la cui astrazione ora non concerne più la separazione del proprio interesse privato dall’interesse generale, non concerne più cioè la separazione dell’individuo dal «genere» bensì da ogni possibile forma di proprietà e di possesso dei mezzi di produzione (terra, strumenti e macchine, materie prime). La teorizzazione marxiana del corpo come forza-lavoro rimanda dunque alla separazione di un gruppo sociale da ogni possibile rapporto con il mondo-ambiente a motivo dell’interposizione tra esso e l’Umwelt di un altro o più gruppi sociali che di quel mondo si fanno proprietari e possessori monopolisti. Con il che si crea sul piano storico-sociale, non l’individuo astratto e separato da tutti gli altri individui, ma una classe sociale libera – nel senso dell’esser priva - da ogni rapporto con il mondo-ambiente e dunque capace di vendere solo il proprio corpo/lavoro come unica fonte di sostentamento della propria vita.
La separazione della proprietà dal lavoro appare come legge necessaria di questo scambio tra capitale e lavoro. Il lavoro posto come il non-capitale in quanto tale è: 1) lavoro non-materializzato, concepito negativamente, (esso stesso ancora materiale; il non materiale stesso in forma oggettiva). Come tale esso è non-materia prima, non-strumento di lavoro, non-prodotto grezzo: il lavoro separato da tutti i mezzi e gli oggetti di lavoro, da tutta la sua oggettività. È il lavoro vivo esistente come astrazione da questi momenti della sua realtà effettiva (e altresì come non valore); questa completa spoliazione, esistenza del lavoro priva di ogni oggettività, puramente soggettiva. Il lavoro come povertà assoluta: povertà non come indigenza, ma come totale esclusione della ricchezza materiale6.
Tale natura del rapporto tra lavoro moderno e mondo esterno non può non implicare, a sua volta, una peculiare relazione tra lavoro moderno e mondo interno. L’assenza di relazioni-mediazioni con il mondo esterno implica infatti che il freie Arbeit sia caratterizzato per Marx da una pari assenza di relazione-mediazione riguardo al nesso tra il corpo e la persona che di quel lavoro è portatrice. La persona, senza relazione-mediazione con il mondo esterno, è costretta infatti ad essere solo corpo, «immediata corporeità». Cioè nel lavoro vivente o vivo («lebendige Arbeit»), come anche Marx qui lo chiama, corpo e persona coincidono immediatamente, senza distanza possibile tra di loro. Senza che la persona appunto possa avere un’estensione di realtà e un ambito di senso in qualche modo maggiore od eccentrico rispetto al corpo.
O anche [il lavoro], in quanto è il non-valore esistente e quindi un valore d’uso puramente materiale, che esiste senza mediazione, questa materialità può essere soltanto una materialità non separata dalla persona: una materialità coincidente con la sua corporeità immediata. Essendo materialitàassolutamente immediata, essa è altrettanto immediatamente non-materialità. In altri termini: unamaterialità che non si colloca fuori dell’esistenza immediata dell’individuo stesso7.
L’individuo, in quanto diviso dal mondo esterno, è perciò non divisibile in se stesso, è corpo = persona, o persona = corpo. Immediata «materialità» che, in quanto incarnata e coincidente con una persona, è definibile anche come immediata «non-materialità».
Tale invasività corporea nella persona, tale riduzione della persona a mero corpo, fa dell’essere umano un corpo la cui mente non può mai nascere all’interno ma è invece sempre deposta all’esterno. Sia come imposizione del bisogno e comando del consumo nella sfera della riproduzione sia come parte organica del sistema forza-lavoro/macchina, dove l’uso della forza lavoro è sincronico ai comandi e alle schede di lavoro del macchinario. In entrambi i luoghi della vita la forza-lavoro si costituisce perciò come un corpo senza mente propria e che perciò può vivere solo come subalterno ad una mente esterna.
