La lectio magistralis del costituzionalista - e
comunista - Gianni Ferrara: questa Unione Europea non prevede meccanismi
di riforma "dal basso". Né nazionali, né tantomento "popolari". E' ora
di prenderne atto.
Andare dentro i problemi, analizzare le strutture da ogni angolazione. Per muoversi “contro” il sistema di potere dominante è il minimo della pena. Studiare, capire, ipotizzare, progettare e quindi – obbligatoriamente – muoversi. Ma guai a reagire in modo “pavloviano”, perché “pungolati” da qualche avvenimento, senza avere un quadro almeno realistico e attendibile della scena su cui ci si muove.
Riflessioni metodologiche? In parte, ma vengono in primo piano quando si ascolta uno scienziato descrivere il problema su cui gli è stato chiesto un parere molto informato.
Abbiamo ascoltato con grande attenzione, al seminario sull'Europa e il Fiscal Compact - svoltosi sabato 24, a Roma, su iniziativa del Comitato No Debito - la relazione di Gianni Ferrara. Costituzionalista, professore emerito alla Sapienza, ma anche comunista di vecchia e seria scuola.
Gli era stato chiesto di indagare sulle possibilità – l'”ammissibilità” - di un referendum “di indirizzo” su alcuni trattati costitutivi dell'Unione Europea, tipo il Fiscal Compact, che stanno annientando le capacità produttive del paese, le sue risorse finanziarie, il suo “modello sociale” welfaristico, e ancor più drasticamente lo faranno a partire dal prossimo anno (quando visognerà cominciare a ridurre di almeno 50 miliardi l'anno il debito pubblico, ovvero la spesa statale a qualsiasi titolo, ferma restando solo la “spesa per interessi” sul debito stesso).
La risposta, come da lui premesso, è stata molto negativa.
Ma l'aspetto più interessante della sua lectio magistralis è stato il viaggio dentro l'ingranaggio mortifero che è stato costruito in poco più di 30 anni, nella completa sottovalutazione della classe politica italiana, e dall'ex “sinistra” soprattutto. Un engrènement che non lascia margini per la propria “riformabilità”, tantomeno per quei paesi che stolidamente hanno inserito il “pareggio di bilancio” nella propria Costituzione senza neppure un accenno di discussione politico-parlamentare. Figuriamoci “sociale”...
Riassumiamo, un po' schematicamente, in modo da restituire informazioni “strategiche” sui meccanismo istituzionali che – nell'intera Eurozona – ci governa.
Il Fiscal Compact, in soldoni, precede la cessione di sovranità dall'Italia alla Ue in materia fiscale e di bilancio. Una conseguenza della cosiddetta “legge La Pergola”, che fissava la prevalenza delle norme comunitarie su quelle nazionali prevedendo l'adeguamento di queste ultime. Antonio La Pergola è stata una figura “tipica” di quel personale “tecnico-politico transnazionale” che ha contrinuito a costruire l'”ingranaggio” fatale che ci sta strangolando. Docente di Diritto Costituzionale e Diritto Costituzionale comparato nelle università di Padova, Bologna e Roma,, nonché in numerose istituzioni straniere, basta citarne alcune tra le più prestigiose: Edimburgo, L’Aja, Dublino, Harvard. Quindi presidente della Corte Costituzionale e poi ministro per le Politiche Comunitarie, a chiudere il cerchio tra preparazione teorica, disegno progettuale e realizzazione pratica.
Il Fiscal Compact è un trattato pensato per evitare la “via maestra” dei cambiamenti istituzionali “consensuali”, saltando pressoché completamente la “partecipazione” degli Stati alla sua elaborazione. In altri termini, i Parlamenti non sono stati nemmeno coinvolti (ammesso e non concesso che avessere competenze interne e volontà politica di farlo).
L'Italia – ovvero il Parlamento esautorato dal governo Monti – ha approvato senza discussione, nell'aprile 2012, l'inserimento nell'art. 81 della Costituzione l'obbligo al “pareggio di bilancio”. La maggioranza è stata volutamente tale da impedire qualsiasi possibilità di convocare un referendum abrogativo (molto superiore al 66% necessario).
Contro la modifica del Fiscal Compact, quindi, esistono in questo paese due ostacoli; il meccanismo interno a quel trattato e l'art. 81 (modificato) della Costituzione.
