1. Affettività e postmodernità
Il
postmoderno nasce quando oggetto del dominio del capitale sulla forza-lavoro
cessa di essere il «corpo» e comincia ad essere la «mente». Quando cioè
funzione fondamentale del processo produttivo per quanto concerne la
forza-lavoro è la subordinazione e l’omologazione della coscienza. Sia che si
tratti infatti di erogazione di energia lavorativa alla macchina informatica
sia che si tratti di partecipazione alle procedure della cosiddetta «qualità
totale», ciò che è in gioco nella sussunzione reale della forza-lavoro al
capitale non è più la materia ma lo spirito del lavoratore. L’intelligenza di
questi, la sua capacità di scelta, la sua intera complessità
emozionale-intenzionale è ciò che infatti ora serve al capitale da quando
l’automazione unita all’informatica espelle forza-lavoro manuale e richiede
forza-lavoro mentale e da quando la filosofia dell’azienda richiede un lavoro
riflessivo, capace cioè di assumere il proprio costante miglioramento a oggetto
di se stesso. In particolare la macchina informatica richiede una forza lavoro
mentale a sé particolarmente subalterna ed omogenea, essendo la sua
caratteristica fondamentale quella di collocare una serie enorme d’informazioni
al di fuori del cervello umano e di dar luogo così a una mente artificiale di
cui quella umana diventa solo funzione e appendice.
Almeno
appare esser tale nel lavoro salariato o nel lavoro autonomo appaltato al
capitale, laddove è ampliamento di memoria a disposizione di un soggetto
elaboratore e creativo solo nel caso di lavori privati e ad alto contenuto di
professionalità. Così la macchina dell’informazione applicata a processi
produttivi capitalistici istituisce un sistema macchina-forza-lavoro che
richiede erogazione di lavoro astratto: cioè di lavoro che, privo di coscienza
del senso complessivo delle informazioni che organizzano e comandano il
processo produttivo, immette risposte ed elaborazioni già predeterminate e
precodificate.
In tal modo
mentre il lavoro astratto tayloristico-fordistico era conseguenza di una
occupazione totale del corpo da parte dell’automatismo macchinico, nel nuovo
lavoro astratto è la mente che viene occupata e pervasa da un codice e una
semantica che non hanno nulla a che fare con il corpo della forza-lavoro in
questione.
In una
condizione non patologica e scissa dell’essere umano – qual’è certo non quella
vissuta dalla forza-lavoro messa in opera dal capitale – il senso del vivere e
dell’agire è dato fondamentalmente da una relazione, in cui il
corporeo-emozionale, compresente ma irriducibile al mentale, rappresenta la
fonte mai esauribile dell’attività interpretativa ed elaborativa della mente:
in una costituzione verticale del senso che s’integra con quella orizzontale
derivante dal nesso del medesimo individuo con le altre soggettività1. Nel nuovo tipo di lavoro invece il
sistema macchina informatica-forza-lavoro richiede una separazione radicale,
opposta a quella del lavoro taylorista-fordista, della mente dal corpo:
separazione che consegna la mente umana a una semantica decorporeizzata e
anaffettiva. Del resto la sintassi del linguaggio informatico, costruita sulla
logica binaria dell’alternanza tra il sì e il no, riproduce d elabora il mondo
della vita secondo una forma astratta, perché priva di contrasti e
contraddizioni. L’esclusione cioè del sì dal no, che sta a basi della
sintassi informatica, impedisce d’esprimere l’ambivalenza che strutturalmente
connota l’esperienza emotiva e proprio per questo può essere principio di un
mondo informatizzato il cui orizzonte è quello della certezza analitica,
anziché quello dialettico e multiverso dell’esperienza concreta. L’astrazione
del nuovo lavoro mentale è perciò quella di una mente la cui attenzione e cura,
astratta dal senso e dal fondamento della corporeità, è tutta assorbita da un
universo di immagini e simboli alfa-numerici, attraverso la cui apparente
neutralità ed oggettività si dispone il senso e il comando di un’organizzazione
del processo produttivo volto, come sempre, alla valorizzazione. L’informazione
in un processo di lavoro capitalisticamente strutturato non è mai solo
descrittiva ma è sempre anche prescrittiva: ordina cioè un codice di senso
predeterminato che sottrae alla forza-lavoro in questione, per quanto complessa
sia la sua funzione, capacità autonoma d’innovazione e di creazione di senso.
A questa
teorizzazione del nuovo lavoro mentale come conferma della teoria marxiana
dell’astrazione reale si oppongono tutte le concezioni che nella descrizione
dei nuovi processi economici hanno parlato di «riscossa della varianza e
dell’indeterminazione»2, cioè di
quelle visioni che accanto alla permanenza di modalità fortemente astratte e
standardizzate hann osottolineato la funzionalità e la diffusione di saperi
sempre più concreti, circostanziati e non omologabili tra di loro come mezzi
indispensabili per affrontare la sempre maggiore complessità, articolazione e
relazione del mondo economico contemporaneo. Secondo queste visioni i contesti
di produzione e di mercato diverrebbero nell’economia postfordista, per
l’organizzazione a rete che la connota, sempre più complessi e differenziati:
dunque non standardizzabili e affrontabili attraverso automatismi, ma tali che
nella loro continua modello variazione e differenza rimanderebbero, per essere
affrontati e risolti, alla complessità e all’elasticità proprie solo
dell’esperienza e della mente umana. Ci sarebbe bisogno perciò di un sapere
sempre più contestuale e concreto che immetterebbe nell’economia moderna una
fortissima tendenza verso l’individualizzazione riducendo di gran lunga la
validità scientifica del modello marxiano dell’astrazione reale, il quale
ha potuto avere senso esplicativo del reale solo per quanto concerne il
capitalismo ottocentesco ma che già con l’organizzazione fordista si mostra
insufficiente a spiegare la complessificazione del sapere e dell’esperienza che
la grande fabbrica con i capi, con i tecnici, con i managers, nel suo rapporto
con i servizi ad essa connessi pone in essere.Ma, si sottolinea, è in
particolare con il postfordismo che aumenterebbe l’efficacia del lavoro e del
sapere concreto rispetto a modelli standardizzati di comportamento: ora è
necessario ricontestualizzare costantemente l’astratto nel concreto, per dare
alla produzione, alla distribuzione, alla vendita, al marketing,
all’innovazione tecnologica e commerciale quel grado di elasticità, di costante
adattabilità, capacità penetrativa che la nuova struttura del mercato richiede.