3. Una produzione capitalistica di soggettività8
A mio parere oggi comprendere la produzione capitalistica di soggettività che connota il postmoderno significa compiere, analogamente al percorso maxiano, un cammino critico nei confronti delle rappresentazioni più diffuse e più falsificanti sulla tipologia del lavoro che viene messa al lavoro con l’attuale rivoluzione tecnologica affidata all’informatica. Dalla tesi infatti, propria delle ideologie postmoderniste, che l’Essere, per dirla con il linguaggio sintetico della filosofia, sia essenzialmente linguaggio e che la realtà sia essenzialmente informazione deriva infatti la celebrazione del nuovo processo lavorativo a forte base automatica e informatica come ambito di un agire ormai anch’esso solo, o comunque prevalentemente comunicativo e di conseguenza l’immagine del nuovo produttore come soggetto affrancato dal peso di una prassi legata al mondo materiale e partecipe perciò di un general intellect, collettivo e comune, di cui il suo lavorare con informazioni sarebbe parte organica.
Non a caso del resto il mito del general intellect è sempre stato uno dei concetti più usati e abusati del marxismo prima operaista, ed oggi postoperaista, che dovendo autonomizzare e anticipare comunque l’esistenza di un soggetto antagonista rispetto ai condizionamenti e al peso della struttura economica capitalistica, ha approfittato di alcune delle pagine più tristamente produttivistiche e positivistiche di Marx per celebrare lo spontaneo unificarsi delle menti subalterne, attraverso una supposta trasparenza immateriale ed infinita della mente, in una comunità d’intellettualità scientificamente alternativa.
Alla base di tale mitologia dell’Intelletto e del soggettivismo prometeico che le connota sta, a mio avviso, la rimozione radicale del marxismo dell’astrazione reale. Ed è proprio la rimozione di una visione del sistema del capitale come fondata sull’astrazione reale a far sì che vengano proiettati, in uno spazio produttivo svuotato dalla valorizzazione che invece lo sostanzia, filosofemi ideologici propri dell’ermeneutica e della linguistica post-strutturale: il cui scopo è di nuovo quello di annullare la realtà specifica della produzione di capitale e di generare l’immagine sublimata di una dematerializzazione dello spazio produttivo vista come alleggerimento delle funzioni lavorative e come liberazione del lavoratore.
Tra moderno e postmoderno dunque, secondo la tesi che qui si propone, si dà discontinuità, non quanto a modo di produzione e a formazione economico-sociale, bensì quanto a tipologia di lavoro astratto erogato e quanto ad effetto generale di feticismo che la ricchezza astratta del capitale e la sua accumulazione sono in grado di mettere in atto. Il passaggio da un’accumulazione di lavoro astratto, che mette in scena e in gioco il corpo, a un’accumulazione che mette in scena la mente, conduce infatti il capitale a una sorta di accentuata invisibilità. Al passaggio cioè da una coreografia esterna, fatta di materia e di spazialità, ad una coreografia interna e immateriale, fatta di operazioni e funzioni calcolanti-discorsive. E appunto in tale dislocazione dall’esterno all’interno, il capitale assume una configurazione sempre meno sensibile-percettiva, per inaugurare una modalità d’esistenza più impalpabile e virtuale. È il fantasmatizzarsi del capitale, il suo farsi puro spirito, come realizzazione di una tecnologia e di un’organizzazione di sé ancor più adeguati al suo concetto, secondo la definizione marxiana di ricchezza astratta – cioè non confinabile in nessuna materia particolare – che accumula se stessa.
A tale farsi interiore e fantasmatico del capitale, a tale suo smaterializzarsi e rendersi pressoché invisibile, corrisponde un eccesso di visibilità nella superficie delle cose e dell’esperire. La tecnologia informatica conduce infatti a un tale svuotamento-colonizzazione della mente da parte dell’astratto da privarla della propria dimensione di profondità e di renderla funzionale alla sola dimensione di acquisizione-elaborazione di dati esteriori. Per cui all’interiorizzarsi del capitale si accompagna una produzione capitalistica di soggettività capace di esperire il mondo solo nella sua trama di superficie, quale serie di eventi e di fatti, che, senza rimandare a nessi più interni, si concludono nell’attimo appariscente della loro vita accidentale e seriale.
La produzione capitalistica di soggettività, attraverso la nuova tipologia dell’accumulazione dell’astratto, produce dunque una soggettività esposta più al dominio della quantità che non all’esperienza della qualità. Cioè più un io che si fa spettatore e fruitore di pezzi di mondo sciolti da ogni vincolo reciproco che non un io capace di sintetizzare e riunificare il proprio esperire attraverso valenze significative di relazione.
