di Renato Covino
Le interpretazione dei ballottaggi nei comuni umbri con più di 15.000 abitanti sembrano semplici: vince il centrodestra e perde il centrosinistra; punita l’arroganza di qualche sindaco Pd: l’alleanza centrodestra e liste civiche punisce il Pd. Incidenti di percorso che non coinvolgono i nuovi gruppi dirigenti del Pd, ma sono il frutto di quanto di vecchio si annida nel partito.
In realtà la cifra politica di quanto avvenuto è più complessa delle spiegazioni evenemenziali e riguarda una questione più rilevante che è riassumibile nella crisi dei sistemi politici locali. In primo luogo. Già alle europee c’era stato un calo dei voti validi superiore di circa 7 punti percentuali rispetto al 2009, che è ulteriormente aumentato alle comunali di qualche altro punto. Ai ballottaggi tale dato è ulteriormente diminuito, nel migliore dei casi del 10% (Orvieto) nel peggiore di più del 20% (Terni).
Insomma l’8 giugno in Umbria più del 50% degli elettori si sono astenuti dal voto o non andando proprio ai seggi o votando bianco o annullando la scheda. Quando l’astensione raggiunge simili livelli non si tratta tanto solo di un elemento di disaffezione, ma di un segnale politico. Gli elettori non si accontentano più di votare il meno peggio ed individuano, come poco significative, le differenze tra i diversi partiti e i candidati, ma soprattutto lontane da quelli che sono i loro interessi. In secondo luogo, venendo ai voti validi, emerge un dato significativo. Il Pd alle comunali prende percentuali che si distaccano in modo rilevante da quelle delle europee e che sono analoghe e spesso peggiori di quelle delle comunali del 2009.
Non si tratta solo dell’insipienza e della scarsa attrattività dei singoli sindaci, ma del frutto che consolidati equilibri politici e sociali tendono a dissolversi sotto l’urto della crisi economica che ha fatto venire meno presunte rendite di posizione. In altri termini, almeno in Umbria, l’effetto Renzi non si è automaticamente trasferito nel voto amministrativo. Se si passa poi ai ballottaggi il dato diventa drammatico. Il sindaco di Terni viene eletto da poco più di 20.000 votanti su circa 87.000 elettori, quello di Foligno con circa 10.000 su 43.513 aventi diritto al voto e via di seguito.
Il voto della destra non è molto diverso. A Perugia il nuovo sindaco viene eletto con circa 35.000 voti su 125.000 elettori, a Spoleto 8.835 voti, su poco più di 30.000 aventi diritto al voto, incoronando Cardarelli. C’è di più: il centrodestra vince mascherandosi da aggregazioni civiche, da comitati di liberazione dei comuni con la complicità delle liste civiche, almeno nel caso di Perugia. Vince mettendo da parte la sua anima di destra, il suo progetto di società, ammesso ne abbia uno. Quello che emerge è un sistema politico locale in disfacimento, una rappresentatività delle istituzioni sempre minore, una crisi dei partiti che per molti aspetti appare irreversibile e destinata, nonostante le promesse di rinnovamento e di autoriforma, a riprodursi.
Non basta. L’impressione è che tranne alcune torsioni di carattere ideologico ben poco cambierà. I poteri – disarticolati ed anch’essi in crisi – si acconceranno rapidamente alla nuova situazione, nascondendosi dietro il bon ton istituzionale e l’opposizione dei perdenti sarà, come si suol dire, “costruttiva”.
In un quadro di questo genere maramaldeggiare su Wladimiro Boccali appare perlomeno di cattivo gusto. Del resto i candidati voluti dalle nuove segreterie hanno, in alcuni casi, per so anche loro.
Discettare sulle responsabilità degli “antichi” e dei “moderni” in una situazione come quella attuale appare risibile. Forse varrebbe la pena di discutere e di analizzare perché il Pd, vecchio e nuovo, riesce sempre meno ad intercettare in Umbria gli umori e i bisogni di una società in sofferenza. Non avverrà. E’ più facile aprire lo scontro su chi il prossimo anno si candiderà a presidente, assessore o consigliere regionale, sperando che duri lo stellone di Renzi.
Fonte: Il Messaggero
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