Dagli anni sessanta inizia la stagione
della maturità e poi (con gli anni settanta) del declino del paradigma
fordista. I servizi, legati ai contesti assai più della manifattura, diventano
l’asse portante del capitalismo industriale, è il mezzo decisivo del confronto
competitivo. Le piccole imprese e i distretti, facendo valere esperienze di
learning by doing uniche, distintive, mostrano quanto siano importanti i
contesti (culturali, territoriali, personali) nella produzione di valore. Le
stesse grandi imprese cessano di usare schemi centralizzati, per disseminare
sul territorio intelligenze strategiche autonome (businnes units) cui si
dà mandato di costruire dal basso il contesto di relazioni più appropriato con
l’esterno (outsourcing, alleanze, contrattazione aziendale, negoziazione
con la pubblica amministrazione)3.
Chi ragiona
in questo modo non mette sufficientemente a fuoco, a mio parere, la mutazione
antropologica che le nuove tecnologie basate sull’informatica stanno invece
progressivamente producendo e il tipo di soggettività «concreta» che stanno
mettendo in campo: una soggettività legata al capitale sempre meno da rapporti
di comando e dominio e sempre più da strategie di implicazione e
partecipazione. Una soggettività il cui nesso con l’azienda è sempre meno di
subordinazione-imposizione e sempre più di appartenenza e identificazione. Ma
soprattutto la nuova organizzazione postfordista della produzione produce una
soggettività capitalistica in cui muta radicalmente il proprio modo di
percepire la realtà, in quanto ogni presunto dato concreto della sua esperienza
è fin dall’inizio percepito secondo un linguaggio formale-numerico, che gli
sottrae ogni dimensione qualitativo-emozionale e lo traduce invece in un
contesto quantitativo-calcolante. Così se già l’identicazione con l’azienda, grande
o piccola che sia, con l’esigenza cioè del profitto e della sua accumulazione,
produce già una profonda limitazione dei modi possibili di esperire il mondo, è
proprio la stessa struttura e tipologia della nuova tecnologia informatica che
fa del lavoratore, presuntivamente concreto e per quanto autonomo e decentrato
esso possa essere da una struttura centralizzata, un soggetto essenzialmente
calcolante che percepisce ed elabora il mondo secondo trame e connessioni di
senso quantitative, ossia già provviste di un elevatissimo grado di
standardizzazione e di riduzione qualitativa.
Dunque non
si parte dal concreto per giungere poi all’astratto, non si parte da
un’esperienza di vita che solo successivamente giungerebbe ad essere
formalizzata e automatizzata, come vogliono anche qui alcuni apologeti che
vedono nel postfordismo e nel postmoderno una presunta epoca della riscossa
della «varianza» e dell’«indeterminazione». Bensì da un concreto che fin
dall’inizio è percepito e valutato secondo parametri astratti di quantificazione
e di matematizzazione, in cui il mondo della vita, cioè le relazioni di
relazioni tra uomini ed uomini e tra uomini e mondo vivente, cede la scena a
una rappresentazione atomistica ed infinitamente moltiplicata di individui e di
cose, legati tra loro o da nessi solo calcolanti o da rapporti di superficiali
di seduzione e reciproca manipolazione.
2. Corpo glorioso e corpo inglorioso nel pensiero di K. Marx
2. Corpo glorioso e corpo inglorioso nel pensiero di K. Marx
Il percorso
di Karl Marx per giungere a una teorizzazione profonda e adeguata di ciò che
taluni oggi chiamerebbero biopolitica, quale governo dei corpi viventi, è stato
non facile ed ha avuto bisogno di almeno un quindicennio di elaborazione,
passando attraverso il lutto della sconfitta del 1848 e la lunga elaborazione
che di questo lutto Marx fece attraverso lo studio londinese del Capitale
e dell’economia politica. I passaggi che quel percorso ha attraversato li
schematizzo attraverso le diverse visioni del corpo che a me appaiono
caratterizzare l’opera marxiana nel suo complesso.
a) La prima
concezione di ciò che sia «corpo», secondo quanto Marx teorizza nei Manoscritti
economico-filosofici del 1844, vede una distinzione tra corpo fisico e
corpo come tramite della vita di genere. Il corpo, ristretto alla mera
riproduzione biologica e fisica di sé, è infatti per quel Marx un corpo
disumanizzato che non si distingue dalle nature animali, volte, hegelianamente,
alla mera riproduzione di sé come individui singoli e chiusi nel loro interesse
egoistico. È la corporeità meramente biologica, con la sua ripetizione sempre
eguale, in cui è costretta e conclusa la vita dell’essere umano con il regime
della proprietà privata, e massimamente con la società capitalistica, quando
viene dissolto ogni legame comunitario e posto a principio della vita l’individualismo
più estremo. Invece il corpo come tramite della vita di genere è il corpo che
traduce e trasmette nel mondo oggettivo la natura di genere – ossia il
carattere comunitario, universale, e perciò libero – che caratterizza e
contraddistingue, tra tutti i viventi, la vita dell’essere umano.