È un tipo di individualità definibile – in conformità all’orizzonte storico del capitale-quantità – come un «io-quantità», ben esplicabile attraverso la categoria hegeliana della cattiva infinità, in quanto io che, non riuscendo a padroneggiare, attraverso sintesi, la molteplicità del proprio mondo, interno ed esterno, è destinato a trascorrere in «un assoluto divenir altro», in un allontanamento da sé che si traduce nell’essere colonizzato dall’«esteriore».
Vale a dire che, con la produzione capitalistica di soggettività, si genera un individuo catturato più dall’esterno che non dall’interno e incapace perciò di far riferimento alla propria interiorità emozionale come luogo fondamentale, in ultima istanza, di valutazione e di sintesi del proprio vivere. E dove solo la sovradeterminazione retorica e artificiale, «isterica» è stato giustamente detto, di un mondo esterno, frantumato in immagini di superficie, compensa, sul piano degli affetti, l’eclisse di questo fondamentale senso interno. È l’individualità postmoderna che, priva dell’interiorità dell’emozione e della memoria, trasferisce l’investimento affettivo, rimosso se non addiritura forcluso, nella sovradeterminazione, imbellettata ma vuota, del mondo esteriore.
Ora appunto per comprendere le conseguenze di un’erogazione costante di attività astratta sulla soggettività astratta, nella quale viene meno ogni capacità di dar senso e forma profonde al proprio agire, – per porre come problema fondamentale dell’oggi il nesso tra eclisse dell’emotività e suo trasfert sull’esterno di un mondo ridotto a pellicola di superficie – il marxismo dell’astratto obbliga ad abbandonare il marxismo della contraddizione e dell’antropologia semplificata del giovane Marx, per il quale alienazione e sfruttamento dell’essere umano non possono non generare una forza sociale rivoluzionaria, pronta a recuperare la sua essenza e dignità conculcata e a contraddire l’assetto economico e politico dominante.
Questa teoria meccanica e automatica del conflitto sociale nasce, nel Marx prima del Capitale, dalla valorizzazione indiscussa dell’homo faber, quale soggettività indiscussa e prometeica del materialismo storico, e da una conseguente visione delle forze produttive come elemento comunque progressivo e accumulativo della storia umana. Per cui a muovere dalla centralità dell’uomo produttore e dalla sua sempre più dispiegata e collettiva produttività non potrebbe non darsi, in presenza di rapporti sociali di proprietà e di distribuzione privata, un inevitabile configgere tra la socialità del produrre e l’appropriazione individualistica di una ricchezza collettivamente generata. Per dire insomma che nel Marx della contraddizione, quale istituzione fondativa della società moderna, opera la mitologia di un soggettività umana, fabbrile e comunitaria, presupposta al concreto svolgersi delle realtà storico e sociali9, che non può non costituirsi come opposizione e alterità irriducibile a qualsiasi relazione pratico-economica che presuma di tradurla da soggetto in oggetto, da soggetto in predicato del proprio agire e del proprio creare ricchezza. E quando il Marx maturo in un celebre passo dei Grundrisse afferma che il lavoro è il «non-capitale»10, torna ad assegnare al lavoro lo statuto di essere per principio altro, ossia ontologicamente eterogeneo e antagonista rispetto al capitale e alla sua pretesa di dominio incontrastato e assoluto.
Invece il passaggio alla tipologia dell’accumulazione flessibile sottrae a mio parere ogni legittimità al paradigma della centralità operaia, non tanto o non solo nel senso della riduzione drastica del lavoro manuale nell’ambito dei settori economici tecnologicamente più avanzati, quanto e soprattutto nel senso socio-politico dell’esistenza di una classe dotata, malgrado la violenza dello sfruttamento e dell’espropriazione cui viene sottoposta, di un’autonomia di origine e di funzione che la renderebbe comunque eccedente rispetto alla totalizzazione capitalistica. Il postfordismo non toglie la centralità del nesso forza lavoro-capitale come chiave di volta della società contemporanea ma toglie l’illusione di una forza lavoro quale per definizione soggettività collettiva e antagonista. Anzi pone una realtà paradossalmente rovesciata, quale quella di una forza lavoro mentale che presume di sapersi soggetto, non a dispetto e in opposizione, ma proprio nella coincidenza con il suo svuotamento e il suo essere reso oggetto.
