“Non c’è niente da intelligente da dire a proposito di un massacro”. La famosa frase di Kurt Vonnegut andrebbe posta (d’obbligo, coraggio, basta un piccolissimo decreto legge!) all’inizio di ogni pezzo di cronaca nera che ricostruisce la vita degli assassini, veri, presunti, rei confessi o semplici accusati, sospettati, mostri conclamati, efferati sicari o ignare comparse. Dopodiché, per carità, si scriva quel che si vuole, ma quell’esergo – non c’è niente di intelligente da dire… – sia ben visibile. Nella fattispecie dei due clamorosi casi di cronaca nera di questi giorni – il marito di Motta Visconti che esegue il suo personale divorzio brevissimo e va a vedere la partita; il presunto omicida di una ragazzina restato per quattro anni nell’ombra – la frase andrebbe scritta in grassetto maiuscolo, possibilmente con un neon lampeggiante.
Poi, via ai moralismi incrociati: quello dei giornali che inanellano dettagli, sommano indizi ex-post, ricamano elucubrazioni, si lanciano in analisi psicologiche da fila a alla posta o da sala biliardo, e quello del gentile pubblico che legge morbosamente, fa collezione di dettagli, ne parla al bar e dal parrucchiere per settimane e poi magari deplora il cinismo della stampa.
Naturalmente non c’è niente da ridere. Però, siccome il ridicolo è sempre dietro l’angolo e il grottesco non si tira mai indietro, corre l’obbligo si segnalare l’uso (questo sì, esilarante) che molta cronaca fa delle pagine Facebook degli accusati. Intanto, c’è il lato pratico: finiti i tempi in cui il cronista doveva chiedere agli inquirenti una foto dell’accusato, o peggio disturbare le famiglie per avere un’immagine. Ora si apre Facebook, ed ecco il mostro ritratto nella sua vita quotidiana, quando mostro ancora non era. Coi gattini, i cagnolini, certe volte in moto, in vacanza in tenda, in costume da bagno, il giorno delle nozze. A volte non c’è scrupolo e persino le foto dei minorenni, prese dalla rete, finiscono stampate e vendute in edicola. E questo è brutto assai.
Il grottesco inizia invece quando si leggono le pagine Facebook, dove ognuno mette le amenità che crede, con la nota prevalenza della scemenza diffusa, come fossero chiari presagi, come fondi di caffè. Ecco! L’assassino ha postato la foto di una tizia in topless! Ecco! L’assassino ha postato questa frase sul matrimonio (o il sesso, la religione, il calcio, la lotta libera, la carne cruda, il Martini dry, fate voi). E tutte quelle stupidaggini che si regalano al mondo (uff, al mondo! Alla cerchia di amichetti connessi, diciamo) diventano improvvisamente e inesorabilmente tesi a sostegno di questa o quella teoria accusatoria. Indizi. Addirittura prove. Eppure amava i gattini! (stupore)… Era ossessionato dal sesso! (magari per una qualche battuta che qualunque uomo adulto dai 12 al 98 anni può fare al bar). Eccolo quando si è tagliato i capelli! Non c’è dettaglio che , visto col senno di poi (dopo l’arresto, dopo l’accusa, dopo l’omicidio) non possa essere visto alla luce di una rivelazione psicologica. Guardava nell’obiettivo con gli occhiali da sole! Sospetto, eh! Si lamentava della suocera! Sia messo agli atti!
Si capisce bene il dramma. Non il dramma delle vittime e degli assassini. No, il dramma del cronista che invece di trenta righe è chiamato a vergare il feuilletton definitivo, il romanzo del Male, il ritratto del Mostro in più pagine. Allora corre su Facebook e scopre che l’assassino, chissà, amava andare a pesca. Ecco! Aveva l’istinto del predatore! Poi scrive “presunto”, e se la cava così.
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