L’uomo è un ente generico [Gattungswesen]
non solo in quanto praticamente e teoreticamente fa suo oggetto il genere, sia
il proprio che quello degli altri enti, ma anche […] in quanto egli si comporta
con se stesso come col genere presente e vivente; in quanto si comporta con se
stesso come col genere presente e vivente; in quanto si comporta con se stesso
come con un ente universale e però libero4.
L’essere
umano è un essere universale, non condizionato dalla nicchia naturale in cui è
obbligata a svolgere e a ripetersi la vita animale e capace perciò di rendere
corpo inorganico del suo corpo l’intera natura fuori di lui. La vera vita è
quella che non vede negli oggetti dei meri mezzi per soddisfare bisogni
utilitaristici e pratici. Bensì quella che elabora l’oggetto, facendone lo
specchio e il testimone della capacità creativa e innovativa del genere umano.
È solo la continuità di questo corpo di genere, in cui vengono superate
tutte le opposizioni di soggetto/oggetto, natura/storia, spirito/materia,
individuo/società, che garantisce una forma di vita adeguata all’essere umano,
tant’è che solo in essa l’apparato sensoriale del vivente umano diventa
veramente sensibile e percipiente, perché dilatato in un’estensione di campo
universale che toglie ogni rigidità e discontinuità possibile tra interiorità
ed esteriorità.
L’uomo non si perde nel suo oggetto
solo se questo gli diventa oggetto umano o uomo oggettivo. Ciò è possibile solo
quando questo oggetto gli diventi un oggetto sociale, ed egli stesso diventi un
ente sociale come la società viene ad essere per lui in questo oggetto. […]
così i sensi dell’uomo sociale sono altri da quelli dell’uomo asociale. È
soltanto per la dispiegata ricchezza oggettiva dell’ente umano che la ricchezza
della soggettività umana sensibilità, che un orecchio musicale, che un
occhio, per la bellezza della forma, in breve le fruizioni umane, diventano dei
sensi capaci, dei sensi che si affermano quali umane forze essenziali5.
Il corpo
fisico, nella sua naturalità immediata, si oppone al corpo di genere, è
altro, alienatobda esso. Laddove è solo il corpo di genere che consente di
includere dentro il di sé il corpo fisico, sottraendolo alla sua fisicità
materiale ed espandendolo alla misura universale dell’essenzabdi cui è
contenitore.
b) Nell’Ideologia tedesca, con una tematizzazione che continua fino ai Grundrisse, la riflessione marxiana sul tema del corpo/bisogno continua a svolgersi secondo il paradigma dell’Individualismus versus Gattung (Individuo contra Genere), ma con una chiarificazione teorica ulteriore sul piano delle categorie e con un radicamento assai più deciso, che non nei Manoscritti economico-filosofici, di tale coppia concettuale sul terreno della storia. Sul piano delle categorie infatti Marx nella Deutsche Ideologie distingue nettamente tra «Praxis» ed «Arbeit». La Praxis, o Selbstbethätigung, o menschliche Thätigkeit è l’attività propriamente umana, in quanto è un agire in cui l’essere umano, inteso come individualità collettiva, conferma, nell’oggetto che elabora o nell’azione che compie, fondamentalmente se stesso, ossia la sua non dipendenza dal determinato e la sua capacità di universalizzazione. È l’agire in cui il soggetto, attraverso l’elaborazione dell’oggetto e del mondo materiale, elabora e produce se stesso, oggettivando nell’oggetto le proprie facoltà, non finite e limitate, di genere, ossia di specie vivente specifica e distinta da tutte le altre specie. È sinonimo, dunque di un agire che, nel suo essere in grado di non subire passivamente il dato naturale ed ambientale, implica necessariamente cooperazione e partecipazione collettiva: appunto di genere. Arbeit designa invece, con significato negativo, un agire finalizzato alla sola riproduzione materiale e corporea dell’essere umano nella sua individualità. Come tale, il lavoro è sempre attività passiva ed è sempre attività divisa: divisa perché separa l’individuo con il suo interesse egoistico da un interesse più generale e meno materiale e divisa, perché in questa assenza di dimensione collettiva e comunitaria, obbliga ognuno, attraverso la divisione del lavoro, ad un’operazione solo parziale.
b) Nell’Ideologia tedesca, con una tematizzazione che continua fino ai Grundrisse, la riflessione marxiana sul tema del corpo/bisogno continua a svolgersi secondo il paradigma dell’Individualismus versus Gattung (Individuo contra Genere), ma con una chiarificazione teorica ulteriore sul piano delle categorie e con un radicamento assai più deciso, che non nei Manoscritti economico-filosofici, di tale coppia concettuale sul terreno della storia. Sul piano delle categorie infatti Marx nella Deutsche Ideologie distingue nettamente tra «Praxis» ed «Arbeit». La Praxis, o Selbstbethätigung, o menschliche Thätigkeit è l’attività propriamente umana, in quanto è un agire in cui l’essere umano, inteso come individualità collettiva, conferma, nell’oggetto che elabora o nell’azione che compie, fondamentalmente se stesso, ossia la sua non dipendenza dal determinato e la sua capacità di universalizzazione. È l’agire in cui il soggetto, attraverso l’elaborazione dell’oggetto e del mondo materiale, elabora e produce se stesso, oggettivando nell’oggetto le proprie facoltà, non finite e limitate, di genere, ossia di specie vivente specifica e distinta da tutte le altre specie. È sinonimo, dunque di un agire che, nel suo essere in grado di non subire passivamente il dato naturale ed ambientale, implica necessariamente cooperazione e partecipazione collettiva: appunto di genere. Arbeit designa invece, con significato negativo, un agire finalizzato alla sola riproduzione materiale e corporea dell’essere umano nella sua individualità. Come tale, il lavoro è sempre attività passiva ed è sempre attività divisa: divisa perché separa l’individuo con il suo interesse egoistico da un interesse più generale e meno materiale e divisa, perché in questa assenza di dimensione collettiva e comunitaria, obbliga ognuno, attraverso la divisione del lavoro, ad un’operazione solo parziale.
