Domande e risposte sulla situazione storica della critica sociale radicale
Intervista a
Robert Kurz*
Cosa distingue questa crisi dalle precedenti?
Il capitalismo
non è l’eterno ritorno ciclico dell’identico, ma un processo storico dinamico. Ogni grande crisi si
incontra a un livello di accumulazione e di produttività superiore a quelle del
passato. Quindi, la questione della gestibilità o non gestibilità della crisi
si pone in forma sempre nuova. I precedenti meccanismi di soluzione perdono
validità. Le crisi dell’ottocento furono
superate perché il capitalismo ancora non aveva coperto tutta la riproduzione
sociale. C’era ancora spazio interno per lo sviluppo industriale. La crisi
economica mondiale degli anni ’30 rappresentò una rottura strutturale a un
livello di industrializzazione molto più elevato. Essa fu dominata grazie alle
nuove industrie fordiste e grazie alla regolazione keynesiana, il cui prototipo
furono le economie di guerra della seconda guerra mondiale. Quando
l’accumulazione fordista urtò contro i suoi limiti, negli anni ‘70, il
keynesianismo sfociò in una politica inflazionaria, sulla base del credito
pubblico. La cosiddetta rivoluzione neoliberale, intanto, spostò solo il
problema dal credito pubblico ai mercati finanziari. Lo sfondo era una nuova
rottura strutturale dello sviluppo capitalista, causato dalla terza rivoluzione
industriale della microelettronica. Su questo livello qualitativamente
differente di produttività non fu più possibile sviluppare alcun terreno di
accumulazione reale.
Per questo si
sviluppò per più di due decenni, sulla base dell’indebitamento e delle bolle
finanziarie senza sostanza, una congiuntura economica globale basata su
deficit, che non poteva essere durevolmente sostenibile. Tutta l’era
neoliberale della deregolamentazione fu accompagnata da una catena senza
precedenti storici di crisi finanziarie e di indebitamento. Nella misura in cui
queste crisi rimasero limitate a certe regioni mondiali o determinati settori
esse poterono essere contenute grazie a una pioggia torrenziale di denaro dalle
banche centrali. Ma ciò creò solo le basi per il culminare del processo di
crisi. Dall’autunno del 2008, la crisi della terza rivoluzione industriale ha
assunto una dimensione globale. Lo
scoppio delle bolle finanziarie porta ora alla ribalta l’assenza di
accumulazione reale. Il nuovo keynesianismo di crisi, intanto, sposta appena il
problema dal mercato finanziario di nuovo indietro verso il credito pubblico,
ma a un livello molto più elevato di quello degli anni ’70. Lo Stato ha ora,
come allora, poca competenza per sovvenzionare la caduta di accumulazione reale
a lungo termine. La crisi dei mercati finanziari è sostituita dalla crisi
delle finanze pubbliche; l’attuale caso della Grecia è solo la punta
dell’iceberg. Il banale forzoso spostamento del problema indietro verso lo
Stato mostra che non esistono attualmente nuovi meccanismi di soluzione della
crisi al livello di produttività raggiunto.
Lei pensa che il
capitalismo sia giunto alla fine. Siamo, per la prima volta nella storia, di
fronte alla possibilità di un suo superamento? Il capitalismo deve sviluppare
le sue contraddizioni interne fino a che ciò si renda possibile? Prima non lo
era
La dinamica cieca del
capitalismo si dispiega secondo le sue leggi interne. Questo processo,
tuttavia, è “necessario” e, in qualche modo, determinato, solo nella misura in
cui le categorie di base e i criteri di questo storico modo di produzione e di
vita non vengono posti in questione nella pratica. Con un intervento adeguato, il capitalismo avrebbe potuto essere
interrotto in una qualsiasi fase del suo sviluppo. La socializzazione della
produzione avrebbe portato a un corso differente, sul quale non possiamo dir
nulla perché nella realtà ciò non accadde. Non è una questione di necessità
obiettiva, ma una questione di coscienza critica. Né le ribellioni del settecento e dell’inizio dell’ottocento, né il vecchio
movimento operaio e nemmeno i movimenti sociali degli ultimi decenni furono
capaci di produrre tale coscienza. Al contrario: le forme capitaliste del
lavoro astratto, della valorizzazione del valore e dello Stato moderno furono
sempre più interiorizzate. Ma questo accadde fattualmente. Il capitalismo
non “doveva” sviluppare le sue contraddizioni interne fino al punto raggiunto
oggi, anche se questo fu ciò che esso fece. Ora ci troviamo di fronte al
compito di riformulare la critica delle forme capitaliste e il programma per la
sua abolizione, al livello delle contraddizioni raggiunto. Questa è semplicemente la nostra situazione storica ed è inutile
lamentarsi per le battaglie perse del passato. Anche se il capitalismo urta
obiettivamente contro il suo limite storico assoluto, l’emancipazione può
ancora oggi fallire, per assenza della sufficiente coscienza critica. Il
risultato non sarebbe allora una nuova primavera di accumulazione ma, come
disse Marx, l’eventuale caduta nella barbarie.
