L'attacco al salario all'Electrolux non
riguarda solo la lotta sindacale, ma è invece un tassello centrale del
piano padronale di ristrutturazione del modello produttivo italiano.
IL MODELLO PRODUTTIVO ITALIANO
In Italia la crisi generale del modo di produzione ha
portato alla crisi di un modello produttivo specifico, quello basato
sul cosiddetto decentramento produttivo, che era stato edificato a
partire dalla metà degli anni '70 del secolo scorso contro le lotte
operaie nella grande fabbrica e per rompere l'unità di classe che si era
costruita attorno a quelle lotte.
Un modello produttivo fondato sullo smantellamento
della grande fabbrica, esternalizzando interi reparti e trasformandoli
in aziende autonome sub-fornitrici e/o terziste; un modello in cui le
fabbriche già esistenti non crescevano più, ma costruivano attorno a
loro una rete di piccole imprese.
Come risultato dell'introduzione di questo modello
produttivo, in Italia nel 2006 solo il 19% dei lavoratori dell'industria
e dei servizi era occupato dalla grande impresa (1) (quella con almeno
250 addetti), contro il 45% della Gran Bretagna, il 40% della Germania,
il 38% della Francia e il 33% della media UE.
Di contro la microimpresa (con meno di 10 addetti)
assorbiva nello stesso anno in Italia il 47% dell'occupazione di
industria e servizi contro il 19% della Germania, il 21% della Gran
Bretagna, il 25% della Francia e il 30% delle media UE (2) (vedi grafico
1)
Tra i Paesi della UE a 27 solo Portogallo, Cipro e
Grecia hanno una percentuale minore di quella italiana di addetti alla
grande impresa e solo la Grecia ha una percentuale maggiore di addetti
alla micro impresa.
Dunque il modello produttivo basato sul decentramento
non è quello che invece è stato fatto proprio dai Paesi più avanzati,
ma nello specifico italiano è il modello che ha permesso di spezzare la
resistenza operaia e di imporre ritmi di lavoro più alti, salari più
bassi, azzeramento dei diritti sindacali e maggiori profitti.
Anche perché i rapporti di forza sfavorevoli ai lavoratori nella
fabbrica decentrata hanno pesato sui rapporti complessivi tra capitale e
lavoro permettendo accordi sindacali e leggi sempre peggiori:
dall'attacco all'indennità di contingenza (scala mobile) nel 1984 sotto
il governo Craxi con l'accordo di Cisl e Uil alla sua abolizione nel
1992 con l'accordo triangolare tra il governo Amato, le associazioni
padronali e Cgil, Cisl,Uil; agli accordi di concertazione firmati il 23
luglio 1993 sotto il governo Ciampi; alle infinite controriforme delle
pensioni; all'introduzione di forme di lavoro servile con il pacchetto
Treu e la legge 30.
Un paio di dati possono servire a capire gli effetti dell'introduzione del modello produttivo basato sul decentramento.
Il primo riguarda il numero di ore lavorate per
lavoratore dipendente. Un numero che all'inizio degli anni'70 era in
calo in Italia così come in Germania, Francia, Gran Bretagna e Giappone.
Ma dopo il 1975 e fino al 2000 il numero delle ore
lavorate per dipendente in Italia è rimasto invece sostanzialmente
stabile e nel 1988 ha superato quello del Giappone.(3) (vedi grafico 2).
Il secondo dato riguarda la quota del Prodotto interno lordo utilizzata per ripagare il lavoro dipendente.
Tra il 1975 e il 2000 questa quota è scesa dal 51% al
39% per poi stabilizzarsi attorno al 40% fino all'inizio della crisi
(vedi grafico 3), anche se tra il 1975 e il 2007 il numero dei
lavoratori dipendenti è invece cresciuto, da 15 a 19 milioni(4).
Un maggior numero di lavoratori dipendenti è stato
ripagato con una percentuale via via minore della ricchezza creata nel
ciclo produttivo, mentre il capitale ha potuto appropriarsi di una quota
percentuale in continuo aumento.
IL MIRACOLO VENETO
La strategia del decentramento produttivo fu
applicata in modo generalizzato, ma è a nord-est e in particolare in
Veneto che ebbe i suoi maggiori successi.
Non è un caso: anche se il Veneto è stato considerata
la terza regione industriale d'Italia fin dagli inizi del '900, il suo
tessuto produttivo si è sviluppato con molto ritardo rispetto a
Lombardia e Piemonte: fino agli anni '60 del secolo scorso era ancora
una regione prevalentemente agricola e fino al 1965 una regione povera
da cui si emigrava per cercare lavoro altrove.
L'industrializzazione vera e propria del Veneto
iniziò solo a metà degli anni '60 con salari inferiori rispetto a quelli
del nordovest favorendo quindi nel decennio successivo l'insediamento
della fabbrica decentrata.
