La vita di Enrico Berlinguer meriterebbe
di esser nuovamente esaminata in un’ottica non tanto individualistica e
soggettiva quanto piuttosto di “cambiamento strutturale”, vale a dire
come occasione per una rilettura delle dinamiche del processo storico
che fortemente condizionarono la sua vicenda politica. Da un approccio
storico-critico alla vita di uno dei leader più carismatici del
principale partito comunista d’Occidente si potrebbero trarre spunti di
riflessione non banali anche per l’analisi dell’attuale fase politica.
Il film “Quando c’era Berlinguer”, di
Walter Veltroni, purtroppo non fornisce molti elementi utili in questa
direzione. La pellicola si avvale in larga misura della potenza
evocativa delle immagini di repertorio; per esempio indugia ancora una
volta sul rito funebre, sull’impatto visivo del tributo di una folla
ammirata e commossa. L’emozione di quel grande omaggio collettivo sembra
spandersi lungo l’intera sequenza del film, arrivando per certi versi a
condizionare pure i momenti riflessivi del documento. Gli spezzoni in
cui la regia abbandona i canoni dell’opera agiografica per offrire
occasioni di reale approfondimento critico sono rari: una sorta di
eterogenesi dei fini rispetto alle intenzioni di fondo dell’autore.
E’ questo il modo giusto per onorare la
straordinaria vicenda politica di Enrico Berlinguer? I motivi di dubbio
non mancano: il rischio di simili operazioni è quello di ossificare
anziché attualizzare, di indurre a una superficiale celebrazione
piuttosto che stimolare uno sforzo critico di comprensione. Eppure la
vicenda di Berlinguer si colloca non soltanto in una fase storica di
acutizzazione del conflitto tra capitale e lavoro ma anche in un
decisivo crocevia della contesa intercapitalistica continentale e del
relativo, tormentato processo di integrazione europea; un crocevia per
più di un verso irrisolto, come testimoniano le attuali difficoltà
dell’Unione monetaria europea.
Nel tentativo di contribuire a una
discussione non agiografica sul ruolo del segretario del PCI anche in
rapporto a quella contesa, riporto qui di seguito alcuni passi dedicati a
Berlinguer tratti dal capitolo “Il fascino discreto dell’austerity”, in
Emiliano Brancaccio e Marco Passarella, L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa
(Il Saggiatore, Milano 2012). Una modalità meno agevole di ricordare
Berlinguer ma di cui forse lui stesso avrebbe riconosciuto l’esigenza,
considerate anche sue le doti – raramente celebrate – di fruitore non
banale del metodo storico-materialista.
Emiliano Brancaccio
[...] Nel discorso di fine anno il
Presidente Napolitano ha ribadito: benché indubbiamente gravi in larga
misura sulle spalle dei lavoratori subordinati e dei meno abbienti, la
politica di austerità è necessaria affinché l’Italia si impegni per
salvaguardare le sue finanze e il suo ruolo nell’Europa unita.
Napolitano riconosce che non tutto
dipende da noi, e si appella agli altri paesi europei per riesumare
tutti assieme l’affossato spirito comunitario. Egli tuttavia sembra
persuaso dall’idea della Cancelliera Merkel che l’Italia e gli altri
paesi del Sud Europa «debbono fare i compiti» se intendono mostrarsi
capaci di rimborsare i debiti accumulati, così da riconquistare la
fiducia dei mercati e dei paesi leader della zona euro. I creditori si
attendono insomma molto, da noi. Se li deludiamo ci manderanno in
rovina. Se invece plachiamo i loro timori e confortiamo le loro
speranze, potremo dare inizio a una nuova stagione di crescita
economica, di benessere sociale e magari, dopo gli anni bui del
berlusconismo, persino di progresso civile.
La sensazione di un deja vu è palpabile.
Del resto, non è la prima volta che autorevoli esponenti della sinistra
indicano il lavacro dei sacrifici quale soluzione necessaria per la
salvezza economica e il rinnovamento politico nazionale. Nel corso degli
anni Settanta, sulla scia della crisi petrolifera e della cosiddetta
stagflazione, fu nientemeno che Enrico Berlinguer a introdurre con
insistenza nel lessico della sinistra espressioni come «rigore», «duro
sforzo», «tensione eccezionale» e, per l’appunto, «austerità». Il
culmine venne forse raggiunto nel 1977, in un celebre discorso al Teatro
Eliseo, quando Berlinguer presentò la politica di austerità come una
«scelta obbligata e duratura […] condizione di salvezza per i popoli
dell’occidente e […] in modo particolare, per il popolo italiano». Per
Berlinguer invocare l’austerità significava «abbandonare l’illusione che
sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella
artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi,
di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle riserve, di
dissesto finanziario». Non si trattava di parole gettate lì per caso.