Secondo la critica del
valore (nella teoria di Marx) il legame prezzo-valore passa per un numero
infinito di mediazioni. Questo legame è estremamente flessibile. Come possiamo
affermare allora che il capitale ha raggiunto il suo limite interno?
Le forme di mediazione
di valore e prezzo non costituiscono una molteplicità infinita ma formano una
successione di tappe generalmente determinabile il cui regolatore è la
concorrenza. Il numero di transazioni individuali, invece, è ciò che si può
caratterizzare come quasi infinito. Ma questa è un’altra cosa. A causa del gran
numero di transazioni empiriche, a tutti i livelli del capitale-merce, del
capitale-denaro e del credito, che solo insufficientemente sono raccolte dalle
statistiche borghesi, la situazione della valorizzazione reale non può mai
essere esattamente determinata. C’è sempre una certa tensione tra teoria ed
empiria. Tuttavia, la teoria dei fenomeni osservabili può essere posta in
relazione con il processo interno essenziale della valorizzazione. Poiché il
nesso delle mediazioni di valore e prezzo è realmente complesso, ma in nessun
modo infinitamente flessibile. Il movimento della concorrenza in miliardi di
transazioni individuali si riferisce alla massa del valore reale di tutta la
società che non può essere nell’immediato determinata empiricamente. Questa
massa di valore è vincolata, secondo Marx, alla sostanza del lavoro astratto,
ossia, alla massa di energia umana astratta utilizzata nello spazio funzionale
del capitale. Il capitale, d’altra parte, non può usare arbitrariamente molta
forza lavoro umana, ma solamente in conformità al criterio pertinente di
produttività, che a sua volta è imposto dalla concorrenza. Le forme intermedie
tra valore e prezzo non sono, pertanto, arbitrariamente flessibili; la loro
flessibilità ha per limite la quantità reale della sostanza sociale che gli è
soggiacente. Tuttavia, è sempre solo ex post che si verifica empiricamente se i
rapporti valore-prezzo sono sostanzialmente bilanciati o se rappresentano solo
aria calda. E’ proprio quello che vediamo nella crisi attuale. Così si dimostra
in pratica che l’idea di una flessibilità infinita dei prezzi in relazione alla
sostanza del valore non era che una grande illusione.
Lei legge la teoria di
Marx della crisi come una teoria del collasso, una teoria basata sull’idea di
una sottoproduzione di capitale. Altri marxisti (Grossmann, Mattick) lo fecero
prima, ma questa critica fu sempre ultraminoritaria. I marxisti – indipendentemente
dalle loro differenze – hanno sempre letto e ancora leggono la teoria di Marx
come una teoria della distribuzione diseguale della ricchezza (distribuzione
diseguale, questa, che avrebbe origine nella speculazione, nella
deregolamentazione, nella ricerca di superprofitti nei mercati finanziari) e
rigettano la teoria del collasso. Sono entrambe queste letture di Marx
giustificate dallo stesso Marx? Esiste un duplice Marx?