Tra il 1971 e il 1981 il numero delle unità locali di
industria e servizi in Veneto cresce del 50%, contro una media italiana
del 27%. Cresce anche il numero di addetti, ma solo del 31%, abbassando
quindi il numero medio di lavoratori per unità locale che in Veneto nel
1981 è di 4,4 contro il 5,2 del Piemonte e il 5,6 della Lombardia(5).
Qui il modello del decentramento produttivo ha
mostrato tutta la sua potenza, ha trasformato la piccola proprietà
agricola in capitale da investire nella piccola impresa e ha proiettato
nell'età industriale rapporti sociali fondati sulla mezzadria
trasformando il "paron" in appaltatore e il mezzadro in subfornitore o
terzista.
Qui il "piccolo è bello" è diventato il mito fondativo di una "piccola patria", distribuendo assieme alle briciole dei profitti (che comunque sono sempre
andati per la maggior parte alle grandi e medie imprese che appaltavano
il lavoro a quelle piccole) gratificazioni ideologiche (e del tutto
gratuite) riguardo alla "laboriosità delle genti del nordest", allo "spirito d'impresa Veneto" ecc.
LA CRISI DEL DECENTRAMENTO PRODUTTIVO
Ma con la crisi vengono al pettine tutti i limiti di questo modello di sviluppo.
Mentre il sistema produttivo globale si è diretto verso la concentrazione
produttiva, quello italiano è andato in direzione esattamente opposta
ed è arrivato all'appuntamento con la crisi in una situazione di estrema
fragilità.
La produzione nella piccola impresa si fonda soprattutto
su produzioni a basso contenuto di capitale fisso e ad alto contenuto
di forza/lavoro, perché il piccolo imprenditore ha poco credito presso
le banche e la sua possibilità di investimento è limitata.
In pratica si è risparmiato sugli investimenti, sul rinnovo dei mezzi
di produzione, sulla ricerca, giocando sulla disponibilità di forza
lavoro relativamente a buon mercato(6) e, come abbiamo visto, costretta a
lavorare il 25% in più che in Francia o in Germania.
La distruzione della grande fabbrica
ha raggiunto l'obiettivo che il padronato si era proposto, cioè quello
della frantumazione del tessuto di classe, ma allo stesso tempo ha
frantumato anche il sistema produttivo.
Con la crisi il sogno del "piccolo è bello" si è trasformato in un incubo.
IL PIANO DI REINDUSTRIALIZZAZIONE
Per uscire da questo incubo i centri studi padronali stanno mettendo a punto un piano di ristrutturazione di segno opposto rispetto a quello di 40 anni fa.
Un piano che deve
anche tener conto del fatto che la crisi sta agendo sui rapporti globali
e sta definendo una nuova divisione internazionale del lavoro in cui i
paesi a cui
fino ad ieri era delegata la produzione di merci ad alta intensità di
lavoro e a basso contenuto tecnologico, come ad esempio la Cina, hanno
cominciato a produrre anche merci tecnologicamente avanzate e stanno
bruciando le tappe dello sviluppo.
La società occidentale fondata sulla rapina del plusvalore prodotto nelle periferie,
comincia a realizzare che nel futuro nuovi rapporti di forza potrebbero
rendere sempre più difficile questa estorsione globale.
E quindi si comincia a parlare di reindustrializzazione, di accentramento produttivo di quanto
era stato decentrato negli anni passati, di reinternalizzazione di
quanto era stato esternalizzato, di rilocalizzazione di quanto era stato
delocalizzato.
A Treviso nel 2011 Unindustria e sindacati concertativi hanno firmato un patto per lo sviluppo della Provincia in cui concordano sull'obiettivo di: «favorire
l'introduzione sempre maggiore e qualificata di contenuti terziari
nell'ambito delle attività produttive manifatturiere; incentivare i
processi di collaborazione, integrazione e crescita dimensionale delle
imprese, con attenzione al governo dell’intera 'catena del valore'» (7).
In parole povere: fine del decentramento, fine del "piccolo è bello", fine della terziarizzazione, nuova centralità della grande industria.
Questo piano non riguarda un futuro più
o meno lontano, ma è già operativo oggi. La crisi ha tolto di mezzo le
imprese meno competitive nei confronti della concorrenza internazionale.
Ad esempio nel distretto della calzatura della Riviera del Brenta, tra
Padova e Venezia, sono sparite buona parte delle piccole imprese con
meno di 15 addetti.
Il piano di ristrutturazione non
fa altro che assecondare e gestire la crisi, definendo una via d'uscita
tutta a favore del grande capitale e della grande industria che hanno
dimostrato la capacità di fare profitti anche nella crisi.