È possibile aggredire giuridicamente e politicamente queste due norme restando all'interno del quadro giuridico – nazionale e internazionale – esistente? È insomma possibile “riformarli”?
Il primo problema, spiega Ferrara, è insito nel fatto che i trattati internazionali (sottoscritti dai governi nazionali) sono sottratti alla ratifica parlamentare, in rispetto al principio che pacta servanda sunt. Principio peraltro di buon senso, altrimenti ogni trattato – per esempio, sui confini nazionali – potrebbe esser rimeso in discussione ad ogni cambio di governo, provocando una guerra dietro l'altra. Quindi la loro modifica dipende soltanto dalla perdita di efficacia per motivi indicati dai trattati stessi. Ossia:
- quando scadono i termini temporali (nel caso del Fiscal Compact tra almeno 20 anni, quando di questo paese non sarà rimasta pietra su pietra);
- quando viene a mancare l'”oggetto” del trattato stesso; ma in questo caso, purtroppo, l'”oggetto” - le politiche fiscali e di bilancio – esiste, eccome.
- quando siano cambiate le condizioni che avevano giustificato il trattato stesso; e anche questo non appare possibile per il Fiscal Compact (le “condizioni” qui coincidono con una “maggiore integrazione europea”, e quindi non scadono se non a fronte di un rivoluzionamento oppure di una guerra).
Esistono strumenti giuridici per bloccarne o stemperarne l'efficacia?
Anche qui Ferrara non lsacia troppi margini all'illusione.
Il “referendum di indirizzo” - ovvero non contenente prescrizioni obbligatorie per il governo e il Parlamento, ovvero nessun “mandato imperativo”. La legge costituzionale del 1989 lo prevede, ma la sua efficacia è praticamente nulla. Si può anche vincere la consultazione con una maggioranza importante, ma l'effetto non si produce.
Neppure il Parlamento europeo ha alcuna sovranità sulla materia dei trattati. E questa è forse la “notizia” o l'informazione meno nota anche tra i praticanti della politica, sia “istituzionale” che “alternativa” o “radicale”. I parlamentari di Starsburgo, infatti, sono privi della fondamentale prerogativa tipica di ogni “onorevole” o senatore che si rispetti, a livello mondiale: non possono infatti proporre leggi. A che serve un Parlamento senza potere legislativo? Nella democrazia occidentale, come teorizzata e costruita da Montesquieu a oggi, non serve assolutamente a nulla, tanto che non ne era mai stato fatto uno in questo modo così bislacco.
Un potere superiore ce l'ha certamente la Commissione Europea (oggi diretta da Barroso). Può infatti elaborare e proporre leggi (“direttive”), ma per statuto deve farlo per “realizzare gli obiettivi” del Trattato di Lisbona. Il cerchio si chiude. A livello europeo non sono previste procedure di “riforma” istituzionale che correggano parti rilevanti del trattato fondamentale, quello costituente. Si può solo andare avanti, senza mai sterzare e tantomeno tornare indietro.
L'insieme dei governi nazionali, insomma, elabora decisioni in modo da nascondere la responsabilità dei singoli Stati. Ne nasce una retorica falsificante, per cui ogni governo nega di esser stato tra coloro che hanno caldeggiato determinate scelte impopolari e si rifugia dietro lo slogan “lo chiede l'Europa”.
Soprattutto, però, viene così meno definitivamente uno dei principi fondamentali dello Stato di diritto: la responsabilità degli eletti di fronte agli elettori, o più indirettamente la corrispondenza tra mandato e risultato.
In definitiva, per avere la possibilità – in quanto italiani – di chiedere una modifica di alcuni trattati occorrerebbe una nuova regola costituzionale. Ma chi è il soggetto o lo schieramento politico che la farebbe passare? E in ogni caso, saremmo vincolati dagli altri 26 Stati che componegono l'Unione.
La conclusione è dunque obbligata: non è un referendum di indirizzo che può realizzare l'obiettivo di invalidare il Fiscal Compact o altri trattati europei. Certo, come sostiene poi Giorgio Cremaschi, in ogni caso una campagna referendaria può esser utile a far diffondere una consapevolezza circa la dannosità di quei trattati e della moneta unica così concepita. Ma a patto di essere ben coscienti che anche l'eventuale svolgimento della consultazione (in ogni caso è altamente probabile che ne venga rifiutata in partenza l'”ammissibilità”) non costituirebbe una soluzione efficace. Proprio per la natura di questo tipo di referendum.
