«Certo, Socrate, la filosofia è un’amabile cosa, purché uno vi si
dedichi, con misura, in giovane età; ma se uno vi passi più tempo del
dovuto, allora essa diventa rovina degli uomini», tanto più se s’intende
amministrare la città.
Così dice Callicle nel Gorgia, il dialogo
platonico dedicato alla Retorica, e aggiunge che «chi si attardasse
più tempo del dovuto» su quel sapere astratto, e pretendesse di dir
la propria sulle cose della Polis, finirebbe per infastidire
e intralciare, perché inesperto delle “cose del mondo”: degli
“affari” privati e pubblici, «dei costumi degli uomini normali»,
tanto da «rendersi ridicolo allo stesso modo in cui si rendono
ridicoli i politici quando s’intromettono nelle vostre dispute e nei
vostri astrusi ragionamenti». E’, il suo, il primo esempio – un
archetipo – di quel disprezzo per la conoscenza e per i“sapienti” (per
gli intellettuali, appunto) che ritornerà infinite volte nelle zone
grigie della storia.
Su chi fosse Callicle si hanno poche informazioni.
Compare come una meteora in quest’unico dialogo, e poi scompare. Di
lui si sa solo che era un giovane (più giovane di Socrate e anche di
Platone) molto ambizioso. Che militava nel partito oligarchico.
E che era un sofista nel senso pragmatico del termine, cioè un
fautore di quell’intreccio tra sapere e affari che si praticava nella
scuola di Gorgia (sorta di Cepu dell’età classica), e di quell’idea
della Retorica come arte della persuasione altrui che teorizzava il
primato del Discorso sulla Giustizia, sfornando schiere di
primigenii Ghedini ateniesi. Volendo fare il gioco della
trasposizione dall’Atene del IV secolo a.c. alla nostra disastrata
Città, potremmo dire che Callicle incarnava in sé un po’ di Renzi
e un po’ di Berlusconi.
Del primo aveva, oltre all’età e all’ambizione, il
mito dell’energia e della forza, e l’insofferenza (tipica anche
dell’altro) per le regole e le leggi, considerate impacci. Peggio,
invenzioni di «uomini deboli e del volgo» fatte per frenare i forti, i
«ben dotati dalla natura», — i “veloci”, potremmo dire, o i furbi —
e impedir loro di fare «e di prevaricare» (testualmente
nell’originale) come richiederebbe invece il «diritto di natura», il
quale risponde alla regola del fatto compiuto, del diritto del più
forte e del più capace a «scrollarsi di dosso» e «fare a pezzi…
i nostri scritti, incantesimi, sortilegi e leggi, che sono tutti
contro natura». Del secondo (e solo di questo) condivideva il culto
per la sensualità e l’intemperanza, per la dilatazione del
desiderio e del piacere come culmine della felicità, nella
convinzione che «colui che intende vivere con rettitudine [«secondo
natura»] deve lasciare che i propri desideri s’ingigantiscano il più
possibile e non deve mettervi freno» per «saperli servire, con
coraggio e accuratezza» una volta che essi abbiano raggiunto il
culmine. Pulsioni, umori, diversi, ma in qualche misura unificati
dalla comune ostilità – dall’odio rivestito di disprezzo — per la
riflessività, il lavoro, inevitabilmente più lento e meno ferino,
del pensiero. I suoi moniti e le sue dubbiosità. In una parola per il
ruolo storico dei cosiddetti “intellettuali”.
Sembra impossibile, ma è così. Ogni volta che il
nostro Paese riscopre il fascino cupo del carisma come extrema ratio,
è lì che ritorna, alla velocità della luce: a quell’archetipo tossico
che contrappone l’Azione al Pensiero. Il Demiurgo al Riflessivo. Il
Fare al Pensare. E addita nell’“intellettuale” il nemico della Patria.
Il pedagroso posapiano che rallenta gli arditi. L’ostacolo pignolo al
radioso futuro che il piè veloce Achille promette e manterrà.
E’ successo una trentina di anni fa con Craxi, nel
momento in cui la Prima Repubblica entrava nella sua fase comatosa
(ricordate l’invettiva contro gli «intellettuali dei miei
stivali»?). E si è ripetuto una ventina di anni or sono, con
Berlusconi, quando nacque (male, malissimo) la cosiddetta Seconda
Repubblica, nell’odore di fango e nella marcia trionfale dei media.
Era successo, con aspetti ben più tragici, quasi un secolo or sono,
con la crisi dello stato liberale e l’avvento del mussolinismo.