I primi a protestare sono artigiani e
piccoli imprenditori che si illudevano di essere entrati a far parte
dei salotti buoni dell'imprenditoria italiana e oggi sono costretti a
fare i conti con il fallimento del loro sogno. Ma la loro protesta non
ha futuro e la loro figura è destinata ad una rapida estinzione. Nella
migliore delle ipotesi torneranno a fare i capireparto nella grande industria, certamente più livorosi di quanto potessero essere i loro padri 40 anni fa.
L'ATTACCO AI DIRITTI E AL SALARIO: IL CASO ELECTROLUX
Il problema vero dal punto di vista padronale non sono i piccoli imprenditori
falliti, ma la possibilità concreta che attraverso il processo di
reindustrializzazione si favorisca la ricostruzione di una identità di
classe attorno agli operai della nuova grande fabbrica.
Per questo motivo il piano di reindustrializzazione deve necessariamente prevedere un attacco preventivo ai diritti sindacali e ai salari.
La fine della democrazia sul posto di lavoro sancita dal Testo unico
sulla rappresentanza sindacale se da una parte è il logico punto di
arrivo di un percorso di svendita dei diritti sindacali iniziato con gli
accordi di San Valentino e proseguito con quelli di concertazione del
92/93, dall'altra rappresenta anche una delle condizioni necessarie per
poter procedere alla ristrutturazione del modello produttivo italiano.
Se fino ad ieri quasi la metà della forza lavoro era impiegata in imprese
individuali o microimprese inferiori ai 15 addetti, quindi di fatto
senza diritti sindacali, si vuole avere la certezza che nel futuro
questi lavoratori non possano ottenerli grazie alla loro ricollocazione
in una nuova grande fabbrica.
Questo il senso delle battaglie padronali per l'abrogazione dell'articolo 18 e soprattutto dell'accordo sulla rappresentanza sottoscritto dai sindacati concertativi.
L'obiettivo non è solo quello di colpire il sindacato di classe e chi si oppone
al tentativo di far pagare la crisi ai lavoratori, ma anche quello di
favorire il nuovo modello industriale in costruzione cercando di
ostacolare per più tempo possibile la ricostruzione di una nuova
identità di classe.
Ma è soprattutto il costo del lavoro ad essere sotto attacco.
Perché era la piccola impresa ad abbassare la media
dei salari. Ma una volta che il piccolo è in via di rottamazione, si
vuole evitare che la riconcentrazione dei lavoratori dalla fabbrica
decentrata nella nuova grande industria porti ad un aumento
generalizzato dei costo del loro lavoro.
Per questo è necessario tagliare preventivamente i salari nella grande fabbrica, per non doverli concedere ai livelli di oggi ai nuovi assunti di domani.
Questo il significato della richiesta dell'Electrolux di ridurre i salari di 3 euro l'ora.
Una richiesta che ha fatto notizia, ma in realtà è stata preceduta da altre richieste analoghe nella media e grande industria veneta.
Ne
hanno fatto le spese ad esempio nel padovano i lavoratori di alcune
cartiere e industrie metalmeccaniche e tessili, in crisi e no.
Con il beneplacito tacito o esplicito del sindacato concertativo,
con trattative collettive o personali, si è trattato al ribasso su
tutto e in cambio di investimenti, molto spesso di multinazionali
estere, si è accettata una riduzione del personale, un aumento delle ore
lavorative e il declassamento della categorie contrattuali.
Il caso Electrolux da questo punto
di vista è doppiamente significativo, perché da una parte è una grande
industria che ha in Italia quasi seimila dipendenti nei 4 stabilimenti
di Susegana (TV), Porcia (PN), Solaro (MI) e Forlì e dall'altra è anche
una multinazionale che controlla il 25% del mercato mondiale degli
elettrodomestici, ha oltre 60 mila dipendenti nei cinque continenti e 22
stabilimenti nella sola Europa.
E dire grande industria la maggior
parte delle volte significa dire multinazionale, indipendentemente che
la proprietà sia italiana o straniera.
Alcuni dati relativi alle multinazionali estere in Italia possono servire a chiarire ulteriormente la questione.
La dimensione media delle imprese controllate da multinazionali estere in Italia è di 88,6 addetti(8) contro una media italiana di 3,8 addetti per unità produttiva(9).
Le imprese controllate da multinazionali estere impiegano solo il
7,1% del totale dei lavoratori dipendenti, ma producono il 16,4% del
fatturato e il 13,4% del valore aggiunto complessivo.
E infine, ma non meno importante, il costo unitario del lavoro è più
alto del 45% per le imprese multinazionali estere in Italia rispetto a
quello sostenuto dalle imprese a controllo nazionale (quasi 46 mila euro
contro quasi 32 mila).