Ma Ferrara è unoscienziato militante. Ha quindi indagato anche il Trattato di Lisbona per vedere se esiste un qualche appiglio giuridico per rimettere in discussione un trattato. Ne ha trovato soltanto uno, in un articolo secondo cui ogni Parlamento nazionale può sottoporre al Consiglio (dei capi di stato e di governo della Ue) una richiesta di mutamento dei trattati.
È possibile, non certo che ci si riesca, Ma in ogni caso occorre avere la maggioranza all'interno di un Parlamento nazionale, e quindi di essere al governo del paese. Al momento, sembra lontana...
Ci sono altri strumenti? A quantopare uno soltanto, previsto dall'art. 11 del Trattato di Lisbona. Una proposta di modifica sottoscritta da almeno un milione di cittadini europei, appartenenti ad almeno un quarto degli Stati membri (quindi almeno sette Stati), secondo quote numeriche minime fissate da tabelle in proporzione alla popolazione.
Una strada certo empiricamente praticabile, ma istituzionalmente di dubbia efficacia. Alla fine questa simil-”legge di iniziativa popolare” finirebbe sul tavolo della Commissione (del governo comunitario, insomma), che ne avvierebbe l'esame e poi deciderebbe come gli pare. Insomma, anche questa utile per una campagna di sensibilizzazione politica, non certo per rovesciare il tavolo.
In ogni caso sorgerebbe anche qui, fin dall'inizio, un problema di ammissibità. Le modifiche proposte infatti, debbono rispondere al principio di “miglioramento” dei trattati secondo i princìpi fondamentali. Non appare un'obiezione insuperabile (per esempio, secondo l'articolo 2, l'Unione deve perseguire tra l'altro la “dignità umana”, ed è molto facile dimostrare come i trattati oggi in vigore la stiamo mettendo in forse in numerosi paesi deboli.
L'obiezione definitiva è quindi un'altra. Anche in caso di accoglimento della “proposta di modifica” popolare da parte della Commissione, questa diventerebbe efficace solo dopo la scadenza del trattato. Che non è nemeno prevista.
L'ingranaggio della costruzione europea, infatti, è incardinato negli art. 119 e 120 del Trattato fondamentale, che riconoscono esplicitamente come principi generali di funzionamento dell'Unione Europea “l'economia di mercato” e la “libera concorrenza”. È qui che origina quel programma di smantellamento del “modello sociale europeo”, fondato sul welfare e lo “Stato sociale” che è in marcia ininterrottamente da oltre 30 anni senza che, in Italia, ci sia mai stata una discussione “di merito” su che cosa voleva dire “facciamo l'Europa” o “ce lo chiede l'Europa”.
Anzi, proprio l'esistenza del “sanfedismo” imprenditoriale – tipicamente e solo italiano – e della sua rappresentanza politica (Berlusconi e soci), ha fatalmente “deviato” il senso comune della “sinistra” verso un europeismo acefalo e disinformato. Una sorta di illusione collettiva per cui, se ci mettevamo agli ordini di questa Unione Europea, ci saremmo anche sbarazzati di Berlusconi, degli imprenditori prendi-e-scappa, di mafia, camorra, ndrangheta e compagnia cantando.
Il quadro ci sembra ora chiaro.
Questa Unione Europea non è riformabile. È stata costruita per non poterlo essere.
Il governo comunitario (la Commissione) e il Consiglio dei capi di stato e di governo hanno un potere assoluto, svincolato da ogni condizionamento parlamentare – sia continentale che nazionale. Ed è certo significativo che un potere assoluto torni ad avere legittimità e comando, nel Vecchio Continente, a poco più di due secoli dalla Rivoluzione Francese, ad uno da quella Russa.
Ma l'impossibilità di riformare la Ue implica l'inutilità del “riformismo progressista”, il suo svuotamento a logorrea fantasiosa quanto impotente (non è insomma un caso che sia emerso un Vendola).
Ma un sistema istituzionale che non si può “riformare” lascia come unica possibilità realistica – ovvero empiricamente efficace, anche se non facile – soltanto quella della rivoluzione.
Non per caso il costituzionalista Gianni Ferrara riconosce che ogni iniziativa di “cambiamento efficace” della struttura istituzionale europea è in queste condizioni “rivoluzionaria”.
Del resto, se è rinato un potere assoluto, significa che sono state eliminate le vie della mediazione. A cominciare da quelle giuridiche e costituzionali. Invece di Luigi XIV c'è un Kaiser "collettivo", un'oligarchia per nulla illuminata.