Il termine “collasso”
è metaforico e suggestivo. Fu usato da Eduard Bernstein, senza alcuna
riflessione teorica, per squalificare completamente la teoria della crisi di
Marx, sotto l’impatto dello sviluppo capitalista empirico alla fine del
diciannovesimo secolo. Il termine appare nel cosiddetto frammento sulle
macchine nei Grundrisse, che nè Bernstein né i suoi avversari conoscevano,
perché i Grundrisse furono pubblicati solo molto più tardi. Nel terzo volume de
Il Capitale, Marx parla esattamente di un "limite interno del
capitale" che finisce per diventare assoluto. Le precedenti “teorie del
collasso” minoritarie di Rosa Luxemburg ed Henryk Grossman argomentavano con la
caduta di “realizzazione” del plusvalore (Luxemburg), o con una
"sovraccumulazione" di capitale (Grossmann), che non avrebbe potuto
essere reinvestito sufficientemente. Paul Mattick presto si distanziò dalla
teoria del limite interno obiettivo del capitale; così come i leninisti, egli
identificò il "collasso" con l’azione politica del proletariato. In Marx, esistono due livelli differenti
della teoria della crisi, che non sono teoricamente unificati. Il primo livello
si riferisce alle contraddizioni della circolazione del capitale: la disparità
tra gli acquisti e le vendite, così come la sproporzione ad essa relazionata
tra i rami della produzione. Il secondo livello, nei Grundrisse e nel terzo
volume de Il Capitale, si riferisce molto più fondamentalmente alla relazione
tra la produttività e le condizioni della valorizzazione, ossia, la caduta
della produzione dello stesso plusvalore, col diventar superfluo l’eccesso di
forza lavoro. Solo le contraddizioni
della circolazione hanno giocato un ruolo nelle teorie marxiste della crisi; la
questione della caduta della sostanza reale del lavoro non fu oggetto di alcuna
discussione. Nella terza rivoluzione industriale, tuttavia, solo il secondo
livello più profondo della teoria di Marx diventa rilevante. La
"desostanzializzazione" reale del capitale è tanto avanzata che è
possibile solo un’accumulazione apparente, insostanziale, per mezzo delle bolle
finanziarie e del credito pubblico, che ha raggiunto i suoi limiti. Ciò che è
in causa non è più la distribuzione diseguale della “ricchezza astratta"
(Marx), ma piuttosto la liberazione della ricchezza concreta dal feticismo del
capitale e dalle sue forme astratte. La maggior parte dei marxisti
contemporanei, però, sono regrediti indietro fino alle teorie precedenti della
crisi e si sono limitati ad assumere il classico punto di vista piccolo
borghese di una critica al “capitale finanziario”. Confondono causa ed effetto: ignorando la caduta obiettiva della
produzione reale del valore, riducono la crisi all’avidità personale degli
speculatori. Il modo di produzione capitalista non è più criticato nei suoi
fondamenti; si pretende solo di tornare alla configurazione fordista del lavoro
astratto. Questa opzione non è solo illusoria, è anche reazionaria. E ha
una somiglianza strutturale con l’ideologia economica dell’antisemitismo.
Lei, Robert Kurz, e
Moishe Postone, il cui libro "Tempo, lavoro e dominio sociale" è
stato pubblicato in francese, sviluppate due tipi di critica del valore che
divergono nel punto centrale. Per Lei, con i salti di produttività il capitale
perde sostanza (lavoro astratto) e, nella terza rivoluzione industriale della
microelettronica, questa sostanza è persa completamente dal capitale. Per
Postone, al contrario, i salti di produttività fanno crescere il valore –
provvisoriamente. Dopo che il salto di produttività si è generalizzato,
l’aumento di valore è annullato, regredendo all’unità basica del lavoro astratto
(l’ora di lavoro) verso il suo livello iniziale. Così, per Lei il valore
crolla, mentre per Postone il valore si espande incessantemente, per poi in
seguito tornare al suo punto di partenza. Da qui la domanda: ciò non distrugge
la plausibilità della critica del valore? O si deve veder qui un momento
provvisorio?
Il punto in comune con
Postone è la critica del concetto di lavoro del marxismo tradizionale. L’interpretazione tradizionale trasformò il
concetto di lavoro astratto, in Marx puramente negativo, critico e storico, in
una definizione positivista, reinterpretandolo come condizione eterna
dell’umanità. In Postone, tuttavia, cade la dimensione della teoria della
crisi nella critica del lavoro astratto; in questa egli stesso rimane
tradizionale. L’aumento della
produttività significa che meno energia umana produce più prodotto materiale.
Pertanto, la produttività non aumenta mai il valore, ma lo diminuisce sempre,
come Marx mostra subito nel primo volume de Il Capitale. Chi afferma il
contrario confonde il livello sociale con il livello dell’economia
dell’impresa, o la totalità del capitale con il capitale individuale. Il capitale individuale che in primo luogo
aumenta isolatamente la sua propria produttività ottiene un vantaggio nella
concorrenza. Esso offre i prodotti singoli a un prezzo più basso, arrivando
così a vendere più merci e, proprio per questo, realizza per sé una parte
maggiore della massa del valore sociale. Ciò che dal punto di vista
dell’economia dell’impresa appare come profitto crescente e, pertanto, come
crescente “creazione di valore” conduce socialmente, tuttavia, alla diminuzione
del valore, e in realtà in detrimento degli altri capitali individuali. Se la maggiore produttività si generalizza,
il capitale individuale innovatore perde il suo vantaggio nella concorrenza.