Quei termini riflettevano lo spirito del tempo, e in particolare quel
tormentato, incompiuto processo di avvicinamento del più grande partito
comunista d’occidente alle soglie del governo nazionale. L’impatto di
quelle espressioni sull’opinione pubblica non fu tuttavia dei più
agevoli. Molti intravidero nella linea del segretario del Pci l’annuncio
di un ritorno alle privazioni da cui i ceti più deboli del paese si
erano soltanto da poco affrancati. Altri l’attaccarono strumentalmente,
scorgendo in essa un’opportunità per contrastare l’avanzata dei
comunisti verso le leve del potere. Da più parti, dunque, per intenti
più o meno manifesti, Berlinguer venne tacciato di «savonarolismo»,
vocazione «monacale», «moralismo» finalizzato solo a giustificare una
ulteriore stretta sulla «cinghia dei poveri». Eppure il segretario
comunista concepiva la politica di austerità anche nei termini ambiziosi
di una scelta caratterizzata da «un avanzato, concreto contenuto di
classe». A suo dire, attraverso di essa, il movimento operaio si sarebbe
fatto portatore di «un modo diverso del vivere sociale», attento alla
qualità dello sviluppo, alla salvaguardia dell’ambiente e del
territorio, e alla connessa esigenza di spostare gli obiettivi generali
della produzione dallo stimolo ai consumi privati al soddisfacimento dei
bisogni collettivi. Berlinguer proponeva insomma una concezione
peculiare dell’austerità, intesa come una «programmazione dello sviluppo
che abbia come fine la elevazione dell’uomo nella sua essenza umana e
sociale», e che per questo fuoriesce «dal quadro e dalla logica del
capitalismo».
E’ palese la distanza che separa questa
visione dal significato che la parola “austerità” ha assunto nei
successivi anni Novanta, durante i quali gli eredi di Berlinguer
assicurarono i consensi necessari alla prima, vera svolta tecnocratica
del paese, incarnata da Ciampi e dai suoi boys. Ed è forse ancor più
accentuato il divario rispetto al significato che oggi Napolitano
attribuisce al termine, inteso senza nascondimenti come un doveroso
tributo ai mercati finanziari e ai creditori. Sarebbe tuttavia un errore
separare nettamente i giudizi su queste diverse concezioni
dell’austerità, dal momento che un filo logico lega la vecchia alle
nuove. Tutte, infatti, sono state ispirate dalla comune esigenza di
misurarsi con quello che in gergo economico si definisce un «vincolo
esterno». Per Berlinguer, in ultima istanza, era il vincolo di render
compatibili l’ascesa comunista al governo con l’esigenza di una più
stabile integrazione del paese negli assetti di potere continentali,
fino alla prospettiva dell’ingresso nel Sistema monetario europeo (al
quale, se la stagione della solidarietà nazionale fosse proseguita, i
comunisti non avrebbero negato il consenso). Per Napolitano, è il
vincolo ancor più stringente di mantenere saldamente l’Italia nel
perimetro dell’Unione monetaria europea, anche a costo di vedere il
sistema produttivo nazionale definitivamente ridotto al rango di mera
appendice dell’economia tedesca. La questione, tuttavia, non è
semplicemente economica. Come vedremo nelle prossime pagine, sul piano
analitico il vincolo esterno non si concretizza semplicemente in un
problema di sostenibilità dei conti pubblici ma riguarda piuttosto la
tenuta della posizione finanziaria verso l’estero nelle sue varie
declinazioni, e per questa via solleva una questione di compatibilità
tra il corretto funzionamento di una democrazia sovrana e il
rafforzamento di un legame di dipendenza con i meccanismi di
riproduzione del capitale finanziario internazionale. Man mano che quel
legame di dipendenza si fa più stretto, il cosiddetto vincolo esterno
può esigere dosi sempre più massicce di austerity e può quindi
trasformarsi in un nodo letale per i diritti sociali e la partecipazione
politica, in un cappio al collo del processo democratico. Beninteso,
nessuno dei protagonisti citati è stato mai all’oscuro del prezzo, per
la democrazia, di una subordinazione al cosiddetto vincolo esterno. In
linea di principio, la loro ambizione era ed è quella di collocare la
sfida per la democrazia ad un livello più alto, sovranazionale:
addirittura l’eurocomunismo, per Berlinguer; più modestamente un
rafforzamento delle istituzioni parlamentari europee, per Napolitano.
Oggi come ieri, tuttavia, la storia sembra muovere in un’altra
direzione. Il motivo in fondo è semplice: in nessun caso la volontà
politica di integrazione è stata accompagnata da una forza d’urto in
grado anche solo di provare a mettere in discussione la logica del
regime di accumulazione che governava le relazioni internazionali. [...]
Testo tratto dal capitolo “Il fascino discreto dell’austerity”, in Emiliano Brancaccio e Marco Passarella, L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa, Il Saggiatore, Milano 2012. La riproduzione è consentita citando la fonte.
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