Per cui, senza dimenticare nulla di un secolo di lotte dell’operaio fordista e dell’enorme permanenza del lavoro manuale nell’attuale economia-mondo, quello che qui preme sottolineare è che, nel passaggio dal fordismo al postfordismo, il capitalismo a base tecnologica informatica rende a sé più facilmente interno, ed omogeneo al proprio processo di valorizzazione, il lavoro. Possiamo aggiungere, non reprimendo o violentando la soggettività, bensì impedendole di nascere e costituirsi in quanto tale. O per dir meglio, negandola proprio attraverso la messa in scena di un processo fittizio di soggettivazione e la valorizzazione di null’altro che la sua medesima silhouette.
Ma affermare questo, non può non avere, com’è evidente, conseguenze profonde quanto a decostruzione/ricostruzione dell’intero apparato categoriale di Marx. Giacché l’espulsione o la marginalizzazione della categoria della contraddizione rispetto alla centralità di quella dell’astrazione implica il rifiuto di ogni soggettività presupposta, qual è quella che invece a mio avviso continua ad operare in tutta l’opera di Marx. Ed implica, a muovere dalla cruda realtà della nostra moderna postmodernità, l’assunzione in tutta la sua più ampia serietà del Capitale quale totalità, che produce, come si diceva, il triplice piano dei beni mercantili, dell’asimmetria delle disuguaglianze sociali, e dell’immaginario dissimulatorio attraverso cui quella asimmetria deve essere negata e coperta. Ricordando, a chi critica tale analisi di reiterare il vecchio discorso sul totalitarismo dell’integrazione capitalistica della scuola di Francoforte, che autori come Adorno, Horkheimer, Marcuse non hanno fatto mai del processo di lavoro e dello specifico uso capitalistico della forza-lavoro il luogo generativo della socializzazione e di una totalizzazione inclusiva persino della produzione delle forme di coscienza, interessati com’erano più al capitalismo della circolazione, del feticismo della merce, dell’omologazione dei consumi e dell’industria culturale.
Invece io credo che, muovendo dal modo in cui l’astratto pervade oggi e svuota le nostre vite consegnandole alla compensazione isterica di un fantasma di soggettività, s’illumina di verità, con un potente effetto di retroazione storica, proprio la teorizzazione marxiana di Das Kapital come soggetto, di fondo unico e dominante, della storia moderna in quanto accumulazione, tendenzialmente senza fine, di ricchezza astratta. A patto però di porre questo Marx appunto contro il Marx della contraddizione operaia e proletaria, della soggettività presupposta dell’homo faber, del socialismo come esito necessario di una filosofia della storia fondata sullo sviluppo delle forze produttive, della concezione materialistica della storia come supposto predominio in ogni fase della storia e in ogni formazione sociale della materia di contro allo spirito. A patto cioè di liberarci della pretesa facilità di una contraddizione oggettiva e di collocarla invece nell’animo e nella mente della soggettività di Marx, quale certamente genio ed eroe eponimo della modernità, ma pensatore anche multiverso e contraddittorio, e dotato perciò di molte arretratezze accanto a profondissime intuizioni e concettualizzazioni. Senza alcuna intenzione, come talvolta è stato detto, di riscoprire, con il sovrappiù di un filologismo colto e accademico, la purezza originaria e incontaminata, al di là dei marxismi, del suo pensiero. Qui non si tratta di far rivivere, oltre le deformazioni di scuola e di partito, un Marx autentico, ma di far morire il Marx da sempre impari a pensare la modernità a fronte del Marx ancora vivo, anzi ogni giorno ancora più attuale.
Ma appunto pensare ciò che da sempre è vivo e ciò che è morto nell’opera di Marx significa, a mio avviso, liberare la sua matura critica dell’economia, quale scienza di un soggetto astratto e non-antropomorfo, dalle pastoie della filosofia della storia che pure il Moro ha intensamente concepito, quale divenire predeterminato di un soggetto antropomorfo e antropocentrico.