Ma questo non è in alcun modo la
regressione a zero o a un punto di partenza precedente. Al contrario, la
produttività aumentata diventa ora il nuovo criterio generale. L’ora di
lavoro, come unità basica del lavoro astratto, è sempre la stessa, come tale
non può in nessun modo avere differenti “livelli”. Il nuovo e più elevato criterio di produttività, tuttavia, obbliga a
che siano necessarie meno di queste ore sempre uguali di lavoro per una massa
crescente di prodotti. Se nella crisi si svaluta e si distrugge capitale,
malgrado ciò, il criterio di produttività raggiunto permane, perché è inscritto
nell’insieme della conoscenza e del know how. Per esser chiaro: il capitalismo non può tornare dal livello della
microelettronica al livello della macchina a vapore. Un nuovo aumento del
valore si rende sempre più difficile di fronte a livelli di produttività sempre
più elevati e, conseguentemente, con una sostanza di lavoro astratto ogni volta
minore. Nel passato, la riduzione costante di valore era solo relativa. Con
l’aumento dei criteri di produttività, il prodotto individuale poteva
rappresentare ogni volta meno lavoro astratto e quindi ogni volta meno valore.
Tuttavia, grazie al deprezzamento complessivo, sempre più beni precedentemente
di lusso entravano nel consumo di massa, espandendosi la produzione e i
mercati. La relativa riduzione della sostanza sociale del valore per prodotto
individuale poteva quindi portare ancora a un aumento assoluto della massa
totale del valore sociale, perché la la produzione sociale allargata nel suo
insieme mobilitava più lavoro astratto di quello diventato superfluo nella
produzione di ogni prodotto. Questo meccanismo è stato designato da Marx come
produzione di “plusvalore relativo”. Lo stesso processo, che riduce
continuamente la quota-parte della forza lavoro che produce valore nell’insieme
del capitale, fa abbassare anche, insieme al valore dei beni necessari alla
riproduzione di questa forza lavoro, il valore di essa stessa e, quindi, aumenta
la quota-parte di plusvalore nella produzione totale del valore. Ma ciò si
applica solo alla forza lavoro individuale. Per la quantità sociale di valore e
di plusvalore, però, è decisiva la relazione tra l’aumento di plusvalore
relativo per forza lavoro individuale e il numero di forze di lavoro che
possono essere socialmente utilizzate in conformità con il criterio di
produttività. Nel frammento sulle macchine nei Grundrisse e nel terzo volume de
Il Capitale, Marx fa notare che l’aumento di produttività deve logicamente
arrivare a un punto in cui sarà dispensato più lavoro astratto di quello che
potrà essere addizionalmente mobilitato ancora dall’espansione dei mercati e
della produzione. Dunque anche l’aumento di plusvalore relativo per lavoratore
individuale non è di alcuna utilità, perché il numero dei lavoratori
nell’insieme utilizzabili diminuisce troppo. Si può dimostrare che questo punto
astrattamente anticipato da Marx è storicamente e concretamente raggiunto con
la terza rivoluzione industriale. Se
così non fosse il capitale avrebbe potuto mobilitare bastante lavoro astratto
sulla base dei suoi stessi fondamenti produttivi, e aumentare la produzione di
valore reale, invece di sostituirla su una scala senza precedenti, attraverso
il debito, le bolle finanziarie e il credito pubblico. Lo shock della
svalutazione a tutti i livelli si svolge sotto i nostri occhi. Ma ora meno che
mai si avrà una regressione a un punto zero, a partire dal quale tutto il
teatro possa cominciare di nuovo. Piuttosto si mantiene la causa fondamentale
del disastro, ossia, il nuovo criterio di produttività stabilito
irreversibilmente dalla terza rivoluzione industriale. Pertanto, non resta che
la creazione ripetuta di nuovo capitale monetario desostanzializzato dagli
Stati e dalle banche, capitale che ripetutamente entra in collasso, a
intervalli sempre più brevi.
La critica del valore
è sempre confrontata con la seguente obiezione: se non c’è un soggetto di
classe rivoluzionario, un gruppo sociale per sua natura portatore di coscienza,
chi avrà allora interesse a portare la richiesta di una società
fondamentalmente umana e veramente storica?