Andare dentro i problemi, analizzare le strutture da ogni angolazione. Per muoversi “contro” il sistema di potere dominante è il minimo della pena. Studiare, capire, ipotizzare, progettare e quindi – obbligatoriamente – muoversi. Ma guai a reagire in modo “pavloviano”, perché “pungolati” da qualche avvenimento, senza avere un quadro almeno realistico e attendibile della scena su cui ci si muove.
Riflessioni metodologiche? In parte, ma vengono in primo piano quando si ascolta uno scienziato descrivere il problema su cui gli è stato chiesto un parere molto informato.
Abbiamo ascoltato con grande attenzione, al seminario sull'Europa e il Fiscal Compact - svoltosi sabato 24, a Roma, su iniziativa del Comitato No Debito - la relazione di Gianni Ferrara. Costituzionalista, professore emerito alla Sapienza, ma anche comunista di vecchia e seria scuola.
Gli era stato chiesto di indagare sulle possibilità – l'”ammissibilità” - di un referendum “di indirizzo” su alcuni trattati costitutivi dell'Unione Europea, tipo il Fiscal Compact, che stanno annientando le capacità produttive del paese, le sue risorse finanziarie, il suo “modello sociale” welfaristico, e ancor più drasticamente lo faranno a partire dal prossimo anno (quando visognerà cominciare a ridurre di almeno 50 miliardi l'anno il debito pubblico, ovvero la spesa statale a qualsiasi titolo, ferma restando solo la “spesa per interessi” sul debito stesso).
La risposta, come da lui premesso, è stata molto negativa.
Ma l'aspetto più interessante della sua lectio magistralis è stato il viaggio dentro l'ingranaggio mortifero che è stato costruito in poco più di 30 anni, nella completa sottovalutazione della classe politica italiana, e dall'ex “sinistra” soprattutto. Un engrènement che non lascia margini per la propria “riformabilità”, tantomeno per quei paesi che stolidamente hanno inserito il “pareggio di bilancio” nella propria Costituzione senza neppure un accenno di discussione politico-parlamentare. Figuriamoci “sociale”...
Riassumiamo, un po' schematicamente, in modo da restituire informazioni “strategiche” sui meccanismo istituzionali che – nell'intera Eurozona – ci governa.
Il Fiscal Compact, in soldoni, precede la cessione di sovranità dall'Italia alla Ue in materia fiscale e di bilancio. Una conseguenza della cosiddetta “legge La Pergola”, che fissava la prevalenza delle norme comunitarie su quelle nazionali prevedendo l'adeguamento di queste ultime. Antonio La Pergola è stata una figura “tipica” di quel personale “tecnico-politico transnazionale” che ha contrinuito a costruire l'”ingranaggio” fatale che ci sta strangolando. Docente di Diritto Costituzionale e Diritto Costituzionale comparato nelle università di Padova, Bologna e Roma,, nonché in numerose istituzioni straniere, basta citarne alcune tra le più prestigiose: Edimburgo, L’Aja, Dublino, Harvard. Quindi presidente della Corte Costituzionale e poi ministro per le Politiche Comunitarie, a chiudere il cerchio tra preparazione teorica, disegno progettuale e realizzazione pratica.
Il Fiscal Compact è un trattato pensato per evitare la “via maestra” dei cambiamenti istituzionali “consensuali”, saltando pressoché completamente la “partecipazione” degli Stati alla sua elaborazione. In altri termini, i Parlamenti non sono stati nemmeno coinvolti (ammesso e non concesso che avessere competenze interne e volontà politica di farlo).
L'Italia – ovvero il Parlamento esautorato dal governo Monti – ha approvato senza discussione, nell'aprile 2012, l'inserimento nell'art. 81 della Costituzione l'obbligo al “pareggio di bilancio”. La maggioranza è stata volutamente tale da impedire qualsiasi possibilità di convocare un referendum abrogativo (molto superiore al 66% necessario).
Contro la modifica del Fiscal Compact, quindi, esistono in questo paese due ostacoli; il meccanismo interno a quel trattato e l'art. 81 (modificato) della Costituzione.
È possibile aggredire giuridicamente e politicamente queste due norme restando all'interno del quadro giuridico – nazionale e internazionale – esistente? È insomma possibile “riformarli”?