Detto questo, per i limiti di spazio in cui questo intervento va contenuto, non è possibile aggiungere altro e svolgerlo analiticamente. Deve perciò essere rinviata altrove la pars costruens del discorso: quella volta al futuro e alla configurazione di una soggettività, individuale e collettiva, che possa farsi carico, ma in modo profondamente diverso ed originale, degli ideali di emancipazione e di trasformazione sociale delle generazioni e delle classi subalterne che ci hanno preceduto.
Qui posso solo dire che non potrà darsi ipotesi alcuna di fuoriuscita storica dal capitalismo se non si abbandona il materialismo spiritualistico e fusionale dell’antropologia di Marx e non la si sostituisce con un nuovo materialismo che attinga come sua fonte fondamentale d’ispirazione alla psicoanalisi. Come ho già detto altrove
11, la psicoanalisi ha complicato enormemente l’antropologia dell’umano, perché ha scoperto e teorizzato che prima dell’alterità orizzontale, della relazione cioè con gli altri esseri umani, il principio dell’alterità è interiore e si dà per ciascuno di noi nella compresenza e nell’irriducibilità del corpo alla mente. Ossia nel convincimento che la mente e il pensiero nascano nell’essere umano con il compito primario di dare coerenza e padroneggiare la complessità impulsiva e riproduttiva della vita corporea. E che tale costruzione verticale della soggettività sia, nello stesso tempo, inscindibilmente intrecciata con la sua costruzione orizzontale, quanto cioè a necessità dell’essere riconosciuta, accolta e legittimata da un’altra (o altre) soggettività.
Senza muovere da tale nuovo materialismo, che integra i tradizionali bisogni materiali con il bisogno di ciascuno al riconoscimento della propria irripetibile singolarità, non ci potrà essere, io credo, nessuna proposta antropologica e politica capace di contrastare la messa in gioco della falsa soggettivazione posta in essere dall’astrazione capitalistica. Per questo il marxismo dell’astratto lascia cadere la vieta antropologia giovanil-marxiana e si apre alla fecondazione della scienza antropologica più innovativa del Novecento qual è stata ed è la psicoanalisi.
Ma di tutto questo sarà bene argomentare altrove, con spazi e moduli analitici più appropriati.

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1 Su ciò cfr. il mio saggio Al di là di una logica del sì e del no, in «Psicoterapia e istituzioni» 1 (1998)IV, pp. 61-76. Ma sul problema del nesso mente-corpo in riferimento alla questione del «senso» cfr. in particolare A. B. Ferrari, L’eclissi del corpo. Un’ipotesi psicoanalitica, Roma, Borla, 1991 e dello stesso autore Adolescenza. La seconda sfida, Roma, Borla, 1994.
2 Cfr. E. Rullani, La conoscenza come forza produttiva: anatomia del postfordismo, in L. Cillario-R. Finelli, Capitalismo e conoscenza. L’astrazione del lavoro nell’era telematica, Roma, manifestolibri, 1998, p. 140.
3 Ibidem.
4 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, tr. it. di G. della Volpe rivista da N. Merker, in K. Marx-F. Engels, Opere, III, Roma, Editori Riuniti, 1976, pp. 301-302.
5 Ivi, pp. 230-231.
6 K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica («Grundrisse»), tr. it. di G. Backhaus, I, Torino, Einaudi, 1976, p. 244.
7 Ibidem.
8 Per l’introduzione di questa espressione cfr. D. Balicco, Non parlo a tutti, Franco Fortini intellettuale politico, Roma, manifestolibri, 2006.
9 Cfr. su ciò E. Screpanti, Comunismo libertario. Marx, Engels e l’economia politica della liberazione, Roma, manifestolibri, 2007, pp. 32-44. Sull’organicismo e il comunitarismo del giovane Marx, che assegnano, a ben vedere, una fondazione spiritualistica al suo preteso materialismo mi permetto di rinviare al mio Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Torino, Bollati Boringhieri, 2005.
10 K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica («Grundrisse») cit., p. 244.
11 Cfr. R. Finelli, Il diritto a una prassi futura, in R. Finelli-F. Fistetti- F. Recchia Luciaini-P. Di Vittorio (a cura di), Globalizzazione e diritti futuri, Roma, manifestolibri, 2004, pp. 15-28.

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