Il concetto di
soggetto è in fondo paradossale, è un concetto feticista. Da un lato, il soggetto è interpretato come un’istanza autonoma di
pensiero e di azione. Dall’altro, però, questo stesso soggetto, appunto nella
sua qualità di soggetto rivoluzionario di classe, dev’essere condizionato in
modo puramente obiettivo. Esso deve aver “oggettivamente” una “missione
storica”, indipendentemente dal fatto se i suoi titolari empirici lo sappiano o
no. La supposta autonomia di pensiero e azione smentisce sé stessa se si
stabilisce in una predeterminazione incosciente. E’ come se la critica radicale
non fosse un’azione della coscienza, libera e determinata, ma piuttosto un
meccanismo casualmente condizionato, come il tempo o la digestione. La funzione
della coscienza sarebbe dunque, solo, consumare coscientemente la propria
causalità. Ma questa è precisamente la determinazione feticistica del pensiero
e dell’azione nel dominio del capitale. Se
l’emancipazione in quanto soggetto, sebbene cosciente, deve accadere come un
processo naturale o meccanico, allora sarà il contrario di sé stessa. Si
possono determinare obiettivamente i meccanismi ciechi del capitale, ma non la
liberazione dalla falsa obiettività, liberazione questa che non può tornare a
essere di nuovo obiettiva. La liberazione è un fatto storico e, pertanto, non
può essere teoricamente “dedotta”, come la caduta tendenziale del saggio di profitto.
Il famoso "soggetto oggettivo" del marxismo tradizionale non è che
una categoria dello stesso capitale, o una funzione del “soggetto automatico”
(Marx) del lavoro astratto e del valore. Non
esiste alcun gruppo sociale nel capitalismo che possegga una predeterminazione
ontologica trascendente. Tutti i gruppi sociali sono preformati dal valore e,
dunque, costituiti in modo capitalistico. Quando si parla di “interessi” è
necessario fare una distinzione. Ci sono, da un lato, gli interessi vitali delle
persone, i contenuti materiali, sociali e culturali, che sono identici alle
loro necessità storiche. Questi contenuti sono, d’altro lato, vincolati alla
forma capitalista. Il contenuto reale delle necessità è così visto come
secondario; solo l’interesse capitalista, costituito sotto la forma del denaro
(salario e profitto), è immediatamente percepito. Chiaro che è inevitabile
che le necessità reali o gli interessi vitali siano rivendicati in prima
istanza nella vigente forma capitalista. Tuttavia, se la differenza tra il
contenuto e la forma smette di esser vista, questo interesse si torce contro i
suoi titolari: questi rendono allora i loro interessi dipendenti, per la vita e
per la morte, dal funzionamento della valorizzazione del capitale. Riducono se stessi a un “soggetto
oggettivo” che lega la sua vita alle leggi del capitale e considera questa
sottomissione normale. Piuttosto, è importante dichiarare il contenuto reale
delle necessità come assolutamente innegoziabile. Solamente così esiste la
possibilità di intensificare la tensione tra la forma capitalista e questo
contenuto, fino a una critica trascendente il capitale. Ciò non sarà l’atto di
un “soggetto oggettivo”, ma di essere umani, che vogliono essere tali e nulla
più. Un movimento emancipatorio non ha nessun fondamento ontologico
precosciente ma al contrario deve costituirsi “senza rete né doppio fondo”.
Un’impresa, un
ospedale o una scuola sono in sciopero. Lottano per la preservazione degli
impieghi, contro il deterioramento delle condizioni di lavoro e contro i tagli
salariali... o i lavoratori non lottano più per conservare i posti di lavoro,
ma minacciano di “far saltare tutto in aria” per ricevere indennizzi di esodo
decenti (questo è accaduto varie volte in Francia). Come deve reagire a ciò chi
si relaziona positivamente con la critica del valore? Che atteggiamento
prendere coi sindacati e i media?
La critica del valore
non è semplicemente contro le lotte sociali immanenti al capitalismo. Queste
sono un punto di partenza necessario. Tuttavia, la questione è sapere in quale
direzione si sviluppino queste lotte. Qui il ragionamento gioca un ruolo
importante. I sindacati hanno abituato a presentare le loro richieste non
traendole dalle necessità dei loro membri, ma come contributo al miglior funzionamento
del sistema. Così si afferma che sarebbero necessari salari più alti per
rafforzare la congiuntura economica, e che ciò sarebbe possibile considerati
gli alti profitti del capitale. Ma una volta che la valorizzazione del capitale
ovviamente si interrompe, questo atteggiamento porta a cedere volontariamente
alla cogestione della crisi, nel “superiore interesse” dell’economia d’impresa,
delle leggi di mercato, della nazione etc. Questa falsa coscienza esiste non
solo tra i funzionari sindacali ma anche nella cosiddetta base. Se le
lavoratrici e i lavoratori salariati si identificano con la loro funzione nel
capitalismo ed esigono ciò di cui necessitano in nome di questa funzione, si
trasformano in “maschere di carattere” (Marx) di una determinata componente del
capitale, vale a dire la forza lavoro. Così
essi prendono atto del fatto che si ha diritto a vivere solo se è in grado di
produrre plusvalore. Ne consegue una concorrenza agguerrita tra le diverse
categorie delle lavoratrici e dei lavoratori salariati e un’ideologia di
esclusione sociale darwinista. Questo è particolarmente evidente nella lotta
difensiva per la conservazione dei posti di lavoro, che non possiede alcuna
prospettiva oltre a questo. Qui spesso arrivano a concorrere tra loro per la
sopravvivenza gli occupati delle differenti imprese dello stesso gruppo.