Certamente si sta parlando dei dipendenti diretti e non certo di quelli dell'indotto.
Ma il problema è appunto quello di riconcentrare nella stessa impresa
i lavoratori dei fornitori, dei terzisti e dei servizi esternalizzati,
senza però offrire loro un aumento di salario.
CONTRO IL PIANO DEL CAPITALE
E' necessario sottolineare che l'attacco ai salari e ai diritti non è solo il prodotto dell'arroganza padronale, ma è anche la conseguenza inevitabile del nuovo piano di reindustrializzazione.
La resistenza è necessaria, ma se
non si mette in discussione il piano del capitale, se non si elabora una
diversa prospettiva di sviluppo, la resistenza
da sola difficilmente riuscirà ad avere ragione di una ristrutturazione
produttiva che verrà rappresentata come l'unica prospettiva possibile
di uscita dalla crisi e che sarà anche percepita come tale dalla maggior
parte dei lavoratori e delle lavoratrici.
Per questo la vertenza Electrolux e
tutte le altre vertenze aperte dal padronato per ottenere una riduzione
dei salari e una cancellazione dei diritti dei lavoratori non riguardano
solo la lotta sindacale, ma chiamano in campo direttamente la lotta
politica, la critica al piano del capitale e la capacità di costruire
una prospettiva di società altra e contrapposta a quella dominante.
Anche perché quelli fin qui delineati sono solo i più evidenti tra gli "effetti collaterali" del nuovo piano di reindustrializzazione, ma non certo gli unici.
Questo piano allude ad una nuova divisione internazionale del lavoro, sia a livello globale, sia soprattutto all'interno dell'Unione Europea, che è di fatto il "convitato
di pietra" presente a tutti i tavoli di concertazione in cui impone con
i suoi vincoli e i suoi diktat il punto di vista del grande capitale
imperialista europeo.
Che è poi quello di ridisegnare
le periferie interne ed esterne alla UE decidendo dai propri centri
direzionali quali debbano essere i luoghi del lavoro e quali quelli del
non lavoro. Quali siano i settori produttivi da salvare e quali siano
invece le periferie da far precipitare nella disoccupazione per
costringere la forza lavoro all'emigrazione o anche semplicemente per
calmierare il costo del lavoro.
A tutto questo si può rispondere solo con una prospettiva
di cambiamento di altrettanto ampio respiro, che unisca i lavoratori
delle periferie interne ed esterne all'Unione Europea contro la
borghesia imperialista europea.
NOTE
1)
Micro impresa: da 1 a 9 addetti; piccola impresa: fino a 49 addetti;
media impresa: fino a 249 addetti; grande impresa: almeno 250 addetti.
2) Istat. Noi Italia 2010. Composizione della struttura produttiva http://noi-italia2010.istat.it/index.php?id=7&user_100ind_pi1[id_pagina]=15&cHash=3af4f87fc1
3) Database Ameco - Commissione Europea http://ec.europa.eu/economy_finance/ameco/user/serie/SelectSerie.cfm. Quadro 6.4 Average annual hours worked per person employed (NLHA)
4) Istat. Conti economici nazionali. Periodo di riferimento Anni 1970-2010. Pubblicato venerdì 15 aprile 2011. PIL: Tavola 21 - Valore aggiunto ai prezzi al produttore. Costo del lavoro: Tavola 27 - Redditi da lavoro dipendente. Numero lavoratori dipendenti: Tavola 47 - Occupati dipendenti http://www.istat.it/it/archivio/43009
5)
Istat. Serie storiche. Unità locali e addetti delle imprese per regione
ai Censimenti 1951-2001
http://seriestoriche.istat.it/index.php?id=7&user_100ind_pi1[id_pagina]=197&cHash=03482504064221991b3800338a0a3801
6)
Nel 2000 il costo unitario del lavoro al lordo dei contributi
obbligatori pagati dal datore di lavoro in Italia era di circa 27.700
euro mentre in Germania di 31.400 e in Francia di 30.200 (valori a
prezzi correnti). Database Ameco - Commissione Europea
7)
Unindustria Treviso: Sottoscritto il patto per lo sviluppo della
Provincia di Treviso da Unindustria e CGIL – CISL – UIL per rafforzare
le relazioni industriali e rilanciare lo sviluppo produttivo e
occupazionale. http://www.unindustria.treviso.it/confindustria/treviso/istituzionale.nsf/0/B9C7D0842AA05189C12578310033CD88?opendocument
8) Istat. Struttura e attività delle multinazionali estere in Itali. http://www.istat.it/it/archivio/107392
9)
Istat Struttura e dimensione delle imprese - Registro statistico delle
imprese attive (Asia). http://www.istat.it/it/archivio/106814
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