Per il Marx
della Deutsche Ideologie la storia finora è sempre stata storia dell’Arbeit:
dunque storia caratterizzata dalla divisione del lavoro e delle sue strutturali
e ineliminabili scissioni e contrapposizioni (di classe). Ma con la maturazione
della moderna società capitalistica il convincimento è che sarebbe ormai
prossimo il passaggio dell’umanità dall’esperienza dell’Arbeit a quella
della Thätigkeit, giacché nella stessa dimensione dell’Arbeit
starebbero giungendo a compimento le condizioni del suo superamento. Il
capitalismo infatti, sviluppatosi fino alla creazione del mercato mondiale,
universalizza l’individuo, lo affranca da ogni limite di identità locale e
nazionale, e lo pone in una condizione di «dipendenza universale» dalla
produzione materiale (ma anche spirituale) di tutto il mondo. Il capitalismo,
giunto alla sua maturità, produce una relazione di scambio universale, uno sviluppo
e un intreccio universale delle forze produttive, a cui partecipa ciascuno
nella connessione con tutti gli altri. Produce perciò un’antropologia,
anch’essa, universale. Produce cioè un individuo sociale, un individuo totale,
non confinato a un contesto, a una natura e identità particolari, bensì che fa
esperienza, al di là del limite, dell’universalità dei bisogni, delle capacità,
dei godimenti. È così un individuo che, per la dilatazione mondiale del suo
corpo di relazioni, supera ogni limite della natura e della sua vita biologica,
per dar luogo a una natura superiore e artificiale in cui l’incontro con l’altro
è sempre e solo intensificazione e arricchimento del proprio sé. È l’individuo
dilatato nel corpo mondiale ed artificiale dell’economico e della rinnovata
antropologia di bisogno e godimento che ne deriva – l’individuo dilatato e
universalizzato nel corpo del comune, l’individuo del genere storico ed umano –
che trascende e supera l’individuo del corpo e del genere naturale e biologico.
Solo che nel
capitalismo questo sviluppo universale delle forze produttive e dell’individuo
totale che con esse si forma si svolge nel quadro del rapporto generalizzato
della proprietà privata e della divisione della società in classi. Per cui al
singolo la realizzazione storica dell’universale e della sua massima potenza di
vita non può che apparire nella forma estraniata di un potere che lo domina e
lo aliena. Toccherà unicamente al comunismo, e alla sua rivoluzione, affrancare
la realtà di un’universalità sovranaturalistica dell’umano già raggiunta nella
concretezza della storia dalla forma solo superficiale di una forma giuridica
del possesso e della proprietà basata ancora sulla separazione del privato dal
collettivo e sulla concorrenza atomistica di ciascuno contro tutti.
c) Solo con Das
Kapital ed altri luoghi dei Grundrisse Marx propone un altro
paradigma della corporeità, che si allontana radicalmente dal paradigma
Individualità contra Universalità, Privato contra Comune, Natura contra
Storia o contra Kultur, che abbiamo visto essere a base dei significati a) e
b).
Nel Capitale
infatti il corpo è identificato con la forza-lavoro, con l’identità cioè di un
individuo astratto, la cui astrazione ora non concerne più la separazione del
proprio interesse privato dall’interesse generale, non concerne più cioè la
separazione dell’individuo dal «genere» bensì da ogni possibile forma di
proprietà e di possesso dei mezzi di produzione (terra, strumenti e macchine,
materie prime). La teorizzazione marxiana del corpo come forza-lavoro rimanda
dunque alla separazione di un gruppo sociale da ogni possibile rapporto con il
mondo-ambiente a motivo dell’interposizione tra esso e l’Umwelt di un
altro o più gruppi sociali che di quel mondo si fanno proprietari e possessori
monopolisti. Con il che si crea sul piano storico-sociale, non l’individuo
astratto e separato da tutti gli altri individui, ma una classe sociale libera
– nel senso dell’esser priva - da ogni rapporto con il mondo-ambiente e dunque
capace di vendere solo il proprio corpo/lavoro come unica fonte di
sostentamento della propria vita.
La separazione della proprietà dal
lavoro appare come
legge necessaria di questo scambio tra capitale e lavoro. Il lavoro posto come
il non-capitale in quanto tale è: 1) lavoro non-materializzato,
concepito negativamente, (esso stesso ancora materiale; il non materiale stesso
in forma oggettiva). Come tale esso è non-materia prima, non-strumento di
lavoro, non-prodotto grezzo: il lavoro separato da tutti i mezzi e gli oggetti
di lavoro, da tutta la sua oggettività. È il lavoro vivo esistente come astrazione
da questi momenti della sua realtà effettiva (e altresì come non valore);
questa completa spoliazione, esistenza del lavoro priva di ogni oggettività,
puramente soggettiva. Il lavoro come povertà assoluta: povertà non come
indigenza, ma come totale esclusione della ricchezza materiale6.