Pertanto, è molto più simpatico, e del resto anche più realista, che i
lavoratori francesi abbiano minacciato di far esplodere le fabbriche per
forzare l’ottenimento di un indennizzo di esodo ragionevole. Queste nuove forme
di lotta non sono né difensive né positive, ma potrebbero essere combinate con
altre rivendicazioni, come per esempio il miglioramento del reddito per i
disoccupati. Nella misura in cui da queste lotte sociali sorgerà un movimento
sociale, anche questo, con l’esperienza dei suoi limiti pratici, si confronterà
con le questioni di una nuova “critica categoriale” al fine in sé feticista del
capitale e delle sue forme sociali. La concretizzazione di questa prospettiva avanzata
è il compito della nostra elaborazione teorica, poiché non esiste un Oltre
astratto, ma lo si intende come momento di dibattito sociale.
Per gli
anti-industrialisti, l’emancipazione dal capitalismo è sinonimo di ritorno alla
società agraria (Kaczynski, ‘Encyclopédie des Nuisances’ etc.) Per gli
appassionati della decrescita (Décroissants) emancipazione significa uscita dal
capitalismo – ma, come essi nascondono la relazione tra produzione e valore, la
loro critica non va oltre la pura rinuncia morale in tempi di crisi. Per te in
cosa consiste la società post-capitalista?
Già Marx
disse, a ragione, che l’anti-industrialismo astratto è reazionario, perché getta via il potenziale di socializzazione e, così come gli
apologeti del capitalismo, può immaginare solo un contesto generale di
riproduzione sociale nelle forme del capitale. L’anti-industrialismo conclude che l’autodeterminazione umana potrà
esserci solo a spese della “desocializzazione”, in piccole reti basate su
un’economia della sussistenza (small is beautiful). Il ritorno postulato
alla riproduzione agraria è solo l’aspetto materiale di questa ideologia. Al
posto di una divisione delle funzioni, ampiamente diversificata e interrelata,
deve entrare il “fai da te” immediato. Si
tratta di una fantasia economica che costituisce un aspetto di quella che
Adorno chiamava "falsa immediatezza”. Se
queste condizioni fossero realizzate, una gran parte dell’umanità attuale
morirebbe di fame. Non è migliore la critica della crescita, ugualmente
astratta, che oggi va di moda e che pretende una “produzione di merci
semplici”, senza la coercizione della crescita, o la sostituzione delle
relazioni contrattuali borghesi tramite piccoli contesti di cooperazione.
Ciò che, nello spazio di lingua tedesca, si presenta come “economia solidale”
non va oltre un agglomerato di idee piccolo-borghesi storicamente fallite da un
pezzo e che, sotto le nuove condizioni di crisi, non offrono alcuna
prospettiva. Tali idee sono un mero
sotterfugio. Non chiedono di entrare in conflitto con l’amministrazione della
crisi, ma piuttosto di coltivare il loro proprio idillio immaginario, “al lato”
della sintesi sociale reale operata dal capitale. Nella pratica questi progetti
sono completamente irrilevanti. Essi non rappresentano altro che un’ideologia
dei “buoni sentimenti” per sinistre disorientate, le quali intendono
illudersi nel capitalismo di crisi correndo il rischio di diventare esse stesse
un mezzo a cui ricorrere da parte dell’amministrazione della crisi. La questione, invece, è liberare la
riproduzione sociale dal feticcio del capitale e dalle sue forme basilari. I
potenziali della socializzazione sono determinati nel capitalismo in modo
puramente negativo, come sottomissione degli esseri umani al fine in sé della
valorizzazione. Perfino il lato materiale della produzione industriale
obbedisce a questo imperativo del “soggetto automatico” (Marx). Pertanto, il contenuto materiale della
socializzazione industriale non può essere superato positivamente, ma deve
essere abolito insieme alle forme feticistiche del capitale. Ciò non riguarda
solo i rapporti sociali di produzione ma anche il rapporto con la natura. Non
si tratta, di conseguenza, di assumere l’industria capitalista e il
produttivismo che gli è inerente senza rotture. Tuttavia, un
“antiproduttivismo” ugualmente astratto, o la regressione a una povertà
idilliaca in un’economia di sussistenza e l’atmosfera socialmente oppressiva di
confuse "comunità", non è alternativa, ma solo il rovescio della
stessa medaglia.