Il primo problema, spiega Ferrara, è insito nel fatto che i trattati internazionali (sottoscritti dai governi nazionali) sono sottratti alla ratifica parlamentare, in rispetto al principio che pacta servanda sunt. Principio peraltro di buon senso, altrimenti ogni trattato – per esempio, sui confini nazionali – potrebbe esser rimeso in discussione ad ogni cambio di governo, provocando una guerra dietro l'altra. Quindi la loro modifica dipende soltanto dalla perdita di efficacia per motivi indicati dai trattati stessi. Ossia:
- quando scadono i termini temporali (nel caso del Fiscal Compact tra almeno 20 anni, quando di questo paese non sarà rimasta pietra su pietra);
- quando viene a mancare l'”oggetto” del trattato stesso; ma in questo caso, purtroppo, l'”oggetto” - le politiche fiscali e di bilancio – esiste, eccome.
- quando siano cambiate le condizioni che avevano giustificato il trattato stesso; e anche questo non appare possibile per il Fiscal Compact (le “condizioni” qui coincidono con una “maggiore integrazione europea”, e quindi non scadono se non a fronte di un rivoluzionamento oppure di una guerra).
Esistono strumenti giuridici per bloccarne o stemperarne l'efficacia?
Anche qui Ferrara non lsacia troppi margini all'illusione.
Il “referendum di indirizzo” - ovvero non contenente prescrizioni obbligatorie per il governo e il Parlamento, ovvero nessun “mandato imperativo”. La legge costituzionale del 1989 lo prevede, ma la sua efficacia è praticamente nulla. Si può anche vincere la consultazione con una maggioranza importante, ma l'effetto non si produce.
Neppure il Parlamento europeo ha alcuna sovranità sulla materia dei trattati. E questa è forse la “notizia” o l'informazione meno nota anche tra i praticanti della politica, sia “istituzionale” che “alternativa” o “radicale”. I parlamentari di Starsburgo, infatti, sono privi della fondamentale prerogativa tipica di ogni “onorevole” o senatore che si rispetti, a livello mondiale: non possono infatti proporre leggi. A che serve un Parlamento senza potere legislativo? Nella democrazia occidentale, come teorizzata e costruita da Montesquieu a oggi, non serve assolutamente a nulla, tanto che non ne era mai stato fatto uno in questo modo così bislacco.
Un potere superiore ce l'ha certamente la Commissione Europea (oggi diretta da Barroso). Può infatti elaborare e proporre leggi (“direttive”), ma per statuto deve farlo per “realizzare gli obiettivi” del Trattato di Lisbona. Il cerchio si chiude. A livello europeo non sono previste procedure di “riforma” istituzionale che correggano parti rilevanti del trattato fondamentale, quello costituente. Si può solo andare avanti, senza mai sterzare e tantomeno tornare indietro.
L'insieme dei governi nazionali, insomma, elabora decisioni in modo da nascondere la responsabilità dei singoli Stati. Ne nasce una retorica falsificante, per cui ogni governo nega di esser stato tra coloro che hanno caldeggiato determinate scelte impopolari e si rifugia dietro lo slogan “lo chiede l'Europa”.
Soprattutto, però, viene così meno definitivamente uno dei principi fondamentali dello Stato di diritto: la responsabilità degli eletti di fronte agli elettori, o più indirettamente la corrispondenza tra mandato e risultato.
In definitiva, per avere la possibilità – in quanto italiani – di chiedere una modifica di alcuni trattati occorrerebbe una nuova regola costituzionale. Ma chi è il soggetto o lo schieramento politico che la farebbe passare? E in ogni caso, saremmo vincolati dagli altri 26 Stati che componegono l'Unione.
La conclusione è dunque obbligata: non è un referendum di indirizzo che può realizzare l'obiettivo di invalidare il Fiscal Compact o altri trattati europei. Certo, come sostiene poi Giorgio Cremaschi, in ogni caso una campagna referendaria può esser utile a far diffondere una consapevolezza circa la dannosità di quei trattati e della moneta unica così concepita. Ma a patto di essere ben coscienti che anche l'eventuale svolgimento della consultazione (in ogni caso è altamente probabile che ne venga rifiutata in partenza l'”ammissibilità”) non costituirebbe una soluzione efficace. Proprio per la natura di questo tipo di referendum.
