Nella nuova modalità della politica fatta a passo di corsa, e forse
proprio perché non ci si può stare troppo a pensare, c’è il rischio di
trasformare la discussione sui fatti in una discussione sulle parole.
Per esempio le parole “svolta autoritaria”, usate dai critici delle
riforme, possono essere ammesse per descrivere il fatto che mezzo
Parlamento è abolito, e l’altro mezzo è eletto a suffragio ristretto,
sicché quasi mezzo Paese, per trucchi, premi e sbarramenti, non può
avervi rappresentanza? No, sostiene il
giovane governo, non sono cose da dirsi, e le respinge al mittente con
l’argomento di non aver giurato sulla Costituzione dei professoroni,
anche se ha giurato sulla Costituzione fatta dai professorini.
Lasciamo stare dunque le parole, e stiamo ai fatti. I fatti sono le
innovazioni istituzionali, intraprese con vitale ardore. Si direbbe: per
andare avanti. E tutti plaudono per questo. Ma è con grande stupore
che si vede come queste riforme giovanili sono tutte vecchie, si
gloriano di essere quelle stesse riforme già proposte trent’anni fa e
finora abortite, e quando non hanno precedenti così prossimi affondano
le loro radici ancora più lontano nel tempo.
Si prenda ad esempio la proposta di rafforzare i poteri del primo
ministro, di rendere la Camera più servizievole rispetto alle esigenze
operative del governo. Ma questa è una cosa che si sta facendo da Craxi
in poi, che ha perseguito per vent’anni Berlusconi, che si è attuata
attraverso drastiche forzature dei regolamenti parlamentari, fino ai
tempi contingentati, ai dibattiti con ghigliottina, ai calendari
parlamentari che sembrano un orario ferroviario, con la data e l’ora
precisa fissata per l’entrata e l’uscita delle leggi. Il problema
sarebbe invece quello di inventare nuove procedure non autoritarie di
cooperazione tra Camera e governo, in cui la fiducia non sia posta per
stroncare il Parlamento, ma per renderne più rigoroso e sobrio l’apporto
a vantaggio della legislazione e dell’esecutivo.
La legge elettorale è vecchia di novant’anni
Si prenda la legge elettorale. Qui il ritorno è al 1924, alla legge
Acerbo che dava i due terzi dei seggi (furono 355) al listone fascista
vincente. Però quella legge non sbarrava la porta alle altre forze
politiche della tradizione italiana e furono dodici i partiti non
fascisti che giunsero in Parlamento. C’erano anche Gramsci, Matteotti,
De Gasperi. Per questo il fascismo, avendone i numeri, dovette fare il
regime. Il problema oggi sarebbe non di peggiorare la legge Acerbo,
offrendo la vittoria alla destra e lasciando entrare alla Camera solo
uno o due partiti oltre di essa, come fa l’“Italicum”, ma di
riequilibrare, come ha chiesto la Corte costituzionale, rappresentanza e
governabilità, evitando di fare della Camera la città proibita da cui
gli scarti sono esclusi.
Si prenda il decreto sul lavoro. Qui il ritorno è al 1891, alla situazione descritta dalla “Rerum Novarum”
di Leone XIII, quando si diceva che “la quantità del salario la
determina il libero consenso delle parti: sicché il padrone – si
scandalizzava il papa – pagata la mercede, ha fatto la sua parte, né
sembra debitore d’altro”; e quando – soggiungeva l’enciclica – accadeva
che gli operai, privi di ogni tutela associativa, “rimanessero soli e
indifesi in balia della cupidigia dei padroni e di una sfrenata
concorrenza”. Oggi almeno per trentasei mesi i lavoratori assunti con
contratti a termine senza altri obblighi da parte dei padroni sono
appunto in questa condizione, e questa sarebbe la riforma, quando invece
la novità sarebbe stata di avviare un processo per cui il lavoro, come
vorrebbe il costituzionalismo e come chiede la Chiesa, non fosse
abbandonato come una merce al libero gioco della domanda e dell’offerta,
ma gli fosse data effettività come diritto.
Da un Senato dei campanili a un Senato dei popoli
Si prenda infine la questione del Senato. Qui il tripudio è maggiore
perché sembra che da alcuni decenni gli italiani non anelassero ad altro
che alla sua soppressione. Tuttavia con la proposta del Senato delle
Autonomie l’irresistibile attrazione del passato sembra spingere ancora
più indietro, fino alla situazione descritta nel “Gattopardo” quando nel
1860 il nobile cavaliere piemontese Aimone Chevalley di Monterzuolo
scese fino a Donnafugata per chiedere al principe di Salina di andare a
sedere nel Senato come notabile siciliano “prescelto dalla saggezza del
Sovrano”, per rappresentare il vecchio regno nel nuovo, in modo che
tutto cambiando, tutto restasse immutato.
Si dovrebbe invece rovesciare lo sguardo. Se il vero Senato deve
essere sacrificato, allora invece di un Senato di ex province, di
campanili, di regioni e di notabili di nomina quirinalizia, una grande
riforma sarebbe quella che desse vita a un Senato dei popoli, che
proiettasse l’Italia oltre la dimensione nazionale ed europea, e la
facesse promotrice di una Costituzione mondiale tesa a realizzare “un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni”. Questo è
un obbligo costituzionale derivante alla Repubblica dall’art. 11 della
Carta; e quest’obbligo, benché abbia ispirato e suscitato straordinarie
iniziative ed esperienze dal basso, sia di movimenti popolari che di
Enti locali, non ha ancora trovato un organo istituzionale che lo assuma
e lo onori.
Mentre c’è una globalizzazione che attende la sua idea fondatrice,
una comunità umana che deve assumere la responsabilità della
conservazione e della sostenibile evoluzione del mondo,
un’organizzazione delle Nazioni Unite che deve ritrovare il suo spirito e
la sua spinta propulsiva originaria, a Roma potrebbe insediarsi un
Senato dei popoli per redigere e proporre una Carta dell’epoca nuova.
Esso potrebbe essere formato da due rappresentanti, una donna e un uomo,
di ciascuno dei 193 Stati membri dell’ONU, dei due Stati non membri,
Santa Sede e Palestina, e da alcuni rappresentanti della Conferenza
delle Nazioni senza Stato d’Europa (CONSEU) e dell’Organizzazione delle
Nazioni e dei Popoli non rappresentati (UNPO). Almeno all’inizio, molti
di questi rappresentanti potrebbero essere gli stessi diplomatici di
questi Paesi e popoli già accreditati a Roma. L’Italia, oltre ai suoi
due rappresentanti, potrebbe fornire al Senato dei popoli un collegio di
giuristi e altre persone di esperienza per un supporto culturale
politico e di ricerca ai lavori dell’assemblea.
Se veramente si vuole il nuovo, se non si vuole essere “vecchi,
vecchissimi”, come diceva di sé e dei suoi siciliani il principe di
Salina all’inviato piemontese, non si deve riciclare il vecchio ma
rispondere con nuove istituzioni e idee a esigenze e a speranze nuove.
Raniero La Valle, da “Rocca”
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