Il compito è dunque
di rivoluzionare le condizioni materiali di produzione a livello sociale
globale e mirare come obiettivo la soddisfazione dei bisogni, così come la
preservazione delle basi naturali. Ciò significa che non potrà più aversi lo
sviluppo incontrollato secondo il criterio generale e astratto della cosiddetta
razionalità dell’economia d’impresa. I vari momenti della riproduzione sociale devono essere considerati nel
contesto della logica stessa del rispettivo contenuto. Per esempio, le cure
mediche e l’educazione non possono essere organizzati secondo lo stesso
criterio delle macchine perforatrici o dei cuscinetti a sfera. Le
infrastrutture sociali oltrepassano in generale la forma valore, grazie alla
“scientifizzazione”. Anche nell’industria deve essere sostituita questa logica
del valore, che trasforma le forze produttive in forze distruttive, per cui
vengono dismessi domìni di aree vitali per caduta di “redditività”. Così, la
mobilità non dev’essere eliminata, o ridotta al livello di carretti trainati da
asini, ma piuttosto, partendo dalla forma distruttiva del trasporto
automobilistico individuale, trasformata in una rete qualitativamente nuova dei
trasporti pubblici. Gli “escrementi della produzione” (Marx) non possono
continuare a essere sparsi nella natura, anziché essere integrati in un
circuito industriale. E la "cultura della combustione" capitalista
non può essere mantenuta, ma è necessario un uso differente delle energie
fossili. Infine, è necessario che i momenti della riproduzione non suscettibili
di essere abbracciati dal valore e dal lavoro astratto, che furono dissociati
dalla società ufficiale e storicamente delegati alle donne (attività
domestiche, assistenziali, cura etc), siano organizzati in forma coscientemente
sociale e slegati dalla loro caratterizzazione sessuale. Questa ampia diversificazione della produzione industriale e dei
servizi, secondo criteri puramente qualitativi, è qualcosa di differente da un
anti-industrialismo astratto; ma esige l’abolizione della ragione capitalista,
della sintesi attraverso il valore e il calcolo economico imprenditoriale da
quello derivante. Ciò funziona come processo sociale, per mezzo di un
contro-movimento sociale della stessa società, e non attraverso “modelli”
pseudo-utopici, che avrebbero solo da essere generalizzati. La società post-capitalistica non può
essere dipinta come un modello positivo che si debba presentare
preconfezionato. Ciò non equivarrebbe ad alcuna concretizzazione, non andrebbe
oltre una patetica astrazione e un’anticipazione della falsa obiettività,
inevitabilmente la stessa che deve essere abolita. Ciò che la teoria può
sviluppare, in quanto critica dell’economicismo capitalista, sono i criteri di
una socializzazione differente. Qui è inclusa, in primo luogo, una
pianificazione cosciente delle risorse, che deve sostituire la dinamica cieca
delle “leggi coercitive della concorrenza” (Marx). La pianificazione
sociale è stata screditata, anche a sinistra, perché il suo concetto non è mai
stato compreso oltre l’estinto socialismo burocratico di Stato. Ma questo
socialismo non costituiva un’alternativa al capitalismo, ma piuttosto,
essenzialmente, una “modernizzazione in
ritardo” nella periferia del mercato mondiale, che facevo uso dei
meccanismo dello Stato capitalistico. La
logica del valore non era abolita ma semplicemente nazionalizzata. La
coscienza critica non andava più in là, nelle condizioni di uno sviluppo non
concluso del capitalismo mondiale. Non
doveva essere per forza così, ma è un fatto storico. Si trattava
semplicemente della partecipazione delle regioni periferiche al mercato
mondiale con pari diritti, partecipazione che è finita nel fallimento.
Pertanto, questa formazione rimaneva prigioniera dell’aporia di una
“pianificazione del valore”, che per sua natura non è pianificabile, ma implica
la concorrenza universale, sotto i dettami del produttivismo astratto. Se oggi
la socializzazione negativa attraverso il valore urta in limiti storici su
scala mondiale, è all’ordine del giorno un nuovo paradigma di pianificazione
sociale, oltre il mercato e lo Stato, il valore e il denaro.
Tradizionalmente, la
critica del capitalismo si fa dal punto di vista del lavoro. Per Lei, Robert
Kurz, capitale e lavoro non si contraddicono. Per Lei, il capitalismo è la
società del lavoro. Perché rigetta il lavoro?