Tale natura
del rapporto tra lavoro moderno e mondo esterno non può non implicare, a
sua volta, una peculiare relazione tra lavoro moderno e mondo interno.
L’assenza di relazioni-mediazioni con il mondo esterno implica infatti che il
freie Arbeit sia caratterizzato per Marx da una pari assenza di
relazione-mediazione riguardo al nesso tra il corpo e la persona che di quel
lavoro è portatrice. La persona, senza relazione-mediazione con il mondo
esterno, è costretta infatti ad essere solo corpo, «immediata corporeità». Cioè
nel lavoro vivente o vivo («lebendige Arbeit»), come anche Marx qui lo chiama, corpo
e persona coincidono immediatamente, senza distanza possibile tra
di loro. Senza che la persona appunto possa avere un’estensione di realtà e un
ambito di senso in qualche modo maggiore od eccentrico rispetto al corpo.
O anche [il lavoro], in quanto è il
non-valore esistente e quindi un valore d’uso puramente materiale, che esiste
senza mediazione, questa materialità può essere soltanto una materialità non
separata dalla persona: una materialità coincidente con la sua corporeità
immediata. Essendo materialitàassolutamente immediata, essa è altrettanto
immediatamente non-materialità. In altri termini: unamaterialità che non si
colloca fuori dell’esistenza immediata dell’individuo stesso7.
L’individuo,
in quanto diviso dal mondo esterno, è perciò non divisibile in se stesso, è
corpo = persona, o persona = corpo. Immediata «materialità» che, in quanto
incarnata e coincidente con una persona, è definibile anche come immediata
«non-materialità».
Tale
invasività corporea nella persona, tale riduzione della persona a mero corpo,
fa dell’essere umano un corpo la cui mente non può mai nascere all’interno ma è
invece sempre deposta all’esterno. Sia come imposizione del bisogno e comando
del consumo nella sfera della riproduzione sia come parte organica del sistema
forza-lavoro/macchina, dove l’uso della forza lavoro è sincronico ai comandi e
alle schede di lavoro del macchinario. In entrambi i luoghi della vita la
forza-lavoro si costituisce perciò come un corpo senza mente propria e che
perciò può vivere solo come subalterno ad una mente esterna.
3. Una produzione
capitalistica di soggettività8
A mio parere
oggi comprendere la produzione capitalistica di soggettività che connota il
postmoderno significa compiere, analogamente al percorso maxiano, un cammino
critico nei confronti delle rappresentazioni più diffuse e più falsificanti
sulla tipologia del lavoro che viene messa al lavoro con l’attuale rivoluzione
tecnologica affidata all’informatica. Dalla tesi infatti, propria delle
ideologie postmoderniste, che l’Essere, per dirla con il linguaggio
sintetico della filosofia, sia essenzialmente linguaggio e che la realtà
sia essenzialmente informazione deriva infatti la celebrazione del nuovo
processo lavorativo a forte base automatica e informatica come ambito di un
agire ormai anch’esso solo, o comunque prevalentemente comunicativo e di
conseguenza l’immagine del nuovo produttore come soggetto affrancato dal peso
di una prassi legata al mondo materiale e partecipe perciò di un general
intellect, collettivo e comune, di cui il suo lavorare con informazioni
sarebbe parte organica.
Non a caso
del resto il mito del general intellect è sempre stato uno dei concetti
più usati e abusati del marxismo prima operaista, ed oggi postoperaista, che
dovendo autonomizzare e anticipare comunque l’esistenza di un soggetto
antagonista rispetto ai condizionamenti e al peso della struttura economica
capitalistica, ha approfittato di alcune delle pagine più tristamente
produttivistiche e positivistiche di Marx per celebrare lo spontaneo unificarsi
delle menti subalterne, attraverso una supposta trasparenza immateriale ed
infinita della mente, in una comunità d’intellettualità scientificamente
alternativa.
Alla base di
tale mitologia dell’Intelletto e del soggettivismo prometeico che le
connota sta, a mio avviso, la rimozione radicale del marxismo dell’astrazione
reale. Ed è proprio la rimozione di una visione del sistema del capitale come
fondata sull’astrazione reale a far sì che vengano proiettati, in uno spazio
produttivo svuotato dalla valorizzazione che invece lo sostanzia, filosofemi ideologici
propri dell’ermeneutica e della linguistica post-strutturale: il cui scopo è di
nuovo quello di annullare la realtà specifica della produzione di capitale e di
generare l’immagine sublimata di una dematerializzazione dello spazio
produttivo vista come alleggerimento delle funzioni lavorative e come
liberazione del lavoratore.
Tra moderno
e postmoderno dunque, secondo la tesi che qui si propone, si dà discontinuità,
non quanto a modo di produzione e a formazione economico-sociale, bensì quanto
a tipologia di lavoro astratto erogato e quanto ad effetto generale
di feticismo che la ricchezza astratta del capitale e la sua accumulazione
sono in grado di mettere in atto. Il passaggio da un’accumulazione di lavoro
astratto, che mette in scena e in gioco il corpo, a un’accumulazione che mette
in scena la mente, conduce infatti il capitale a una sorta di accentuata
invisibilità. Al passaggio cioè da una coreografia esterna, fatta di materia e
di spazialità, ad una coreografia interna e immateriale, fatta di operazioni e
funzioni calcolanti-discorsive. E appunto in tale dislocazione dall’esterno
all’interno, il capitale assume una configurazione sempre meno
sensibile-percettiva, per inaugurare una modalità d’esistenza più impalpabile e
virtuale. È il fantasmatizzarsi del capitale, il suo farsi puro spirito, come
realizzazione di una tecnologia e di un’organizzazione di sé ancor più adeguati
al suo concetto, secondo la definizione marxiana di ricchezza astratta – cioè
non confinabile in nessuna materia particolare – che accumula se stessa.