Ma Ferrara è unoscienziato militante. Ha quindi indagato anche il Trattato di Lisbona per vedere se esiste un qualche appiglio giuridico per rimettere in discussione un trattato. Ne ha trovato soltanto uno, in un articolo secondo cui ogni Parlamento nazionale può sottoporre al Consiglio (dei capi di stato e di governo della Ue) una richiesta di mutamento dei trattati.
È possibile, non certo che ci si riesca, Ma in ogni caso occorre avere la maggioranza all'interno di un Parlamento nazionale, e quindi di essere al governo del paese. Al momento, sembra lontana...
Ci sono altri strumenti? A quantopare uno soltanto, previsto dall'art. 11 del Trattato di Lisbona. Una proposta di modifica sottoscritta da almeno un milione di cittadini europei, appartenenti ad almeno un quarto degli Stati membri (quindi almeno sette Stati), secondo quote numeriche minime fissate da tabelle in proporzione alla popolazione.
Una strada certo empiricamente praticabile, ma istituzionalmente di dubbia efficacia. Alla fine questa simil-”legge di iniziativa popolare” finirebbe sul tavolo della Commissione (del governo comunitario, insomma), che ne avvierebbe l'esame e poi deciderebbe come gli pare. Insomma, anche questa utile per una campagna di sensibilizzazione politica, non certo per rovesciare il tavolo.
In ogni caso sorgerebbe anche qui, fin dall'inizio, un problema di ammissibità. Le modifiche proposte infatti, debbono rispondere al principio di “miglioramento” dei trattati secondo i princìpi fondamentali. Non appare un'obiezione insuperabile (per esempio, secondo l'articolo 2, l'Unione deve perseguire tra l'altro la “dignità umana”, ed è molto facile dimostrare come i trattati oggi in vigore la stiamo mettendo in forse in numerosi paesi deboli.
L'obiezione definitiva è quindi un'altra. Anche in caso di accoglimento della “proposta di modifica” popolare da parte della Commissione, questa diventerebbe efficace solo dopo la scadenza del trattato. Che non è nemeno prevista.
L'ingranaggio della costruzione europea, infatti, è incardinato negli art. 119 e 120 del Trattato fondamentale, che riconoscono esplicitamente come principi generali di funzionamento dell'Unione Europea “l'economia di mercato” e la “libera concorrenza”. È qui che origina quel programma di smantellamento del “modello sociale europeo”, fondato sul welfare e lo “Stato sociale” che è in marcia ininterrottamente da oltre 30 anni senza che, in Italia, ci sia mai stata una discussione “di merito” su che cosa voleva dire “facciamo l'Europa” o “ce lo chiede l'Europa”.
Anzi, proprio l'esistenza del “sanfedismo” imprenditoriale – tipicamente e solo italiano – e della sua rappresentanza politica (Berlusconi e soci), ha fatalmente “deviato” il senso comune della “sinistra” verso un europeismo acefalo e disinformato. Una sorta di illusione collettiva per cui, se ci mettevamo agli ordini di questa Unione Europea, ci saremmo anche sbarazzati di Berlusconi, degli imprenditori prendi-e-scappa, di mafia, camorra, ndrangheta e compagnia cantando.
Il quadro ci sembra ora chiaro.
Questa Unione Europea non è riformabile. È stata costruita per non poterlo essere.
Il governo comunitario (la Commissione) e il Consiglio dei capi di stato e di governo hanno un potere assoluto, svincolato da ogni condizionamento parlamentare – sia continentale che nazionale. Ed è certo significativo che un potere assoluto torni ad avere legittimità e comando, nel Vecchio Continente, a poco più di due secoli dalla Rivoluzione Francese, ad uno da quella Russa.
Ma l'impossibilità di riformare la Ue implica l'inutilità del “riformismo progressista”, il suo svuotamento a logorrea fantasiosa quanto impotente (non è insomma un caso che sia emerso un Vendola).
Ma un sistema istituzionale che non si può “riformare” lascia come unica possibilità realistica – ovvero empiricamente efficace, anche se non facile – soltanto quella della rivoluzione.
Non per caso il costituzionalista Gianni Ferrara riconosce che ogni iniziativa di “cambiamento efficace” della struttura istituzionale europea è in queste condizioni “rivoluzionaria”.
Del resto, se è rinato un potere assoluto, significa che sono state eliminate le vie della mediazione. A cominciare da quelle giuridiche e costituzionali. Invece di Luigi XIV c'è un Kaiser "collettivo", un'oligarchia per nulla illuminata.
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