Il concetto
chiaramente negativo del lavoro astratto in Marx può essere determinato come
sinonimo della moderna categoria “lavoro”. Nelle condizioni premoderne, a volte
neanche esisteva questa astrazione universale, altre volte essa era determinata
negativamente in maniera differente, ossia, come attività di dipendenti e
soggiogati (schiavi). "Lavoro"
non è la stesso che produzione in generale, o “processo metabolico con la
natura” (Marx), anche se la terminologia di Marx sulla questione fu
esitante. Fu il capitalismo che, per la
prima volta, generalizzò e ideologizzò positivamente la categoria negativa
“lavoro” e in questo modo portò all’inflazione del concetto di lavoro. Il punto
centrale di questa generalizzazione e falsa ontologizzazione del “lavoro” è
costituito dalla riduzione, storicamente senza precedenti, del processo di
produzione a un puro e semplice dispendio di energia umana astratta, o di
“nervi, muscoli e cervello” (Marx), nella
completa indifferenza ai contenuti. I
prodotti “sono validi” socialmente non come beni d’uso, ma come
rappresentazioni del lavoro astratto passato. Loro espressione generale è il
denaro. In questo senso, per Marx il
lavoro astratto, o l’energia umana astratta, costituisce la “sostanza” del
capitale. Il fine in sé feticista della valorizzazione, del fare di un euro due
euro, si basa sul fine in sé di aumentare ininterrottamente il dispendio di
lavoro astratto, senza tener conto delle necessità. Questo imperativo assurdo, tuttavia, è in
contraddizione con l’aumento permanente della produttività, che è imposto dalla
concorrenza. La critica del capitalismo
dal punto di vista del lavoro è un’impossibilità logica, dato che non si può
criticare il capitale a partire dalla sua stessa sostanza. La critica del capitalismo
deve essere diretta contro questa sostanza in sé, liberando l’umanità dal
soggezione al lavoro astratto forzato. Solo allora potrà essere vinta
l’indifferenza al contenuto della riproduzione ed esser preso seriamente lo
stesso contenuto. Se il capitale è
concepito nel senso ristretto, come capitale-denaro e capitale fisico
(“capitale costante” in Marx), c’è infatti una contraddizione funzionale tra
capitale e lavoro. Si tratta di differenti interessi capitalistici in un
sistema di riferimento comune. Ma, se si comprende il capitale nel senso più
ampio di Marx, il lavoro è solo l’altra sua parte integrante. Capitale-denaro e
capitale fisico rappresentano "lavoro morto", la forza di lavoro
(“capitale variabile” in Marx) rappresenta “lavoro vivo". Esistono solo
differenti “stati di aggregazione” del lavoro astratto e, pertanto, del
capitale. In questo senso, la contraddizione è “interna” allo stesso
capitale globale, o “soggetto automatico”, e non una contraddizione che punta
oltre il capitalismo. L’antico movimento
operaio, in quanto non assunse la posizione del liberarsi dal lavoro astratto,
ma semmai la posizione di liberare questo stesso lavoro, si legò esso stesso a
essere mera parte integrante del capitale e a incontrare un dubbioso
“riconoscimento” solo in questo senso. Di conseguenza, nel socialismo
dell’est, alias capitalismo di Stato, il lavoro astratto non fu criticato né
abolito, ma usato dalla burocrazia come categoria fondamentale, nel tentativo
(fallito) di una contabilizzazione tecnocratica. Oggi, nella terza rivoluzione
industriale, il capitalismo mina completamente la sua propria sostanza di
lavoro. Nei bilanci dei conglomerati imprenditoriali, il lavoro non gioca più
ormai alcun ruolo decisivo, come parte del capitale. La produzione industriale,
e non solo, è più influenzata dall’uso della scienza e della tecnica che
dall’uso dell’attività umana produttiva immediata. La dinamica cieca del
capitalismo ha superato nella pratica e ridotto all’assurdo l’idea, già
teoricamente sempre falsa, di un socialismo basato sulla contabilizzazione del
“tempo di lavoro”. Ciò che necessita di
essere pianificato in una società post-capitalista non è la quantità di energia
fisica umana, ma piuttosto l’uso sensato e pragmaticamente diversificato delle
risorse naturali, tecniche ed intellettuali.
*L’intervista
costituisce un’introduzione a una collettanea di analisi e saggi dell’autore da
pubblicare in Francia.
Da MARXSCHE THEORIE, KRISE UND ÜBERWINDUNG DES KAPITALISMUS in www.exit-online.org (13.05.2010).
Da MARXSCHE THEORIE, KRISE UND ÜBERWINDUNG DES KAPITALISMUS in www.exit-online.org (13.05.2010).
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