A tale farsi
interiore e fantasmatico del capitale, a tale suo smaterializzarsi e rendersi
pressoché invisibile, corrisponde un eccesso di visibilità nella superficie
delle cose e dell’esperire. La tecnologia informatica conduce infatti a un tale
svuotamento-colonizzazione della mente da parte dell’astratto da privarla della
propria dimensione di profondità e di renderla funzionale alla sola dimensione
di acquisizione-elaborazione di dati esteriori. Per cui all’interiorizzarsi del
capitale si accompagna una produzione capitalistica di soggettività capace di
esperire il mondo solo nella sua trama di superficie, quale serie di eventi e di
fatti, che, senza rimandare a nessi più interni, si concludono nell’attimo
appariscente della loro vita accidentale e seriale.
La
produzione capitalistica di soggettività, attraverso la nuova tipologia
dell’accumulazione dell’astratto, produce dunque una soggettività esposta più
al dominio della quantità che non all’esperienza della qualità. Cioè più un io
che si fa spettatore e fruitore di pezzi di mondo sciolti da ogni vincolo
reciproco che non un io capace di sintetizzare e riunificare il proprio esperire
attraverso valenze significative di relazione.
È un tipo di
individualità definibile – in conformità all’orizzonte storico del
capitale-quantità – come un «io-quantità», ben esplicabile attraverso la
categoria hegeliana della cattiva infinità, in quanto io che, non
riuscendo a padroneggiare, attraverso sintesi, la molteplicità del proprio
mondo, interno ed esterno, è destinato a trascorrere in «un assoluto divenir
altro», in un allontanamento da sé che si traduce nell’essere colonizzato
dall’«esteriore».
Vale a dire
che, con la produzione capitalistica di soggettività, si genera un individuo
catturato più dall’esterno che non dall’interno e incapace perciò di far
riferimento alla propria interiorità emozionale come luogo fondamentale, in
ultima istanza, di valutazione e di sintesi del proprio vivere. E dove solo la
sovradeterminazione retorica e artificiale, «isterica» è stato giustamente
detto, di un mondo esterno, frantumato in immagini di superficie, compensa, sul
piano degli affetti, l’eclisse di questo fondamentale senso interno. È
l’individualità postmoderna che, priva dell’interiorità dell’emozione e della
memoria, trasferisce l’investimento affettivo, rimosso se non addiritura forcluso,
nella sovradeterminazione, imbellettata ma vuota, del mondo esteriore.
Ora appunto
per comprendere le conseguenze di un’erogazione costante di attività astratta
sulla soggettività astratta, nella quale viene meno ogni capacità di dar senso
e forma profonde al proprio agire, – per porre come problema fondamentale
dell’oggi il nesso tra eclisse dell’emotività e suo trasfert sull’esterno di un
mondo ridotto a pellicola di superficie – il marxismo dell’astratto obbliga ad
abbandonare il marxismo della contraddizione e dell’antropologia semplificata
del giovane Marx, per il quale alienazione e sfruttamento dell’essere umano non
possono non generare una forza sociale rivoluzionaria, pronta a recuperare la
sua essenza e dignità conculcata e a contraddire l’assetto economico e politico
dominante.
Questa
teoria meccanica e automatica del conflitto sociale nasce, nel Marx prima del Capitale,
dalla valorizzazione indiscussa dell’homo faber, quale soggettività
indiscussa e prometeica del materialismo storico, e da una conseguente visione
delle forze produttive come elemento comunque progressivo e accumulativo della
storia umana. Per cui a muovere dalla centralità dell’uomo produttore e dalla
sua sempre più dispiegata e collettiva produttività non potrebbe non darsi, in
presenza di rapporti sociali di proprietà e di distribuzione privata, un
inevitabile configgere tra la socialità del produrre e l’appropriazione
individualistica di una ricchezza collettivamente generata. Per dire insomma
che nel Marx della contraddizione, quale istituzione fondativa della società
moderna, opera la mitologia di un soggettività umana, fabbrile e comunitaria,
presupposta al concreto svolgersi delle realtà storico e sociali9, che non può non costituirsi come
opposizione e alterità irriducibile a qualsiasi relazione pratico-economica che
presuma di tradurla da soggetto in oggetto, da soggetto in predicato del
proprio agire e del proprio creare ricchezza. E quando il Marx maturo in un
celebre passo dei Grundrisse afferma che il lavoro è il «non-capitale»10, torna ad assegnare al lavoro lo
statuto di essere per principio altro, ossia ontologicamente eterogeneo
e antagonista rispetto al capitale e alla sua pretesa di dominio incontrastato
e assoluto.
Invece il
passaggio alla tipologia dell’accumulazione flessibile sottrae a mio parere ogni
legittimità al paradigma della centralità operaia, non tanto o non solo nel
senso della riduzione drastica del lavoro manuale nell’ambito dei settori
economici tecnologicamente più avanzati, quanto e soprattutto nel senso
socio-politico dell’esistenza di una classe dotata, malgrado la violenza dello
sfruttamento e dell’espropriazione cui viene sottoposta, di un’autonomia di
origine e di funzione che la renderebbe comunque eccedente rispetto alla
totalizzazione capitalistica. Il postfordismo non toglie la centralità del
nesso forza lavoro-capitale come chiave di volta della società contemporanea ma
toglie l’illusione di una forza lavoro quale per definizione soggettività
collettiva e antagonista. Anzi pone una realtà paradossalmente rovesciata,
quale quella di una forza lavoro mentale che presume di sapersi
soggetto, non a dispetto e in opposizione, ma proprio nella coincidenza con il
suo svuotamento e il suo essere reso oggetto.