Succede oggi – si parva licet – con Matteo Renzi, al suo esordio come
improbabile salvatore della patria. Ogni volta si è assistito
all’esibizione dello stesso lessico, con poche variazioni. E chi
richiamava all’opportunità di soffermarsi sulla problematicità
dell’accadere, sulla sua complessità non riducibile con le parole
magiche, è stato liquidato con una catena di termini che vanno dal
postbellico ““disfattista” e “imbelle”, al denigratorio “insulso”
(«insulso intellettuale» fu la formula con cui Mussolini invitò il
Prefetto di Torino a perseguitare Gobetti) ai più didattici
«professoroni» o «professorini» (in qualche caso
«professorucoli»), all’enfatico «Soloni» o «sapientoni», oltre
i quali la creatività dei critici della critica non sa andare. Né la
cosa stupisce. Fa parte dell’ordine delle cose il fastidio per la
fatica del pensiero e l’affidamento all’uomo che risolve, tanto più
quando non s’intravvedono soluzioni possibili.
Quello che può incuriosire, piuttosto,
è l’estensione della ragnatela oggi, che giunge a lambire figure che
si credevano esenti da queste folgorazioni sulla via del
Nazareno: non più i soliti Feltri e Belpietro, se possibile i meno
aggressivi per esaurimento delle batterie, ma i Gramellini,
i Menichini, le ministreboschi, gli editorialisti
dell’Unità e di Europa, gli spin doctors di complemento del Tg3, su
lunghezze d’onda non dissimili dai vari Gasparri (memorabile per
volgarità la sua mimica sulla lunghezza delle parrucche di
Zagrebelsky e Rodotà, ma non molto diversa da quella del
vicedirettore della Stampa sulle «vecchie cinture di castità» …),
tutti ad accanirsi contro l’intellettuale frenatore, il
disincantato disincantatore, lo scettico blu che spegne i sogni,
il fastidioso acribioso che cerca sempre il pel nell’uovo alla mensa
dei giganti… E’ molto probabile che alcuni di questi “persuasi”
proveranno un giorno vergogna del proprio involgarimento, una
volta svanito l’effetto della fascinazione. Ma resta l’interrogativo
sull’origine misteriosa di quel fascino improvviso. Che carisma
è questo, che bypassa ogni lezione della storia, e fa cadere ogni
barriera all’accesso alle menti, tanto da cancellare decenni di
cultura critica, razionalista e democratica perché colpisce,
ora, anche quei settori che si erano fino ad ora difesi dall’“invasione
degli Iksos”?
Non è il carisma guerriero del Benito Mussolini delle origini,
uscito dalle tempeste d’acciaio e dalle trincee di fango. E nemmeno
quello del Craxi-rapinatore di passo (Ghino di Tacco), fondato sul
ricorso a una spregiudicatezza inedita nella storia della
sinistra italiana nell’assalto alle banche e alle diligenze. O il
carisma proprietario e genitale del Berlusconi re del video
e delle veline finalmente spogliate. Il suo sembra più il carisma
virtuale – e impalpabile — della vertigine. Il trauma della
velocità come metafora (e surrogato) dell’energia e come tecnica di
convincimento. L’essere ogni volta altrove, rispetto al luogo dei
problemi, così da apparirne il solutore (e il salvatore).
E’, in fondo, a ben guardare, la tecnica dell’illusionista. Il
segreto del prestige, inteso come gioco di prestigio, in cui la
rapidità del movimento e l’uso del diversivo – del gesto che
distoglie l’attenzione – sono la chiave del successo, e permettono
a chi sta sul palco di conquistare la dedizione del pubblico
pagante. Renzi in questo è maestro: fa comparire, e subito dopo
scomparire, la legge elettorale, una volta verificato che di lì
non si passa, subito sostituita, coniglio dal cilindro, dal Jobs
acte dalle slides, esibendo gli 80 euro in busta paga mentre
scompaiono in un foulard viola pezzi di sistema sanitario e di
servizi sociali o interi blocchi di patrimonio pubblico avviati
alla privatizzazione. Dice di aver abolito le province, come
promesso, e quelle se ne stanno sempre lì, intatte sotto il tappeto
porpora del tavolo, non più elettive ma pur sempre integre. Prepara
la Grecia, ma sembra la Germania. Finge un batter di pugni mentre
in realtà batte i tacchi. Ma non importa, gli occhi sognanti del
pubblico sono persi nel volo di colombe e guai a chi, restando fermo
nel vertiginoso movimento, scruta sotto il mantello per cogliere il
trucco.
L’odiato intellettuale è odiato per questo.
Perché minaccia di svelare il prestige. Di disincantare
l’illusione. Nemico condiviso di tutti gli spettatori che, incapaci
di partecipare alla soluzione del problema, preferiscono
vedersi rappresentata la materializzazione della speranza. La
sua filosofia è pericolosa, come lo fu l’occhio ingenuo del
bambino che rivelava la nudità del re. Passerà probabilmente, come
tutte le infatuazioni. Ma intanto sarà dura. Unica consolazione:
la constatazione che oggi, dell’“uomo di mondo” Callicle – che
contrariamente all’“insulso” e “ingenuo” Socrate non inseguiva le
nuvole e le idee -, nessuno ricorda neppure più il nome.
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