Per cui,
senza dimenticare nulla di un secolo di lotte dell’operaio fordista e
dell’enorme permanenza del lavoro manuale nell’attuale economia-mondo, quello
che qui preme sottolineare è che, nel passaggio dal fordismo al postfordismo,
il capitalismo a base tecnologica informatica rende a sé più facilmente
interno, ed omogeneo al proprio processo di valorizzazione, il lavoro.
Possiamo aggiungere, non reprimendo o violentando la soggettività, bensì
impedendole di nascere e costituirsi in quanto tale. O per dir meglio,
negandola proprio attraverso la messa in scena di un processo fittizio di
soggettivazione e la valorizzazione di null’altro che la sua medesima silhouette.
Ma affermare questo, non può non avere, com’è evidente, conseguenze profonde quanto a decostruzione/ricostruzione dell’intero apparato categoriale di Marx. Giacché l’espulsione o la marginalizzazione della categoria della contraddizione rispetto alla centralità di quella dell’astrazione implica il rifiuto di ogni soggettività presupposta, qual è quella che invece a mio avviso continua ad operare in tutta l’opera di Marx. Ed implica, a muovere dalla cruda realtà della nostra moderna postmodernità, l’assunzione in tutta la sua più ampia serietà del Capitale quale totalità, che produce, come si diceva, il triplice piano dei beni mercantili, dell’asimmetria delle disuguaglianze sociali, e dell’immaginario dissimulatorio attraverso cui quella asimmetria deve essere negata e coperta. Ricordando, a chi critica tale analisi di reiterare il vecchio discorso sul totalitarismo dell’integrazione capitalistica della scuola di Francoforte, che autori come Adorno, Horkheimer, Marcuse non hanno fatto mai del processo di lavoro e dello specifico uso capitalistico della forza-lavoro il luogo generativo della socializzazione e di una totalizzazione inclusiva persino della produzione delle forme di coscienza, interessati com’erano più al capitalismo della circolazione, del feticismo della merce, dell’omologazione dei consumi e dell’industria culturale.
Invece io credo che, muovendo dal modo in cui l’astratto pervade oggi e svuota le nostre vite consegnandole alla compensazione isterica di un fantasma di soggettività, s’illumina di verità, con un potente effetto di retroazione storica, proprio la teorizzazione marxiana di Das Kapital come soggetto, di fondo unico e dominante, della storia moderna in quanto accumulazione, tendenzialmente senza fine, di ricchezza astratta. A patto però di porre questo Marx appunto contro il Marx della contraddizione operaia e proletaria, della soggettività presupposta dell’homo faber, del socialismo come esito necessario di una filosofia della storia fondata sullo sviluppo delle forze produttive, della concezione materialistica della storia come supposto predominio in ogni fase della storia e in ogni formazione sociale della materia di contro allo spirito. A patto cioè di liberarci della pretesa facilità di una contraddizione oggettiva e di collocarla invece nell’animo e nella mente della soggettività di Marx, quale certamente genio ed eroe eponimo della modernità, ma pensatore anche multiverso e contraddittorio, e dotato perciò di molte arretratezze accanto a profondissime intuizioni e concettualizzazioni. Senza alcuna intenzione, come talvolta è stato detto, di riscoprire, con il sovrappiù di un filologismo colto e accademico, la purezza originaria e incontaminata, al di là dei marxismi, del suo pensiero. Qui non si tratta di far rivivere, oltre le deformazioni di scuola e di partito, un Marx autentico, ma di far morire il Marx da sempre impari a pensare la modernità a fronte del Marx ancora vivo, anzi ogni giorno ancora più attuale.
Ma affermare questo, non può non avere, com’è evidente, conseguenze profonde quanto a decostruzione/ricostruzione dell’intero apparato categoriale di Marx. Giacché l’espulsione o la marginalizzazione della categoria della contraddizione rispetto alla centralità di quella dell’astrazione implica il rifiuto di ogni soggettività presupposta, qual è quella che invece a mio avviso continua ad operare in tutta l’opera di Marx. Ed implica, a muovere dalla cruda realtà della nostra moderna postmodernità, l’assunzione in tutta la sua più ampia serietà del Capitale quale totalità, che produce, come si diceva, il triplice piano dei beni mercantili, dell’asimmetria delle disuguaglianze sociali, e dell’immaginario dissimulatorio attraverso cui quella asimmetria deve essere negata e coperta. Ricordando, a chi critica tale analisi di reiterare il vecchio discorso sul totalitarismo dell’integrazione capitalistica della scuola di Francoforte, che autori come Adorno, Horkheimer, Marcuse non hanno fatto mai del processo di lavoro e dello specifico uso capitalistico della forza-lavoro il luogo generativo della socializzazione e di una totalizzazione inclusiva persino della produzione delle forme di coscienza, interessati com’erano più al capitalismo della circolazione, del feticismo della merce, dell’omologazione dei consumi e dell’industria culturale.
Invece io credo che, muovendo dal modo in cui l’astratto pervade oggi e svuota le nostre vite consegnandole alla compensazione isterica di un fantasma di soggettività, s’illumina di verità, con un potente effetto di retroazione storica, proprio la teorizzazione marxiana di Das Kapital come soggetto, di fondo unico e dominante, della storia moderna in quanto accumulazione, tendenzialmente senza fine, di ricchezza astratta. A patto però di porre questo Marx appunto contro il Marx della contraddizione operaia e proletaria, della soggettività presupposta dell’homo faber, del socialismo come esito necessario di una filosofia della storia fondata sullo sviluppo delle forze produttive, della concezione materialistica della storia come supposto predominio in ogni fase della storia e in ogni formazione sociale della materia di contro allo spirito. A patto cioè di liberarci della pretesa facilità di una contraddizione oggettiva e di collocarla invece nell’animo e nella mente della soggettività di Marx, quale certamente genio ed eroe eponimo della modernità, ma pensatore anche multiverso e contraddittorio, e dotato perciò di molte arretratezze accanto a profondissime intuizioni e concettualizzazioni. Senza alcuna intenzione, come talvolta è stato detto, di riscoprire, con il sovrappiù di un filologismo colto e accademico, la purezza originaria e incontaminata, al di là dei marxismi, del suo pensiero. Qui non si tratta di far rivivere, oltre le deformazioni di scuola e di partito, un Marx autentico, ma di far morire il Marx da sempre impari a pensare la modernità a fronte del Marx ancora vivo, anzi ogni giorno ancora più attuale.
Ma appunto
pensare ciò che da sempre è vivo e ciò che è morto nell’opera di Marx
significa, a mio avviso, liberare la sua matura critica dell’economia, quale
scienza di un soggetto astratto e non-antropomorfo, dalle pastoie della filosofia
della storia che pure il Moro ha intensamente concepito, quale divenire
predeterminato di un soggetto antropomorfo e antropocentrico.
Detto
questo, per i limiti di spazio in cui questo intervento va contenuto, non è
possibile aggiungere altro e svolgerlo analiticamente. Deve perciò essere
rinviata altrove la pars costruens del discorso: quella volta al futuro
e alla configurazione di una soggettività, individuale e collettiva, che possa
farsi carico, ma in modo profondamente diverso ed originale, degli ideali di
emancipazione e di trasformazione sociale delle generazioni e delle classi subalterne
che ci hanno preceduto.
Qui posso solo dire che non potrà darsi ipotesi alcuna di fuoriuscita storica dal capitalismo se non si abbandona il materialismo spiritualistico e fusionale dell’antropologia di Marx e non la si sostituisce con un nuovo materialismo che attinga come sua fonte fondamentale d’ispirazione alla psicoanalisi. Come ho già detto altrove11, la psicoanalisi ha complicato enormemente l’antropologia dell’umano, perché ha scoperto e teorizzato che prima dell’alterità orizzontale, della relazione cioè con gli altri esseri umani, il principio dell’alterità è interiore e si dà per ciascuno di noi nella compresenza e nell’irriducibilità del corpo alla mente. Ossia nel convincimento che la mente e il pensiero nascano nell’essere umano con il compito primario di dare coerenza e padroneggiare la complessità impulsiva e riproduttiva della vita corporea. E che tale costruzione verticale della soggettività sia, nello stesso tempo, inscindibilmente intrecciata con la sua costruzione orizzontale, quanto cioè a necessità dell’essere riconosciuta, accolta e legittimata da un’altra (o altre) soggettività.
Senza muovere da tale nuovo materialismo, che integra i tradizionali bisogni materiali con il bisogno di ciascuno al riconoscimento della propria irripetibile singolarità, non ci potrà essere, io credo, nessuna proposta antropologica e politica capace di contrastare la messa in gioco della falsa soggettivazione posta in essere dall’astrazione capitalistica. Per questo il marxismo dell’astratto lascia cadere la vieta antropologia giovanil-marxiana e si apre alla fecondazione della scienza antropologica più innovativa del Novecento qual è stata ed è la psicoanalisi.
Ma di tutto questo sarà bene argomentare altrove,
con spazi e moduli analitici più appropriati.Qui posso solo dire che non potrà darsi ipotesi alcuna di fuoriuscita storica dal capitalismo se non si abbandona il materialismo spiritualistico e fusionale dell’antropologia di Marx e non la si sostituisce con un nuovo materialismo che attinga come sua fonte fondamentale d’ispirazione alla psicoanalisi. Come ho già detto altrove11, la psicoanalisi ha complicato enormemente l’antropologia dell’umano, perché ha scoperto e teorizzato che prima dell’alterità orizzontale, della relazione cioè con gli altri esseri umani, il principio dell’alterità è interiore e si dà per ciascuno di noi nella compresenza e nell’irriducibilità del corpo alla mente. Ossia nel convincimento che la mente e il pensiero nascano nell’essere umano con il compito primario di dare coerenza e padroneggiare la complessità impulsiva e riproduttiva della vita corporea. E che tale costruzione verticale della soggettività sia, nello stesso tempo, inscindibilmente intrecciata con la sua costruzione orizzontale, quanto cioè a necessità dell’essere riconosciuta, accolta e legittimata da un’altra (o altre) soggettività.
Senza muovere da tale nuovo materialismo, che integra i tradizionali bisogni materiali con il bisogno di ciascuno al riconoscimento della propria irripetibile singolarità, non ci potrà essere, io credo, nessuna proposta antropologica e politica capace di contrastare la messa in gioco della falsa soggettivazione posta in essere dall’astrazione capitalistica. Per questo il marxismo dell’astratto lascia cadere la vieta antropologia giovanil-marxiana e si apre alla fecondazione della scienza antropologica più innovativa del Novecento qual è stata ed è la psicoanalisi.
___________________________________________
Nessun commento:
Posta un commento